Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
Avevo parlato proprio poco tempo fa del fatto che alcune volte ad un recensore spetta l’ingrato compito di dover affrontare dischi e generi che normalmente eviterebbe ben volentieri, non rientrando nei canoni di gusto che ognuno di noi possiede.... e, guarda caso, mi capita nuovamente di dover recensire un lavoro che, nella normalità dei casi, avrei di certo evitato; ma eccoci qua e cerchiamo di giudicare “asetticamente” senza badare ai gusti personali. Gli Hate Tyler, band alessandrina nata grazie all’iniziativa del chitarrista Marco Pastorino (anche con Bejelit, Secret Sphere e The Ritual) e del bassista Luca G. Negro (anche lui nei The Ritual), con questo “The Great Architect” dalla piacevole copertina arrivano al proprio debutto discografico per l’etichetta This Is Core Music (un nome, un programma!). Il genere proposto dalla band italiana è un metalcore edulcorato da tinte prog, con ampio uso di clean vocals che, almeno per il sottoscritto, non guastano assolutamente! “The great architect” (riferimenti alla massoneria? Non saprei...) è composto da 9 pezzi, per meno di 40 minuti di musica alquanto arrabbiata e sempre ruvida e violenta, come il genere particolare impone. Fa un po’ eccezione la più melodica (oserei quasi dire “romantica”!) “Anything Else”, pezzo alquanto avulso dal contesto e molto più classicamente heavy degli altri che, fatalità, è la mia preferita dell’album. A livello tecnico, la preparazione della band è fuori discussione, così come il gusto per gli arrangiamenti e gli assoli delle chitarre del già citato Marco Pastorino e di Federico Maraucci; la registrazione, invece, per i miei canoni, non rende giustizia alla batteria, dato che trovo il rullante alquanto “freddo” e poco corposo (qualcuno utilizzerebbe il termine “stile fustino del Dash”...). Se amate i Pantera o, in genere, la musica metalcore più genuina (non quella costruita a tavolino, come spesso capita di sentire da oltre-oceano), direi che questi Hate Tyler possono fare al caso vostro, soprattutto se non siete fanatici del growling/screaming a tutti i costi.
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A distanza di circa 3 anni dallo splendido debut “Word to the wise”, tornano i talentuosi Clairvoyants con un nuovo album, intitolato “The shape of things to come”, di cui ad essere sinceri non mi ha fatto impazzire la copertina. Chiariamo subito una cosa: se il debut era decisamente orecchiabile ed estremamente godibile e coinvolgente, questo nuovo disco non è così immediato e necessita di attenti ascolti per poter essere compreso appieno in tutta la sua potenzialità. Ho dovuto ascoltare parecchie volte questi 11 pezzi per poter “assimilare” la proposta musicale della band italiana; all’inizio, infatti, ero rimasto parecchio scontento e non nascondo che, se avessi scritto questo testo dopo un paio di ascolti (come molti miei “colleghi” meno coscienziosi fanno), quasi sicuramente non avrei espresso giudizi lusinghieri! Fortunatamente sono alquanto “cocciuto” e non mi sembrava possibile che i Clairvoyants mi deludessero a questa maniera ed ecco che, ascolto dopo ascolto, riuscivo ad assaporare particolari non notati in precedenza, arrivavo ad apprezzare passaggi che magari in precedenza non mi avevano impressionato o mi erano semplicemente sfuggiti. Di certo la prima parte dell’album è molto più “fruibile”, con brani di impatto immediato ed estremamente coinvolgenti come la splendida opener “No need to surrender” (la mia preferita), la ritmatissima “Endure and survive” e la lunga title-track “The shape of things to come”; nella seconda parte, invece, ci sono brani che necessitano di maggiore attenzione nell’ascolto, forse anche maggiormente complessi, come “Sinner’s tale”, la lunga conclusiva “Horizon calling” o l’hard-rockeggiante “To heaven and back” (un po’ avulsa dal contesto per dirla tutta). Per il resto, si confermano le ottime qualità dei singoli musicisti, gli assoli di gusto delle chitarre di Marco Demartini e Luca Princiotta, il grande lavoro al basso dell’eccezionale Paolo Turcatti (forse un po’ sacrificato in sottofondo rispetto al passato) e la precisione e la potenza alla batteria di Manuel Pisano; ottima anche la prova dietro il microfono del singer Gabriele Bernasconi, con la sua voce calda ed espressiva. Con questo secondo lavoro i Clairvoyants confermano di essere una grande band, sfornando un disco come “The shape of things to come” decisamente interessante che potrà andare incontro ai gusti di ogni defender che si rispetti. Non fatevelo sfuggire!
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2012
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Era il 18 novembre 2010 quando, durante le sessioni di registrazione di “Elysium”, il batterista Jorg Michael annunciava per la prima volta di dover abbandonare gli Stratovarius per curarsi dal tumore alla tiroide; il successivo rientro nella band alla vigilia di Natale dello stesso anno era solo il preludio all’annuncio definitivo del settembre 2011 ed al “Farewell tour” (sole 5 date esclusivamente in Finlandia) dedicato al suo abbandono. E questo live “Under flaming winter skies” è proprio la testimonianza del concerto a Tampere tenutosi il 19.11.2011.
Inutile negarlo, Jorg Michael, con il suo stile potente e veloce, oltre ad aver scritto pagine indelebili nella storia del metal non solo con gli Stratovarius (ricordiamo dischi, tra gli altri, con Mekong Delta, Rage, Grave Digger e Running Wild, ma anche un album con i nostri Kaledon), ha anche influenzato miriadi di giovani schiere di batteristi che hanno cominciato a suonare questo meraviglioso strumento ascoltando le evoluzioni del riccioluto tedesco. All’epoca delle prime performance di Jorg, infatti, non erano in molti ad usare uno stile così veloce e potente, ma fantasioso allo stesso tempo grazie a continui cambi di tempo, soprattutto nell’utilizzo della doppia-cassa. Con un pezzo di storia che si chiude, era pressoché doveroso per la sua band principale (con gli Stratovarius Michael, oltre a questo, ha partecipato ad altri 13 dischi, tra uscite ufficiali, live e raccolte varie) dargli un simile tributo; scelta che anche dal punto di vista commerciale è indovinata, visto il rapporto speciale che il batterista ha sempre avuto con i propri fans.
Ma torniamo ad “Under flaming winter skies – Live in Tampere”; l’opera si presenta in dvd o blu-ray (che purtroppo non abbiamo avuto a disposizione), oppure in doppio-cd (di cui appunto stiamo parlando). Per un’opera di questo genere mi aspettavo una registrazione pressoché perfetta, invece i files che ho potuto ascoltare non sono particolarmente eccelsi; mi auguro che il prodotto finale sia differente e che questa carenza sia dovuta alla scarsa qualità del prodotto messo a disposizione della stampa, altrimenti sarebbe una mezza delusione. Una band che ha fatto della pulizia del suono una delle proprie bandiere, come appunto gli Stratovarius, non può concedersi simili disattenzioni! Dalle casse del mio pc, infatti, è uscito un suono alquanto sbilanciato (ed a nulla sono valsi i miei tentativi con vari programmi di equalizzazione), con il volume del pubblico alquanto elevato, alti direi eccessivi e poca “profondità” del suono stesso; lo ripeto, mi auguro che questo particolare difetto sia solo dovuto alla scarsa qualità dei files ricevuti e che sull’opera in commercio tutto sparisca magicamente. La scaletta scelta, oltre ad un paio di evitabilissime covers (“Burn” e “Behind blue eyes”), è incentrata sui maggiori successi della band con Jorg Michael in formazione; ecco, quindi, scorrere una dopo l’altra le meravigliose “Speed of light”, “Hunting high and love”, “Kiss of Judas”, “Black diamond”, “Father time” e “Coming home”, brani che fanno parte della storia di questa grandissima band e che non possono non far parte della colonna sonora ideale di ogni appassionato di power metal. Questo live è concepito quale ultimo tributo alla carriera di un batterista eccezionale a cui spetta il massimo rispetto e tutti gli auguri per la vittoria più importante: quella per la propria vita! In bocca al lupo Jorg!!
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Simone Terigi è il chitarrista degli hard-rockers liguri Lucid Dream e, dopo l’uscita del debut album “Visions from cosmos 11” della sua band, ha deciso di sfornare anche un album solista completamente strumentale intitolato “Rock meditations”, con una delle copertine peggiori che mi sia capitato di trovare ultimamente. Ma fortunatamente non è dalla “confezione esterna” che bisogna giudicare un lavoro; certamente ascoltare un album interamente strumentale non è semplice, se poi aggiungiamo che in questi 7 pezzi di metal non c’è praticamente niente, allora potrete ben capire quanto sia stato difficoltoso per il sottoscritto approcciarsi a questa recensione. Se dovessi limitarmi ai soli gusti personali, mi dispiace per il talentuoso Simone, ma il voto sarebbe pari ad una solenne stroncatura: non trovo infatti molto chiara la “struttura” dei singoli brani che mi sono sembrati prossimi ad una fusione di esercizi chitarristici; non trovo mordente alcuno o energia nell’ascoltare i vari pezzi che, tra l’altro, fatta eccezione per le composizioni pari, “The bells of awekening” (siamo sicuri che sia “awEkening” e non “awAkening”?), “Astral memories” ed “Into the future”, hanno durate a dir poco esagerate con il forte rischio di annoiare. A voler svolgere più correttamente il compito del recensore, al di là dei gusti personali, bisogna anche guardare altri aspetti ed ecco che il giudizio finale sale di qualche gradino; ad esempio, non si può trascurare il talento nel suonare i vari strumenti di Simone Terigi, un chitarrista molto fantasioso ed indubbiamente con un bagaglio tecnico alle spalle non indifferente. Se non ci si aspettasse un disco metal, ecco che l’approccio ai singoli brani sarebbe diverso e porterebbe anche a gustarsi maggiormente tutto quanto. Il buon Simone nella breve bio di presentazione dice “Chiudete i vostri occhi, rilassatevi e buon ascolto”; effettivamente non ha torto, dato che queste 7 composizioni vanno affrontate in questa maniera rilassata, magari a basso volume… le trovo addirittura ideali come sottofondo per un massaggio rilassante o semplicemente per gustarsi la natura di fronte a qualche panorama eccezionale dei tanti che la nostra meravigliosa Italia sa regalare. Come evidente, questo “Rock meditations” non è indirizzato al pubblico metal, a chi cerca violenza sonora o energia nella musica, ma ad una ristretta cerchia di persone che possono apprezzare la musica strumentale, quasi vicina a certo ambient. Per quanto mi concerne, non riesco ad essere più generoso con il giudizio, in fin dei conti ho ancora rispetto per i miei gusti musicali!
Ultimo aggiornamento: 30 Giugno, 2012
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Ci sono alcune volte in cui il “lavoro” del recensore non è così semplice come sembri; alcune volte in cui si deve “lavorare” su materiale che non ti piace e che, nella normalità dei casi, non avresti mai ascoltato semplicemente perché non è il genere di musica che ti affascina… in casi del genere, bisogna cercare di essere “asettici” e giudicare, nel limite delle proprie competenze musicali (nel mio caso non certo infinite!), sulla musica che viene proposta, sulla tecnica e su altri parametri classici, senza entrare nel campo minato dei gusti personali. E’ questo il caso per quanto mi riguarda dei Lucid Dream e del loro album autoprodotto intitolato “Visions from cosmos 11”. Il genere proposto da questa band ligure è un hard rock dalle forti tinte progressive, come andava tanto di moda tra anni ‘70 ed ’80 (l’epoca della mia infanzia ed adolescenza, sigh!), incentrato sulle indovinate trame chitarristiche del leader Simone Terigi ed esaltato dalla splendida voce pulita del singer Alessio Calandriello. L’album è composto da 9 pezzi, tra cui tre strumentali molto piacevoli come “Fallin’”, “Sun and sun” e la breve “Night feel”. Qualitativamente parlando non ho trovato alcun calo o fillers vari nel lavoro dei Lucid Dream che, per il genere specifico, hanno tutte le carte in regola per affermarsi, mettendo in mostra continuamente un talento non comune. Ritmo e melodia non mancano mai e brani come “Underground”, “Get up” e la conclusiva “Through the years” sono ottimi esempi dell’eccelso livello qualitativo raggiunto da questa band che, è bene ricordarlo, è solo al debutto. A voler essere pignoli, molti brani hanno durate “importanti” che sfiorano l’eccessivo e forse, per il futuro, questi quattro musicisti faranno bene a stare attenti a non rincorrere l’autocelebrazione e spogliare la loro musica di orpelli troppo contorti, per non dire inutili; per la serie: “allungare il brodo non è mai positivo”! Tale considerazione, puramente a titolo personale, non toglie però nulla al valore di questo “Visions from cosmos 11” (perché poi un “11”, quando è un primo album?); fans dell’hard rock tenete d’occhio questi Lucid Dream perché potranno regalarvi ottime sorprese!
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I Legion Warcry vengono fondati a Vercelli nell’estate del 2008 e, dopo il demo “Into your eyes” del 2009, arrivano a questo debut album “The way to escape”, completamente autoprodotto e registrato nello studio di proprietà della band, con una copertina che, purtroppo devo dirlo, è tra le meno affascinanti che mi siano capitate. Il genere suonato è un power melodico con qualche tocco sinfonico, ispirato dai nomi più famosi come Angra, Labyrinth dei bei tempi ed, in genere, quel filone di power tecnico tanto diffuso qui nel nostro paese da un po’ di anni a questa parte. Qualcuno potrebbe obiettare che i Legion Warcry non hanno una proposta musicale particolarmente originale e non avrei nulla da osservare in merito, dato che effettivamente un po’ di puzza di “già sentito” qua e là si sente. Devo però far presente che il sound della band vercellese è decisamente accattivante, estremamente orecchiabile ed anche alquanto trascinante e coinvolgente, di conseguenza se c’è stato un po’ di “copia/incolla”, è stato fatto dannatamente bene e non disturba per nulla! Piuttosto, ciò che non mi ha entusiasmato è stata l’ugola del singer Valerio Averono che, come dettami power impongono, è abbastanza acuta, ma manca di calore e colore e, almeno per quello che mi è sembrato (tenete a mente sempre che non sono un maestro di canto), non presenta un’estensione particolare. Un cantante, quindi, che non è male, ma rimane alquanto ordinario e, per emergere in questo genere così affollato, servono qualità che rasentano l’eccezionale! Un esempio del mio pensiero lo si può trovare nella ballad romantica “For real”, in cui il nostro cantante cerca di usare tonalità più basse e calde, riuscendo solo parzialmente nel suo intento, come detto insomma una voce niente male, ma non eccelsa che, nel lungo periodo, potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Poi, sia chiaro, come dico sempre, se Blaze Bayley è stato chiamato a sostituire (per fortuna solo per breve tempo!) una leggenda come Bruce Dickinson negli Iron Maiden ed Andi Deris ha preso il posto del grande Michael Kiske negli Helloween, non vedo motivo per cui il buon Valerio Averono non possa continuare ad essere il vocalist dei Legion Warcry. Questo “The way to escape” è composto da 9 brani per poco meno di 50 minuti di musica piacevole; mi hanno colpito particolarmente il rovente trittico iniziale “God of thunder” – “Across the space” ed “As you preach”, molto ritmate e ricche di piacevoli intrecci delle due chitarre di Alessandro Giordano e Davide Castagnone, nonché la coraggiosa suite finale “Miracle”, oltre 9 minuti ricchi di atmosfere differenti che dimostrano quanto questi ragazzi, a livello musicale, ci sappiano fare. Certo, i Legion Warcry hanno ampi margini di miglioramento, ma come debut album con questo “The way to escape” siamo già a buon punto. Teneteli d’occhio!!
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Dopo il ben noto split tra Luca Turilli ed Alex Staropoli, ero curiosissimo di ascoltare questo nuovo album “Ascending to infinity”! Ero anche estremamente curioso di scoprire come Alessandro Conti, già noto come ottimo cantante dei Trick or Treat, si fosse integrato nei Rhapsody di Luca Turilli. Già il singolo “Dark fate of Atlantis” mi aveva fatto presagire di potermi trovare dinnanzi ad un capolavoro; quando ho ascoltato per la prima volta gli 8 pezzi (più la splendida ouverture “Quantum X”) sono rimasto letteralmente basito: questo disco è ancora meglio di quanto mi aspettassi e rasenta la perfezione! Alessandro Conti è poi letteralmente straordinario, non ho mai sentito un vocalist nel mondo metal cantare in questa maniera sublime! Come lo stesso Alessandro ci rivelerà nell’intervista, Luca Turilli gli ha confezionato addosso i brani dell’album, studiandoli per far rendere al meglio le sue straordinarie doti vocali ed il risultato è sotto gli occhi (anzi, sarebbe meglio dire “nelle orecchie”) di tutti. Lo stile musicale dei Luca Turilli’s Rhapsody rimane quel maestoso metal sinfonico che da sempre contraddistingue la carriera del talentuoso chitarrista triestino, ma questa volta credo che ci troviamo a commentare un’opera incredibile, un amalgama musicale pressoché unico per perfezione, eleganza, stile, genialità, energia, tecnica e classe. “Ascending to infinity” è semplicemente trascinante con il suo ritmo incalzante e con Alessandro Conti che raggiunge note degne di un tenore di scuola lirica (del resto gli studi fatti hanno una grande importanza!); geniali poi le parti cantate in italiano. “Dante’s inferno” si presenta maestosa, ricca di cori lirici (anche qua in italiano) che, a volte, ricordano i canti gregoriani e parti soliste da brividi. Segue “Excalibur”, 8 minuti a spiegare ai posteri cosa significa “metal sinfonico”! Aperta in stile medievaleggiante, con parti cantate eccezionali (anche qui passaggi nella nostra lingua), cori lirici, parti strumentali tecnicissime, insomma qualcosa da ascoltare in religioso silenzio ed adorazione. “Tormento e passione” è la mia preferita, cantata in italiano in maniera sublime, con duetti eccellenti tra Alessandro Conti (che mette in mostra tutta la sua potenza vocale) ed una voce femminile da brividi, parti strumentali incredibili ed un ritmo incalzante che non può non conquistare subito! “Dark fate of Atlantis”, come detto, è stata scelta per un singolo, con relativo video; si tratta di un altro pezzo incredibile, ricco di energia e ritmo con ancora una prestazione del singer da ascoltare. Arriva il turno di “Luna”, pezzo estremamente particolare, si tratta di una cover di Safina (un tenore molto più famoso all’estero che non in Italia, con all’attivo anche una partecipazione a Sanremo) che originariamente non ha nulla a che vedere con il mondo metal ma che, in questa versione, Turilli ha irrobustito a dovere, tanto che non sfigura in mezzo alle altre e convince pienamente. “Clash of the Titans” ci riporta su lidi più metallici, con un altro brano dalla ritmica molto trascinante, nel classico stile dei vecchi Rhapsody, quelli dei primi albums per capirci. Si chiude con “Of Michael the archangel and Lucifers fall”, suite di 16 minuti, impegnativa all’ascolto per la “tanta roba” che porta in sé, le tante atmosfere, le solenni parti strumentali, insomma un altro pezzo che mi sono trovato ad ascoltare stranito per la meraviglia. La copertina di Felipe Machado Franco è splendida, così come qualitativamente perfetta è la registrazione, particolare imprescindibile in questo genere musicale. Un disco, questo “Ascending to infinity”, semplicemente mostruoso, perfetto, che non può non conquistare tutti coloro che ritengono di ascoltare musica metal con la “M” maiuscola... forse il miglior album che mi sia mai capitato di avere!
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Sentite nostalgia dei Sentenced? Credete che gli ultimi albums dei Poisonblack siano un po’ deludenti? I Lykaion fanno per voi! Se, invece, pensate che certo gothic cantato con voce maschile abbia già dato il meglio di sé alcuni anni fa e che ora è un po’ troppo tardi per ripetere certe atmosfere, allora direi che fareste meglio a terminare qui la lettura di questa recensione e continuare ad ignorare i Lykaion. Per quanto mi riguarda, fortunatamente, non rientro in quest’ultima schiera, ma tenderei a schierarmi trai primi, dato che certo gothic con voce maschile ed atmosfere decadenti continua ad esercitare un certo fascino sui miei padiglioni auricolari. Se poi aggiungete che la voce del singer Alessandro Sforza (anche chitarrista), è decisamente simile a quella del grande Ville Laihiala, solo leggermente più sporca, allora capirete che questo debut album intitolato “Nothin’ but death” può diventare decisamente affascinante. Il disco è composto da 10 brani, fortunatamente senza alcuna inutile intro, 10 esempi di come si può suonare il gothic metal, contaminandolo qua e là (ma non troppo) con qualche accenno di thrash (come per l’attacco di “The dance”, ad esempio), pur mantenendo intatte le atmosfere tipiche di questo genere musicale. L’opener “Nothin’ but death” (scelta anche per la realizzazione di un video), la già citata “The dance”, ma anche la robusta “Passion kills”, la melodica “Sick love”, o la conclusiva “Dimenticherai” (cantata tutta in italiano), sono ottimi esempi della qualità del sound di questi 4 ragazzi romani e del perché non posso che promuovere questo album. Un appunto lo devo fare però per “Fuck you (I love myself)” che, nella parte del coro, ricorda un po’ troppo “White wedding” di Billy Idol, soprattutto nella versione rifatta dai Sentenced all’epoca dello splendido “Love & death” nell’ormai lontano 1995.
Avevo già avuto modo di ascoltare i Lykaion due anni fa, all’epoca del loro demo “Swallowed by the sea”, è ritenevo che questa band avesse tutte le potenzialità per emergere dall’underground e farsi notare sia a livello nazionale, ma anche all’estero tra gli appassionati del gothic metal e sono sicuro che questo “Nothin’ but death”, se adeguatamente supportato dalla Bakerteam Records, possa far togliere diverse soddisfazioni alla talentuosa band romana. Se la forte somiglianza con le predette bands non vi disturba, direi che potete tranquillamente dare una chance ai Lykaion!
Ultimo aggiornamento: 29 Settembre, 2013
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I Teodasia nascono dalle parti di Venezia nel 2006 e ,dopo un demo intitolato “Crossing the light”, arrivano quest’anno al debut album dal titolo “Upwards”, impreziosito dalla presenza dell’ospite Fabio Lione che duetta con la brava singer Priscilla Fiazza sulla hit “Lost words of forgiveness”, scelta anche per la realizzazione di un video. Il genere suonato dai veneti è un symphonic metal molto personale, che in un certo qual modo ricorda bands come Epica e Nightwish. Indubbiamente si tratta di una musica molto affascinante e dall’elevato tasso tecnico anche se, in alcuni casi, un po’ troppo “morbida” per i miei gusti. Pezzi come “Temptress”, “Revelations”, la già citata “Lost words of forgiveness” “A powerful life”, “Hollow heart” (altro pezzo per cui è stato girato un video) e la conclusiva “My minotaur” si presentano ricchi d’energia e ritmo, pur mantenendo un notevole gusto per la melodia. Melodia che è in primo piano anche nelle orecchiabilissime “Clarion Call” e “Pandora’s night”, forse un po’ più pacate rispetto alle altre, ma ugualmente piacevoli. Molto dolci, infine, le ballads “Close call” ed “Aurora”, brani sinfonici in cui la batteria di Francesco Gozzo è praticamente del tutto assente, anche se, nell’economia dell’album, due pezzi così soft credo siano un po’ troppi. La stessa “Intro-spection” non risulta la consueta inutile intro, ma è una “ouverture” teatrale vera e propria, decisamente interessante con la sua durata assestata oltre i 3 minuti. Discorso a parte per la strumentale “Eulogy”, song decisamente morbida, forse anche troppo, che avrebbe reso meglio, secondo me, se maggiormente ed adeguatamente irrobustita. Se dovessi scegliere un pezzo a cui assegnare la palma del migliore, credo dovrei cercare tra “Temptress”, “My minotaur” (con inserti di tastiere degni dei migliori Nightwish!) e “Lost words of forgiveness” che ritengo tra i pezzi più riusciti dell’album. Bisogna sempre tenere presente che questo “Upwards” è il primo album per i Teodasia e, con un debutto del genere, possiamo solo sperare in meglio per la loro carriera futura; sono praticamente certo, infatti, che i Teodasia abbiano tutte le doti ed il talento per diventare una band di spicco nel panorama del metal sinfonico mondiale! Non fateveli sfuggire!!
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A volte il “mestiere” del recensore ti consente di scoprire bands di cui, altrimenti, non avresti mai nemmeno immaginato l’esistenza; alcune volte di queste bands se ne potrebbe tranquillamente fare a meno, in altre occasioni, come per questi Stargate, si viene a scoprire realtà decisamente interessanti e sicuramente intriganti. Gli Stargate sono nostri connazionali ed addirittura la loro fondazione risale al 2000 quando, dalle ceneri di una cover-band chiamata Entropia, il tastierista e cantante Flavia Caricasole (ottima la sua voce!) ed il chitarrista Fabio Varalta decisero fortunatamente di creare musica propria. Da allora, tra pause, attriti, progetti paralleli, viene fuori un solo E.P. nel 2003 e, una volta stabilizzata la formazione, questo album “Beyond space and time”, uscito per Crash & Burn Records a fine marzo 2012. Il genere proposto da questi 5 ragazzi è un prog/power estremamente tecnico, con influssi sinfonici, decisamente affascinante, anche se di non semplice assimilazione, a causa soprattutto della lunghezza eccessiva dei brani (in alcuni casi, direi anche “esagerata”). E’ anche comprensibile che, con una così lunga “gestazione”, ci sia talmente tanta roba in ogni pezzo da renderli praticamente tutti delle mini-suite; ad eccezione di intro/outro ed intermezzi vari, c’è infatti un solo pezzo con minutaggio inferiore ai 5 minuti, “Nightspell”, mentre gli altri viaggiano spesso abbondantemente oltre i 7 minuti, rendendo l’ascolto non proprio semplice. Fossi al posto dei leader della band, in futuro, lavorerei proprio su questo aspetto per rendere maggiormente appetibile e più facilmente fruibile il proprio sound: evitare orpelli particolarmente cervellotici o limitarli un po’, rendendo la struttura dei brani più facilmente individuabile ed assimilabile, nonché “alleggerendo” il minutaggio per scongiurare il rischio che l’attenzione ed il coinvolgimento dell’ascoltatore a lungo andare possa calare. Sia chiaro, questo è un punto di vista estremamente personale e sicuramente ci sarà chi giudicherà diversamente da me e, magari, apprezzerà anche maggiormente. Per i maniaci delle catalogazioni, direi che il sound di questa band possa essere accostabile a bands come Sandstone, Voyager, Theocracy, per arrivare fino a mostri sacri del genere come Symphony X & C. anche se, rispetto a bands di questo genere, la proposta musicale degli Stargate e più complessa e maggiormente orientata verso il prog. “Beyond space and time” è composto da 8 pezzi, più intro (“The wonders of nature”), outro (“Wounded souls”) ed un piacevolissimo interludio strumentale (“The dark rift”). Mi sono piaciute particolarmente “Nightspell” (la più breve) dal flavour romantico che fa pensare a certa produzione degli Angra più recenti; “Save the world”, trascinante e coinvolgente, oltre che veloce a dovere, forse la più vicina a lidi power sinfonici e, proprio per questo, la mia preferita in assoluto; “Nothing’s forever”, frizzante e dotata di un coretto molto easy; interessante anche “Hysteria”, dotata di alcuni passaggi di chitarra/tastiere allucinati e decisamente alienanti. La restante parte dei brani non è qualitativamente inferiore rispetto ai predetti, anche se mi ha colpito e convinto un po’ meno. Ci sono voluti 9 anni per la realizzazione di questo debut album degli Stargate, ma “Beyond space and time” (dotato anche di una piacevolissima copertina) mette in mostra una band dalle doti tecniche fuori dal comune e dal talento notevole; con piccoli accorgimenti, secondo me, potremo avere in futuro un disco ancora migliore di questo già ottimo debutto! Sperando sempre di non dover aspettare ancora così tanto tempo....
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