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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Ottobre, 2012
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Inutile nascondercelo, il cambio di un cantante all’interno di una band è sempre una “rivoluzione” importante; se poi ad andar via è un singer carismatico come Roberto Messina ed a sostituirlo viene chiamato un certo Michele Luppi (ed andatevi a nascondere se non conoscete questo mostro sacro del metal italiano!), capirete che le aspettative per questo nuovo album dei Secret Sphere erano indubbiamente notevoli. Sarà in grado Luppi di non far rimpiangere Messina? Saranno in grado i Secret Sphere di comporre musica che non possa far venire in mente paragoni con i Vision Divine? Si, perché, sembrerà strano, ma è già la seconda volta che a Luppi spetta l’ingrato compito di entrare in una band già affermata per sostituire un grande cantante, proprio come accadde all’epoca del suo ingresso nei Vision Divine per sostituire Fabio Lione. A tutte le predette domande, possiamo rispondere affermativamente, perché questo nuovo album dei Secret Sphere è una bomba e perché sentire cantare Michele Luppi è semplicemente goduria per l’udito! La sua capacità di modulare la voce è semplicemente unica, sa essere caldo, aggressivo, acuto, ammaliante, romantico, espressivo a seconda della necessità, come pochi, pochissimi cantanti sanno fare in Italia e, perché no?, possiamo pure dirlo, nell’intero mondo della musica metal! I brani di “Portrait of a dying heart” (dalla copertina molto piacevole, credo opera di Felipe Machado Franco) sono 10, fra cui la title-track posta in apertura costituisce una vera e propria ouverture strumentale; si tratta di 10 pezzi, uno più bello dell’altro, con una prestazione dei singoli musicisti decisamente eccellente: gli assoli di Aldo Lonobile, come d’abitudine, sono eccezionali, ben accompagnato dalla ritmica del fido Marco Pastorino (che si occupa con successo anche delle back vocals); le tastiere di Gabriele Ciaccia ricamano atmosfere molto suggestive; il basso del biondo “Mister Sin” Andrea Buratto è sempre splendido protagonista; mentre sulla notevole prestazione dietro le pelli di Federico Pennazzato non trovo aggettivi giusti, se non un decisamente “potente”! Su tutto si staglia la splendida voce di Michele Luppi che è come un altro strumento musicale utilizzato come meglio non potrebbe, talmente bene che, ad un ascolto disattento, potrebbe persino sembrare freddo. Nel trascorrere dei pezzi, si passa dalla melodia di una cavalcata tipicamente power come “X”, ad una “Wish & steadiness” a dir poco sinfonica e potente, una melodicissima “Union”, seguita a ruota da una arrabbiatissima ed aggressiva “The fall”, si arriva poi alla robusta “Healing” (con un assolo di basso); “Lie to me” è semplicemente dolcissima ed indubbiamente indovinata per momenti romantici con il/la proprio/a partner; con “Secret fear” si torna a pigiare sull’acceleratore ed il ritmo imposto alla doppia-cassa è indiavolato; “The rising of love”, a dispetto del titolo, è pacata, ma non sdolcinata; il disco si chiude con la splendida “Eternity”, forse il pezzo che più mi ha convinto, suite di quasi 7 minuti, vera summa di cosa sono i Secret Sphere in questo album, con un Luppi che utilizza la sua voce in maniera a dir poco egregia. Come avrete capito, “Portrait of a dying heart” è un gran disco, uno dei migliori in assoluto della carriera dei Secret Sphere, quello che, almeno me lo auguro, potrà contribuire all’affermazione internazionale di questa ennesima band eccezionale che abbiamo in Italia. Buy or die!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Ottobre, 2012
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A distanza di due anni dall’ottimo “Easton hope”, tornano i tedeschi Orden Ogan con il loro terzo album (il quarto, contando anche l’introvabile autoproduzione del 2004 “Testimonium A.D.”) dal titolo “To the end”, pubblicato nuovamente dall’attenta AFM Records. Non avendo avuto a disposizione i testi e guardando la bella copertina (finalmente si rivede un’opera del grande Andreas Marschall!) ed i titoli dei 10 pezzi (+ intro) presenti sull’album, probabilmente ci troviamo davanti ad un album la cui tematica principale verte attorno alle leggende sul ghiaccio e sul freddo in genere, almeno questa è l’impressione che ho avuto. Musicalmente non ci spostiamo di molto rispetto alla proposta passata; non abbiamo più pirati ed amenità simili, ma resta quel power orecchiabilissimo e ritmatissimo, pieno di cori epici, che decisamente non può non far breccia nei cuori e nei padiglioni auricolari di ogni defender che si rispetti. Tutto l’album è pieno di episodi frizzanti, ricchi di energia e melodia, che si ficcano in testa immediatamente e non meravigliatevi se, dopo un paio d’ascolti, vi troverete a fischiettarli sotto la doccia! Mi riferisco, in particolare, a brani come le lunghe ed adrenaliniche “Till the stars cry out” e “Dying paradise”, la robustissima title-track “To the end”, le veloci “Land of the dead” e “Mystic symphony”, ma anche le melodicissime “The ice kings” ed “Angels war”. Come avrete capito, questo album mi è piaciuto parecchio ed ha dimostrato una notevole capacità di coinvolgere l’ascoltatore ed infondere energia! Ancora una volta gli Orden Ogan hanno sfornato un ottimo disco, dimostrando di avere talento ed indubbia capacità tecnica, rimescolando i dettami dei mostri sacri del power tedesco (Running Wild e Grave Digger su tutti) e rendendoli comunque personali e di facile identificazione. Non posso che consigliare “To the end” a tutti i fans del power in generale e di quello tedesco in particolare.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Ottobre, 2012
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Devo ammettere che, se non fosse stato per la proposta della Scarlet Records, molto probabilmente non sarei mai venuto a conoscenza di questa band francese chiamata Whyzdom, arrivata con questo “Blind?” al proprio terzo lavoro, dopo il debut E.P. “Daughter of the night” (2008) e l’album “From the brink of infinity” (2009). Il genere suonato da questa band francese è un metal sinfonico con influssi power e qualche digressione nel gothic e nel prog, un genere molto particolare quindi che richiede una notevole capacità tecnica dei singoli musicisti. I Whyzdom si sono fatti conoscere anche per aver fatto da band supporto in alcune date per Tarja Turunen, nonché per aver avuto tra le proprie fila, fino al precedente disco, Lisa Middelhauve, ex-singer degli Xandria, sostituita poi dall’affascinante e molto brava Elvyne Lorient, al debutto ufficiale in questo album. “Blind?” è composto da 11 pezzi molto affascinanti ed intriganti, che portano l’ascoltatore in un’atmosfera onirica, in cui melodia ed energia sono fuse tra loro in maniera egregia ed abile. Devo però constatare da subito un grosso difetto: il disco dura quasi un’ora e mezzo! Ogni brano, infatti, ha un minutaggio importante, per non dire esagerato; nessun pezzo dura meno di 5 minuti e si parte dai quasi 6 di “Lonely roads”, fino agli oltre 11 della suite conclusiva “Cathedral of the damned”. Ascoltarlo tutto d’un fiato è quindi impresa impegnativa, ma non solo per la sua lunghezza eccessiva (quasi il triplo del mitico “Reign in blood”!), quanto anche per la quantità di roba che i Whyzdom mettono nella loro musica. C’è di tutto, orchestrazioni sinfoniche, atmosfere romantico-decadenti tipiche di certo goth, cavalcate power (grande il batterista Nico Chaumeaux!), passaggi strumentali intricati degni del miglior prog ed assoli di tutti gli strumenti molto belli, compreso un ottimo assolo del bassista Xavier Corrientes su “Venom and frustration”. “Blind?” sarebbe quindi un grandissimo disco, se solo fosse durato una ventina di minuti in meno (bastavano 3 pezzi in meno, da tenere magari per un prossimo E.P., o qualche taglio di orpelli vari!); ciò nonostante, a me è piaciuto ugualmente e mi ha permesso di scoprire questi Whyzdom, ennesima interessantissima band proveniente dalla Francia. Date loro una chance!

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3.0
Opinione inserita da Ninni Cangiano    22 Ottobre, 2012
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Sono lontani ormai i tempi di “Savage land” o “Temple of two suns” ed i Mob Rules, giustamente, non suonano più a quella maniera, avendo evoluto il loro sound verso un metal estremamente melodico, ritmato ma fino ad un certo punto che, del frizzante power degli esordi, è solo una sbiadita contro-figura. E’ già da qualche album che la band del bravo singer Klaus Dirks non mi sorprende in positivo; “Ethnolution A.D.” ed il più recente “Radical peace” mi avevano alquanto deluso in quanto, pur rimanendo dischi di per sé stessi sufficienti, erano per i miei gusti esageratamente melodici, tanto da rasentare anche il noioso. A livello di songwriting, a distanza di 3 anni dalla loro ultima uscita, in questo “Cannibal nation” siamo ancora su livelli sufficienti, non da stroncature, ma nemmeno da gridare al miracolo, la ricetta è rimasta pressoché invariata e sono un po’ troppi i passaggi alquanto scontati e che sanno di già sentito troppe volte. Certo, quando il buon Nikolas Fritz pesta sull’acceleratore con la sua batteria, il livello qualitativo, almeno per quanto mi concerne, sale in alto; ecco, quindi, che pezzi come la stessa title-track “Cannibal nation”, o anche “Tele box fool” (forse il pezzo migliore) e “The sirens” si lasciano ascoltare che è un piacere. Gli altri sei pezzi alternano momenti più frizzanti, ad altri decisamente più lenti e pacati che, in alcuni casi, alla lunga rischiano di annoiare, non aiutati da un minutaggio a volte un po’ eccessivo (a volte eliminare inutili orpelli aiuta l’economia del singolo brano e la sua appetibilità ed assimilabilità). Cos’altro aggiungere? Se siete fans del metal più melodico e le produzioni più recenti dei Mob Rules vi hanno affascinato, anche questo “Cannibal nation” vi conquisterà; se, al contrario, come il sottoscritto, preferite musica più frizzante ed energica, sicuramente in giro c’è di meglio. Sufficienza di merito alla lunga carriera.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    15 Ottobre, 2012
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Era il 1997 quando una band italiana di nome Rhapsody, su etichetta Limb Music, diede alla luce quel capolavoro intitolato “Legendary Tales” dando, di fatto, il via a quel genere musicale conosciuto come “symphonic power”. All’epoca di quel disco che ho letteralmente consumato, non pensavo che potesse avere così tanta influenza sulle generazioni future, eppure così è stato. Siamo al 2012 ed ecco un’altra band che chiaramente si ispira a quelle sonorità così epiche e sinfoniche: si tratta dei Fogalord, progetto del tastierista dei Synthphonia Suprema, Dany All che, per l’occasione, oltre a cavarsela egregiamente anche come singer, recluta il chitarrista Stefano Paolini (da non confondere con l’omonimo batterista jazz) e la sessione ritmica dei Synthphonia Suprema, composta da Lorenzo Costi (basso) e Francesco Zanarelli (Batteria) e fa venir fuori questo interessantissimo “A Legend To Believe In”. Curiosamente, proprio come per i Rhapsody, questo disco esce per l’attenta label tedesca Limb Music, da sempre talent scout in generi musicali simili. Da segnalare anche la presenza di numerosi ospiti, tra cui spiccano il talentuoso chitarrista Pier Gonella (10 minuti di vergogna per chi non conosce questo mostro sacro del metal italiano!) ed un ex-membro proprio dei Rhapsody, il bassista Alessandro Lotta. “A Legend To Believe In” è composto da 12 brani (incluse alcune intro ed intermezzi strumentali), decisamente di gran gusto ed eleganza, molto epici e corali, che conquistano e convincono ascolto dopo ascolto; forse non si potrà parlare di estrema originalità ma, di fronte a musica con la “M” maiuscola come questa, ritengo che un particolare simile sia relegabile alla stregua di futile dettaglio. Hanno incontrato maggiormente i miei gusti, la cavalcata epica “The Fog Lord”, traccia tellurica (eccellente Francesco Zanarelli!) e ricchissima d’energia; la folkeggiante “The March Of The Grey Army” che fa venire in mente i grandissimi Spellblast, la lunga suite conclusiva “Of War And Resurrection” (vera summa del sound dei Fogalord), ma anche la Rhapsodyana “The Scream Of The Thunder”. E’ comunque tutto l’album a colpire per la sua elevata qualità intrinseca, capacità di coinvolgere e comunicare sentimenti ed energia. Un plauso particolare a Dany All che si dimostra anche ottimo cantante, versatile ed espressivo, pur non avendo la classica ugola iper-acuta così diffusa nel genere power sinfonico. Non fatevi sfuggire questo album, un grande debutto per i Fogalord, ennesima dimostrazione della grande qualità della nostra scena musicale ed una delle migliori uscite del 2012 nello specifico settore.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    07 Ottobre, 2012
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Sono passati 5 anni da “Human nature”, piacevole disco che ebbi modo di recensire all’epoca di powermetal.it, ed i romani Ivory Moon tornano a farsi sentire con un nuovo album intitolato “Dark time”, uscito da pochi giorni per l’attiva Spider Rock Promotion. La proposta musicale della band capitolina è rimasta pressoché invariata: un power sinfonico abbastanza ritmato, con doppia voce maschile (Sandro Manicone) e femminile lirica (la new entry Gabriella Aleo). Il tallone d’Achille degli Ivory Moon è purtroppo sempre nella voce maschile; se, infatti, Sandro Manicone è migliore del suo predecessore presente sul primo album, rimane pur sempre obiettivamente un discreto singer ma nulla di più e, per un genere ambizioso come il power sinfonico, questo non è sufficiente. Ho trovato la sua voce graffiante, ma poco profonda e calda, con un’estensione non eccelsa ed una tonalità che non mi ha mai convinto, tanto che ho apprezzato quasi esclusivamente le parti in cui a cantare era Gabriella Aleo, che sicuramente non sarà all’altezza di una Tarja Turunen o di una Simone Simons, ma almeno ha delle doti vocali non indifferenti. Mi piacerebbe sentire questa band con una voce maschile non dico all’altezza di un Lione o di un Conti (tanto per rimanere in ambito power sinfonico), ma almeno con qualcuno che abbia migliori capacità dell’onesto singer attuale, perché indubbiamente dal punto di vista musicale gli Ivory Moon ci sanno fare. Hanno dalla loro, infatti, come il genere impone, una notevole tecnica strumentale, nonché un piacevole songwriting (seppur non originalissimo) che permette di far ascoltare brani indubbiamente piacevoli, come “Darkness”, la teatrale “Soul disguised”, ma anche “Out of control” oppure “The merchant of Venice”. Mi dispiace essere così ingeneroso verso una band ma, pur con il massimo rispetto verso gli sforzi e la passione che traspaiono nella musica degli Ivory Moon, per cercare di emergere serve qualcosa in più che, con questa line-up, non appare al momento possibile. Consiglio un ascolto preliminare di questo “Dark time” prima di un eventuale acquisto, chissà che magari possiate pensarla diversamente da me....

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    30 Settembre, 2012
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I Kerion sono una symphonic-power metal band francese in attività dal lontano 1997 e questo “Cloud riders” è il loro terzo album, dopo il debut “Holy creatures quest” (2008) ed il successivo “The origins” (2010). La label canadese Metalodic Records ha creduto in loro ed ha diffuso questo ottimo disco, con la piacevolissima copertina realizzata dal fumettista Genzo. La proposta musicale dei Kerion è incentrata sulla voce eterea dell’affascinante Flora e studiata credo appositamente per farla rendere al meglio possibile; molto intelligentemente, alcune volte a farle da contraltare c’è anche una voce in growling (incredibilmente di una donna!) che dona quel po’ di sana cattiveria che non guasta mai, in un disco altrimenti alquanto “zuccheroso”. “Cloud riders” (che dovrebbe costituire una “part 1” di un progetto evidentemente più ampio ed ambizioso) è composto da 13 tracce, fra cui la consueta intro “Rider’s theme”, ripresa in parte anche come outro del disco, più la brevissima “The fall of skycity part 1” che costituisce un’apertura alla canzone vera e propria costituita dalla “part 2” e che, di conseguenza, poteva benissimo essere inglobata nel pezzo principale. Restano, quindi, 10 pezzi di cui parlare. E’ bene mettere in chiaro subito un elemento: se non siete fans di questo particolare genere musicale, è meglio risparmiare il vostro tempo e non proseguire con questa lettura, semplicemente perché la proposta dei Kerion non fa per voi! Se, al contrario, il symphonic-power vi affascina, i Kerion saranno pane per i vostri denti ed anche molto saporito! Pur non avendo le ritmiche veloci e sostenute dei nostri Ancient Bards (altra band con voce femminile), i Kerion hanno la tipica maestosità e teatralità indispensabili in un genere simile. Tecnicamente parlando, poi non ci sono discussioni da fare, dato che è imprescindibile una maestria notevole, non solo per comporre ed ideare, ma anche solo per suonare robe simili. Anche la registrazione è fondamentale e fortunatamente non ci sono gravi pecche, anche se forse il basso di Stéphane è un po’ troppo relegato in sottofondo, come spesso purtroppo accade. Tornando ai pezzi di “Cloud riders”, mi limito a segnalarvi quelli che maggiormente hanno incontrato i miei favori, sottolineando che comunque ci troviamo ad un album davvero magistrale. Partirei dalla fine, da quella “The fall of skycity”, vera summa del sound di questa band, suite di gran gusto, dall’incedere maestoso e spettacolare, con svolazzi chitarristici degni del nostro mitico Olaf Thorsen e/o del grande Luca Turilli (tanto per rimanere nello specifico genere). Dolcissima si presenta “Celticia’s song”, pezzo per archi, piano e voce, in cui la nostra Flora dà il meglio della sua ugola; brano perfetto per momenti romantici. Molto teatrale anche “Fireblast”, scelta per la realizzazione di un video; si tratta forse del brano più vicino allo stile dei maestri Rhapsody e sono pronto a scommettere che vi farà sbattere il capoccione, grazie alla ritmica impressa dalla batteria dell’ottimo JB! Indovinatissima, come detto, anche la presenza della voce in growling dell’ospite Rachel. Potrei proseguire con la tellurica accoppiata iniziale “The map”/”Everlasting flight”, o anche con la lunga “Bounty hunter” (con voce maschile ospite), o con la quasi etnica “Tribal vibes”, ma rischierei di citarvi tutti i pezzi di questo piacevolissimo album. Fans del symphonic power non fatevi sfuggire “Cloud riders” dei francesi Kerion; per quanto mi riguarda, credo andrò alla ricerca anche dei due precedenti dischi di questa interessantissima band!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    29 Settembre, 2012
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A volte nella vita ci vuole fortuna anche per il luogo in cui si nasce! Se gli Ashent provenissero dalla Florida o dalla California, staremmo tutti a gridare al mondo della grandezza indiscutibile di questa band, ci sarebbero concerti in giro per il mondo presentati come “la risposta ai Cynic”, le copertine delle testate giornalistiche e dei siti internet sarebbero pieni delle loro immagini.... invece, purtroppo, gli Ashent arrivano da Venezia e vorrei sapere in quanti li conoscevano e li apprezzavano prima di aver cliccato su questa recensione! Per mia fortuna, seguo questa band sin dagli esordi del 2006, con quell’interessantissimo “Flaws of elation” uscito per la ormai scomparsa Lucretia Records. Da allora, c’è stato il contratto con la finlandese Lion Music e nel 2009 l’altro ottimo album “Deconstructive”; sono serviti altri 3 anni ed ecco il terzo disco intitolato “Inheritance”. In primis occorre segnalare alcuni cambiamenti di formazione, con il grande Titta Tani (10 minuti di vergogna per chi non conosce questo pezzo di storia della musica italiana!) subentrato al vocalist americano Steve Braun, nonché Alessandro Cossu che ha preso il posto di Cristiano Bergamo alla chitarra. Ma veniamo alla musica. Bastano le prime note di “Eve” per rendersi conto della ulteriore evoluzione del sound della band, oramai sempre più prog-oriented, ma che mantiene sempre quelle radici thrash che hanno contraddistinto i primi passi della band veneta. Ma non è tutto qui. Gli Ashent, infatti, hanno la grandissima capacità ed eccezionale originalità di miscelare come nulla fosse influssi fusion, jazz, blues, ambient, finanche di musica etnica, il tutto in una miscellanea estremamente affascinante e singolare. In questo, il paragone con i maestri Cynic, salta subito alla mente, anche per alcune vocals piene di effetti di un Titta Tani in forma smagliante. Di certo, oltre ad avere una cultura musicale estremamente eterogenea per creare un songwriting così efficace, per suonare a questa maniera serve una maestria nei singoli strumenti indubbiamente superiore alla media, tutte caratteristiche che agli Ashent non mancano; se poi aggiungete una registrazione pressoché perfetta che esalta ogni strumento, il quadro è completo! “Inheritance” è composto da 11 gemme, una più bella dell’altra, una più complessa ed alienante dell’altra, dalla già citata opener “Eve”, seguita a ruota da “Magnification of a daydream”, scelta per la realizzazione di un video, passando per le lunghe ma mai noiose “Fractural” e “La danzatrice scalza” (quasi interamente strumentale), ma anche per l’incredibile “Spider’s nest” (con un Davide Buso in splendida evidenza alla batteria), concludendo con la sognante “Labyrinthique”. Sono comunque tutti quanti i pezzi a colpire per il loro fascino intrinseco e per originalità e particolarità. “Inheritance” non è un disco adatto a tutti i padiglioni auricolari; se cercate violenza sonora, blast beat e grugniti al microfono, così come se cercate melodie zuccherose e doppia-cassa sparata a mille, qui non c’è pane per i vostri denti! Se avete mente aperta, cercate invece originalità e tecnica sopraffina, gli Ashent vi soddisferanno pienamente. L’inarrivabilità della band di Paul Masvidal comincia a non essere più così indiscussa....

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Settembre, 2012
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A 3 anni di distanza dal discreto “Dawn”, tornano i siciliani Thy Majestie con un nuovo disco intitolato “ShiHuangDi”, concept incentrato sulla figura di Qin Shi Huang, primo imperatore cinese nel 221 dopo Cristo. La band del talentuoso batterista Claudio Diprima, per l’occasione, torna nuovamente sotto contratto con la Scarlet Records, label a cui sono legate le gemme della produzione passata di questa band, dall’esordio di “The lasting power” di 12 anni fa fino allo splendido “Jeanne D’Arc” del 2005. Anche questo nuovo album, quasi a voler seguire il filo del discorso interrotto con il precedente disco, è sui livelli del periodo aureo della band, quindi un power sinfonico suonato con maestria e con melodie di gran gusto ed orecchiabilità. “ShiHuangDi” è composto da 11 pezzi (tra cui la lunga intro “Zhongguo” e l’intermezzo di “Huanghun”), uno più bello dell’altro, che si ascoltano molto gradevolmente, nonostante una certa lunghezza di fondo (quasi tutti i brani si attestano tra 5 e 7 minuti di durata) forse in alcuni casi un attimo esagerata ed auto-celebrativa. A livello tecnico nulla da eccepire, dato che per suonare un genere simile bisogna avere una preparazione non comune, spicca il singer Alessio Taormina che, nonostante non abbia un’ugola molto buona ma non eccezionale (per capirci, i vari Lione, Conti e Tiranti sono ad un livello superiore!), riesce ad adeguare la sua voce alle varie atmosfere dei pezzi, risultando a volte caldo o romantico, altre decisamente aggressivo o pulito, ma rendendo sempre al meglio, tanto che è difficile immaginare una miglior riuscita con un vocalist più dotato. Come detto, nell’ora abbondante di power sinfonico, i brani passano uno dopo l’altro lasciando notevole soddisfazione nell’ascolto, coinvolgendo e convincendo a dovere! Da segnalare su “End of the days” (aperta da belle parti del bassista Dario D’Alessandro, unico reduce assieme a Claudio Diprima della formazione che registrò il debut album) la presenza dell’ospite Fabio Lione a duettare piacevolmente con Alessio Taormina. Per quanto mi concerne mi sono piaciute parecchio l’accoppiata iniziale “Seven reigns”-“Harbinger of new dawn” che mette subito in chiaro cosa aspettarci da questo album: ritmiche sostenute, melodie e cori di gran gusto, con eleganti parti sinfoniche. Piacevolissima “Ephemeral”, canzone con parti di chitarra eleganti e dalla notevole orecchiabilità. Molto particolare “Siblings of Tian” che mi ha fatto venire in mente il folk-power degli Elvenking, soprattutto nella parte iniziale. Il brano che, però, mi è piaciuto di più è sicuramente “Under the same sky”, che alterna ritmiche sostenute (grande Claudio Diprima!) di fronte a cui diventa impossibile rimanere fermi, a momenti più pacati ed oscuri, quasi intimisti; il coro poi è di quelli che si ficcano immediatamente in testa. “ShiHuangDi” ci riconsegna una delle più grandi bands italiane da troppo tempo lontana dalle scene, da sempre una delle realtà migliori nel campo del power sinfonico: bentornati Thy Majestie!

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3.5
Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Settembre, 2012
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Quarto album per i power-metallers veneti Hollow Haze, intitolato “Poison in black”, uscito per la prima volta su Bakerteam Records, costola della Scarlet Records. Sembrerebbe che i brani di questo lavoro siano stati studiati per esaltare al meglio la voce dello screamer Ramon Sonato (entrato nella band all’epoca del precedente album “End of a dark era”), tanto che il paragone con il grande Ralph Scheepers (10 minuti di vergogna per chi non conosce questo mostro sacro del metal mondiale!) viene in mente praticamente da subito. Sono parecchi i momenti in cui, infatti, lo stile vocale di Ramon è molto simile a quello del cantante dei Primal Fear ed ex-Gamma Ray, anche se leggermente più sporco ed aggressivo; se aggiungete poi che il ritmo musicale è molto sostenuto, ecco che le assonanze con il sound dei Primal Fear cominciano ad essere parecchie. A voi la scelta se questa somiglianza possa essere un pregio o un difetto, a me non è dispiaciuta per niente, dato che gli 11 pezzi (+ discreta intro sinfonica) dell’album si lasciano ascoltare in maniera molto gradevole. Certo, almeno per quanto mi riguarda, quando Camillo Colleluori “pedala” con la sua batteria imprimendo velocità sostenute alle musiche, l’energia scorre che è un piacere; al contrario, quando le ritmiche si fanno più cadenzate, alla lunga qualche sbadiglio si rischia e forse sarebbe stato meglio accorciare un po’ il minutaggio di qualche pezzo (“Chained”, ad esempio, con il suo coro ripetuto ossessivamente è un po’ noiosa e rappresenta, per i miei gusti, il punto più basso a livello qualitativo). Per fortuna le parti strumentali sono sempre ottime, con il consueto grande lavoro agli assoli di Nick Savio ed anche del bassista Dave Cestaro (ascoltare l’attacco di “Haunting the sinner” per averne un’idea). Tra le canzoni che mi hanno convinto di più segnalo la rocciosa “Tears of pain”, la già citata “Haunting the sinner”, le telluriche “Hit in time” e “Voodoo rites”, nonché la melodica “Snowblind”, forse la migliore di tutto il disco. “Poison in black” prosegue il cammino degli Hollow Haze, band che forse non passerà alla storia del metal mondiale, ma che suona comunque musica molto piacevole, ricca d’energia e che può andare incontro ai favori di chi ascolta power metal e non cerca particolare originalità.

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