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Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    19 Ottobre, 2019
Ultimo aggiornamento: 20 Ottobre, 2019
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Il progetto dei Demoni assetati di sangue vede le tenebre (non certo la luce..) nel vetusto 1997 nelle lande varesotte ad opera di quella mente perversa che risponde al nome di Cristian (?!) Mustaine, eclettico polistrumentista rimasto l’unico a rappresentare quella che, per lungo tempo, è stata una vera e propria congrega di sanguinari dedita ad ogni cattiva opera.
Congrega dedita alla forgiatura di un metallo che, più che black, è un metallo dark intriso di profonde venature horror, un po’ sulla scia mortale dei Death SS et similia.
Il songwriting è molto convincente, anche perché forte di un background non certo della prima ora: i Blood Thirsty Demons hanno già partorito dalle loro menti insane la bellezza di otto full lenght, due demos, un live e svariati videos; non possono dunque essere considerati dei neofiti del genere.
Un metal grandguignolesco, che faticosamente fuoriesce dalla bara per avvolgere il malcapitato ascoltatore in un vero e proprio vortice mortifero sinuoso ma mortale.
Nessuna speranza, nessuno spiraglio di luce per guidare una improbabile salvezza dell’anima del povero ed ingenuo appassionato dell’oscurità, che finirà inesorabilmente per rimetterci la pellaccia tra atroci sofferenze sonore!
In realtà, chi si accosta a questa opera al nero, sa benissimo che – nel momento stesso in cui ha deciso di ascoltare questo CD – sta andando incontro alla propria fine, a mo’ di ennesimo (e, per lui/lei, ultimo) capitolo della saga “Final Destination”.
All’ascolto di brani come “I’m dead!” o la stessa title track sarà l’ecatombe senza compromessi e senza bisogno né di blast drumming né urla strazianti bensì grazie al sapiente utilizzo di atmosfere che rievocano tutti i Maestri del genere, con tanto di organetto malefico e basso sulfureo.
Con questa loro ultima (ma non ultima) black-opera, i demoni assetati di sangue pubblicano le ultime cronache dall’aldilà trascinandoci nell’oltretomba più profondo, probabilmente per non far più ritorno.
Non si sa mai, prima di ascoltare chi ha fede solo nella morte (appunto, in death we trust) fatelo ‘sto benedetto testamento! A fare da notaio ci pensa Cristian Mustaine…

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    28 Settembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 28 Settembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Sorti nel 2002 all’ombra del Duomo meneghino, questo combo dedito originariamente al Thrash Metal/Metalcore successivamente evolutosi in Progressive Metalcore, è pervenuto alla sua quinta release.
Da sempre, far parte del rooster Metal Blade è, ancora oggi, un vero e proprio marchio di qualità, una garanzia di assoluta affidabilità dell’opera in generale. Ebbene, questi cinque ragazzotti provenienti da Milano non fanno eccezione: più che in una sala di incisione, si sono dati appuntamento in una fucina in cui hanno letteralmente forgiato una realizzazione in metallo purissimo, durissimo, senza compromessi, ricco di spunti davvero molto interessanti! Certo, più si va avanti con gli anni e più è difficilissimo, arduo escogitare qualcosa di nuovo, qualcosa di “non sentito prima”: i Destrage sono pienamente riusciti in questo mirabile intento! Hanno saputo fondere, infatti, quasi tutto lo scibile metallico nelle sue varie articolazioni e venature, lo hanno condito con tecnica individuale a profusione (ma senza mai renderla fine a sé stessa) e potenza e precisione esecutiva come se non ci fosse un domani: insomma, hanno reso perfettamente l’idea di che cosa sia/debba essere il Progressive-Core! Anche le numerosissime aperture melodiche si palesano assolutamente d’effetto e calzanti, a tratti persino esaltanti! Il singing di Paolo Colavolpe spazia imperterrito dal pulito allo screamo al growl sulla tendenza alla estrema versatilità dei vocalist diventata un must per chiunque si voglia cimentare alle corde vocali in una metal band che si rispetti. Così come il drumming senza requie di Federico Paulovich tocca punte di blast micidiali senza mai sbavature. Le scuri a sei corde di Ralph e Matteo giocano ad inseguirsi e ad intrecciarsi mortalmente.
Il tutto sotto l’egida delle granitiche linee di basso inferte da Gabriel, portavoce della band. Ne scaturiscono otto perle di superlativa fattura, di non pronta assimilazione anche per i padiglioni auricolari più avvezzi ma che si fanno apprezzare viepiù ad ogni ascolto successivo, anche per la estrema ricchezza di sfumature come un abnorme fascio di nervi che si intrecciano tra loro per dar vita ad un unico, possente ed indomabile nerbo! Un cesto di gemme tra le quali, a mio avviso, spicca “Hey, stranger!”, vera e propria summa del Destrage-Sound e della attitudine del tutto eclettica dei cinque meneghini. Come diceva uno spot pubblicitario di un po’ di tempo fa, accattatevìllo!!!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    14 Settembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 14 Settembre, 2019
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Ritengo che la cosa più bella sia imparare (vabbè, dai, al quinto posto…).
Da buon socratico, so di non sapere e ogniqualvolta mi vien data la possibilità di colmare una delle mie infinite lacune, sono estremamente contento. Ebbene, ignoravo che – fin dal lontano 1991 – il nostro beneamato e bistrattato suolo italico fosse calpestato anche da questi fratelli metalbangers romani, dediti ab origine ad un metallo tanto epico quanto maestoso! Così come ignoravo che avessero dato alla luce ben 15 opere (tra demo, split,etc.) e che fossero al sesto album! Preallertato da cotante notizie, avendo dato una letta alla tracking list ed essendomi fatto già una prima, embrionale idea di cosa mi sarebbe toccato ascoltare, ho aperto il mio amato libro di illustrazioni di Gustav Dorè (il top quanto a potenza evocativa delle illustrazioni che spaziano dal sacro, al mitologico fino all’esoterico) noto per le sue fantastiche tavole della Divina Commedia: non mi sono sbagliato. Non appena ho dato il primo ascolto alla opening track dedicata al biblico Leviatano con davanti la corrispondente tavola dell’illustratore francese, mi sono immedesimato a tal punto che sentivo le gelide acque sulla mia pelle, sentivo i flutti tenebrosi avvolgere il mio corpo e quasi sfioravo la terribile creatura del male. Come inizio, davvero ragguardevole!
Tutta la fatica dei capitolini si palesa davvero notevole: songs fortemente orientate verso l’epic metal con vette di symphonic e strizzate d’occhio al black & death. L’unica cosa che non trovo confacente è il cantato (ma è una cosa mia…solo questione di gusti): quando penso all’epic, trovo adeguate le atmosfere altisonanti, da grandeur con ritmi possenti ma non tali da sconfinare nel blast drumming; penso ad un singer alla Eric Adams dei boss del settore Manowar e non a linee vocali in growl o in scream, più adatte al black metal (Dimmu Borgir docet). Ciò nonostante, il mix micidiale proposto da questi ragazzi/veterani del genere, che ci fanno anche rivivere in maniera pregevole i fasti dell’antico impero romano, non risulta affatto male e forse è proprio questo il loro marchio di fabbrica: un metal (appunto) imperioso che non fa prigionieri ed è capace di catapultarti nei suoi gorghi tanto oscuri, quanto evocativi. Sempre così!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    31 Agosto, 2019
Ultimo aggiornamento: 06 Settembre, 2019
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Metalbangers, dopo la torrida pausa estiva torniamo a recensire, ripartendo da un altrettanto torrido album, generato dalle menti contorte e dagli arti irrequieti dei salernitani Circle of Witches. Attivi sulla scena metal dal 2004, questi quattro ragazzotti non proprio tranquillissimi, ci propinano un metal alquanto muscolare, di quelli tutto forza e sudore! Un disco che trasuda potenza da tutti i solchi, un disco la cui tracklist ci piazza 11 autentiche mazzate ad altissimo tasso esoterico per quanto concerne le tematiche trattate nei testi (basti considerare le pieces dedicate a personaggi propugnatori di idee strumentalmente travisate come Giordano Bruno, o a tematiche sapientemente distorte come il culto del Bafometto, etc. per rendersene conto immediatamente). So benissimo che etichettare non sempre è opportuno e proficuo, specie nella musica e (ancora di più) nella musica che amiamo, ma non posso fare a meno di denotare che i Circle of Witches riescono a mescolare sapientemente power, dark & epic creando un album che rappresenta il giusto mix, un vero e proprio cocktail micidiale! Questo terzo full-lenght (che segue “The Holyman’s Girlfriend” del 2007 e “Rock the Evil” del 2014) risulta molto ben suonato (senza inutili ostentazioni e/o esagerazioni) con il giusto, furente piglio e senza mai debordare in riferimenti/ispirazioni a bands del genere, rendendo il tutto molto interessante e difficilmente catalogabile. Pregevoli gli assoli i quali, coerentemente con quanto esposto, non si appalesano mai strabordanti e ridondanti, bensì precisi ed efficacissimi. Le vocals del corpulento Mario “Hell” Bove ben si addicono al tutto, essendo anch’esse senza virtuosismi né fronzoli, ma rivelandosi assolutamente adatta al contesto generale. Variegato il songwriting, il quale fa sì che la fatica dei nostri salernitani non sia mai ripetitiva ma sempre interessante e diversamente potente, trainata da una sezione ritmica sismica, in grado di incollarti al muro senza tanti convenevoli, immobilizzandoti tutto tranne la testa, libera di scatenarsi in un headbanging senza requie! Davvero pregevole, questo disco dei quattro horsemen campani, sul quale (a mio parere) si stagliano l’ultima traccia “Cult of Baphomet”, di grosso spessore e che ben si appaia con la gregoriana “Deus Vult”, assolutamente spiazzanti ma senza essere “fuori traccia”. Da acquistare e ascoltare fino a usura fisica del cd e di tutto l’apparato scheletrico.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    06 Luglio, 2019
Ultimo aggiornamento: 06 Luglio, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Settima fatica full-lenght in studio per questi precursori del thrash in terra italica! Questi autentici pionieri nostrani del genere, infatti, solcano il suolo natìo fin dal lontano 1982 con il monicker “Killdozer” ideato da Diego Colombo e Stefano Bullegas. Il 1986 è stato l’anno in cui il Maestro d’Ascia Tommy Massara, nella metropoli meneghina, rilevando Bullegas, ha (RI)fondato un combo di trashers che potesse avere – come mission – quella di rinverdire i fasti del thrash metal californiano, quello della Bay Area, tanto per intenderci.
Da allora, senza compromessi, senza “se” e senza “ma”, i nostri quattro horsemen milanesi hanno sempre portato alto il vessillo che fu di nomi altisonanti come Exodus, Flotsam & Jetsam, Testament (of course, senza considerare i titani Metallica e Megadeth). Quindi, ecco i potentissimi chitarroni lanciati a velocità supersoniche in riffs tritacarne ed in assoli a ghigliottina (master Tommy), bassi tellurici intorcina-viscere (Gabri), drumming estremamente dinamico con doppia cassa “comesenoncifosseundomani” (Francesco) e ugole al vetriolo (Tiziano) come da canoni del genere, ma sempre rivisitati, arricchiti e riproposti con freschezza e dati in pasto a furenti metalbangers affamati! Si sa, dove c’è l’acciaio non vi è ruggine di sorta ed i nostri non fanno eccezione, presentandosi al cospetto dei suddetti affamati in gran spolvero e tirati a lucido come canne di cannoni in condizioni di vomitare ordigni pesantissimi incessantemente, finché ci sarà ancora un grammo di adrenalina in corpo!
Finché ci saranno gli Extrema, il thrash in Italia avrà il suo baluardo invalicabile ed headbanging sarà per sempre!!!
E adesso scusate, ma devo andare a recuperare la mia testa; si è staccata durante l’ascolto e sarà andata a finire chissà dove…

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    29 Giugno, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Se nominassi il Dottor Federico Pedichini, probabilmente questo nome direbbe qualcosa a pochissimi.
Se nominassi Freddy Delirio (il suo nome d’arte/alter ego), probabilmente questo nome direbbe qualcosa a qualcuno in più.
Ma se dicessi che trattasi del tastierista dei mitici Death SS dal 1994, ovverossia il Fantasma dell’Opera, credo che un buon numero di fratelli metalbangers annuirebbero.
Soprattutto i patiti del genere prog-gothic (davvero una nicchia nella nicchia) ai quali sono tanto care le trame tastieristiche decadenti ma in condizioni di fare da ottimo supporto ad un sound altamente rock con tanto di chitarrone mastodontiche a farla da padrone.
Freddy è tutto questo e molto più: un filosofo polistrumentista con un background (come compositore) davvero invidiabile perché spazia dalla musica classica/operistica al metal passando attraverso la sinfonica ma sempre con quel tocco di horror-music che caratterizza (quasi si trattasse di un sortilegio) tutti i musicisti che hanno avuto a che fare con i Death SS.
È come se ti toccassero la spalla da tergo e tu, girandoti, ti trovassi di fronte al disastro fatto persona, con tanto di cappuccio, in tutta la sua sinistra cupezza.
Se poi a tutto questo per niente rassicurante scenario, ci aggiungi i quattro fantasmi (appunto, i Phantoms) che attorniano il nostro buon Freddy, il desolante ma stimolante quadro è completo!
Il contesto sparge esoterismo a piene mani, specie nei testi che concettualmente descrivono – per dirla con l’editoriale - fantasmi in una dimensione ancestrale senza tempo, anime che non muoiono mai e che attraversano il cammino in questa dimensione, dove ognuno porta la propria croce karmica (appunto, the cross – n.d.r.), vivendo l’esperienza di questo pianeta.
Questo ci dà il senso filosofico della band, partendo da Freddy che, noto per impersonare il fantasma dell’opera dei DEATH SS, troviamo in questo caso in una veste molto più surreale.
Nelle liriche si parla di esperienze varie di vita vissuta in comunicazione con una dimensione non sempre tattile e umana, partendo dall’amore ancestrale per arrivare ai gironi infernali contrapposti al mondo dell’Iperuranio. Tra i temi trattati si parla anche dei resti di precedenti civiltà laddove si devono recuperare i nobili principi, con atmosfere surreali e sovente sinistre che sfociano in sospensioni musicali di un’altra dimensione.
Una vera e propria opera al nero, in cui sono proprio le sapienti sferzate prog-rock a tener vigile l’ascoltatore, impedendo che si perda nei meandri musicali impartiti sotto l’egida della Croce.
Max “Thunder” Giangregorio


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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    01 Giugno, 2019
Ultimo aggiornamento: 01 Giugno, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

1999: il millennio sta quasi per finire, allorquando, dalla gelata terra svedese – e, in particolare dalla fredda Stoccolma – sbucavano dal sottobosco dell’hard & heavy tre ragazzotti scandinavi dediti ad una malsana fusione tra dark anni ’70 di sabbathiana memoria e vero e proprio doom metal. Una vera e propria svolta personale, dopo un triennio (dal 1996) in cui avevano messo a ferro e fuoco tutto ciò che capitava loro a tiro sotto il monicker Smack.
Come dicevo, un insano mix tra reminiscenze sabbathiane e doom, con una spruzzatina di stoner e una pennellata di epic quanto basta: è questo ciò che traspare fin dalle prime note di questo inno al Dio Lupo. Un lupo che sembra davvero materializzarsi, saltando fuori minaccioso nell’impenetrabile foresta nera svedese, puntando direttamente alla tua malcapitata testa! Non ci sono requie in questo lavoro del trio del Grande Mago, dal quale sgorga del (l’in)sano cibo per le instancabili fauci del metalbanger più scafato. La voce di JB è incredibilmente simile a quella del suo conterraneo (ex singer dei mitici Candlemass) Messiah Marcolin e gli assoli d’ascia (sebbene non siano il massimo del virtuosismo) sono quantomai azzeccati ed efficaci come i riffs in cui si vanno ad insinuare.
Il suono è maestoso, strapotente, rendendo giustizia ad una produzione esaltante. La track list rivela brani variegati tra loro, sia per ritmica che per partiture, che fanno scivolar via l’ascolto dell’intero cd senza farti nemmeno rendere conto che la tua testaccia dura è finita direttamente sullo stereo a furia di headbanging, grazie anche ad una sezione ritmica davvero energica ed energetica in grado di supportare egregiamente il front man del power-doom-trio svedese.
Dieci pezzi di roccia incastonati in monolite di acciaio: dalla intro strumentale per niente banale, fino alla finale “Untamed” è un’unica, sfrenata cavalcata metallica, una lunghissima scarica di adrenalina in onore del Dio Lupo. Celebratelo ed ululate con lui!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    25 Mag, 2019
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Los Angeles, California, U.S.A., 1978: Scott Reagers (vocals), Dave Chandler (guitars), Mark Adams (bass), and Armando Acosta (drums) scoprono di avere qualcosa di pesante in comune: nelle loro vene scorrono i Black Sabbath!
Pensano bene, quindi, di aggregarsi per dare alle tenebre il monicker “Tyrant”, poi modificato nel 1981 in Saint Vitus.

E doom metal fu!
Gente dal sangue nero come la pece e come il loro sound, perfetto per un party notturno in obitorio!
Sangue che permetterà al defezionario Scott “Wino” Weinrich di formare i mitici Possessed nel 1986 e che scorrerà come linfa mortale fino al 1995, anno dello smembramento temporaneo della band.
Ma si sa, il nero veleno scorre e, prima o poi, si rimaterializza quando e dove meno te lo aspetti e, come pianta venefica, nel 2007 i quattro doomsters si rifanno “vivi” spandendo il loro suono cupo e tetro in ogni dove.
Addirittura, nel 2012 torna il redivivo Wino a porre al servizio della decadente causa le proprie corde vocali, fino a che non potrà rifiutare il gentile invito della galere norvegesi ad esser loro (s)gradito ospite nel 2014.
Poche bands sono state sempre fedeli a sé stesse ed alla linea (rimanendo rigorosamente di nicchia, d’essai) come i Saint Vitus (mi sovvengono i Manilla Road, gli Hawaii) portanto avanti imperterriti il loro dark job!
Sono il gruppo musicale che ogni agenzia di pompe funebri vorrebbe ingaggiare a tempo pieno (..in eterno…) per rallegrare la propria premiata ditta da cui nessun cliente è mai tornato indietro a lamentarsi.
Da sempre, le inconfondibili accelerazioni di cui infarciscono i loro brani soffocanti come le spire di un boa constrictor, ricordano il ballo di San Vito tanto caro ai tenebrosi ed oscurantistici tempi medievali (anche se sappiamo benissimo che si tratta di un falso mito, un luogo comune che dimentica di quali fioriture è stata capace quella tanto bistrattata era in tutti i settori dell’umano sapere).
Per il resto, arduo si rivela il dover selezionare uno o più pezzi tra i 9 che compongono il funereo cd: in realtà, dovreste immaginare di dover scegliere quale sia la lapide più bella in un ruvido campo cimiteriale. Ovviamente, con vista dal basso…
Max “Thunder” Giangregorio


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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    05 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 05 Mag, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Questa onesta band di appassionati del mitico Ronnie James Padovano (in arte Dio) è sorta nel non recentissimo 2010, con il precipuo compito di rievocare le epiche gesta dello gnomo metallico per eccellenza. Ma il fato cinico e beffardo, si sa, è sempre in agguato e – proprio il 16 maggio dello stesso anno – ci ha strappato via il leggendario vocalist, sicchè i nostri hanno pensato bene di sospendere sine die le registrazioni del tribute album. Sono così trascorsi tanti anni e, finalmente, ha visto la luce la fatica di questi quattro operosi e tenaci seguaci del Ronnie James.
Ne è sortito un tribute album assolutamente onesto e sincero, suonato con buona tecnica e dedizione, anche se un po’ freddino. Un compitino portato a termine con tanta buona volontà che, però, non fa certo gridare al miracolo. Quando si tratta di tribute album, ritengo sia interessante anche inserire dei brani completamente stravolti o, almeno, fortemente riarrangiati. Nemmeno l’apporto di numerosissimi guests ha inciso in maniera determinante, non riuscendo a elevare la media del lavoro nel suo complesso. Pur tuttavia, anche grazie al paziente lavoro degli amanuensi copiatori nel medioevo, tante opere hanno potuto continuare e vivere fino ad essere divulgate nei secoli a venire, fungendo da baluardo in difesa della cultura. Allo stesso modo, grazie a tribute bands come questa, il verbo metallico e le gesta dei suoi propugnatori possono continuare a perpetrarsi presso le nuove generazioni di metalbangers!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    06 Aprile, 2019
Ultimo aggiornamento: 06 Aprile, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Correva l’anno 1985 quando, su una delle città più controverse del nostro beneamato stivale, Genova, calava un drappo nero come la pece, in grado di portare in ogni dove l’oscurità più profonda: erano nati i Necrodeath!
La perversa mente di Flegias, dalla voce dolce e delicata come una lama di rasoio che ti sfregia la faccina, partorisce un combo che riesce a mettere subito le cose in chiaro: negli inferi del black/death metal (all’epoca ai primi “vagiti”) c’era anche una band italiana!
C’era e c’è ancora, eccome!
Questo “Defragments of Insanity” rappresenta la nona opera al nero dei quattro demoni della Lanterna, impreziosita da decine di releases tra demos, splits, videos, compilations, etc. E' la riproposizione con l'attuale formazione del capolavoro del 1989 "Fragments of insanity", con i brani ri-registrati e leggermente modificati.
È da quasi ben 35 anni che i Necrodeath resistono, senza esser minimamente scalfiti dall’onta del tempo che scorre inesorabile, nella compagine dei veterani del black’n’death metal.
E lo fanno mantenendo pressochè intatta la loro venefica ricetta: occultismo, morte, satanismo e violenza!
Premesso che, per tutte le bands, è praticamente impossibile non pagare l’ineluttabile tributo agli onnipresenti Dei incontrastati del metallo nero Slayer, la coerente e bruciante proposta di Flegias e Co. continua a perpetrarsi attraverso album quasi rituali come i più efferati omicidi commessi da un serial killer che si rispetti.
Tutti i solchi di questo full-lenght trasudano malevolenza, al punto che – a tratti – sembra che abbiano rievocato la buonanima di Jeff Hanneman per venirli ad ispirare nel realizzare le otto tracce dannate di cui si compone.
Ne vien fuori un figlio, ancor più degenere della prima versione, di Reign in Blood a livello di intensità e di violenza sonora (e non solo) degni di una masnada di torturatori professionisti, il cui sadismo è pari solo alla loro tecnica, non sopraffina ma concepita nella sola ottica del dolore senza fine.
Insomma, questi blacksters liguri si ergono, ancora una volta, a baluardi posti ad imperitura difesa dell’oscuro genere metallico, massacro sonoro dopo massacro sonoro.
Max “Thunder” Giangregorio

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