Opinione scritta da Celestial Dream
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Top 10 opinionisti -
Quarto disco per i finlandesi Silent Voices (attivi addirittura dal lontanissimo 1995) anche se i primi tre album mi sono passati del tutto inosservati, quindi per il sottoscritto "Reveal the change" è il primo approcio con la band. Oltre ad avere in formazione alcuni membri di Sonata Arctica (Klingenberg alle keys e Kauppinen al basso), il gruppo scandinavo si è avvalso di alcuni special guest per coprire il ruolo vacante di vocalist. Appaiono così Mats Leven (ex Therion, Malmsteen) e Tony Kakko (Sonata Arctica), Mike Vescera (ex loudness, Malmsteen) e Mike DiMeo (Riot, Masterplan), tutti singer di razza.
Difficile inquadrare con precisione Il sound dei Silent Voices, che in realtà molto deve al hard rock e al heavy metal come potete sentire dalla (non eccelsa) song d'apertura. Aldilà del genere proposto, il problema di questo "Reveal the change" è che pur alternando buoni cantanti, non sempre i brani riescono a far brillare l'occhio dell'ascoltatore esperto, quello che ne ha già viste e sentite di tutti i colori e che per farlo emozionare ormai ha bisogno del guizzo di genio. "Faith in me" con Tony Kakko alla voce sembra uscita da uno delle ultime fatiche della sua band ma rimane solamente un brano discreto. "No turning back" si candida a miglior pezzo del disco insieme alla potente "Burnig shine", un caso che siano entrambe cantate da Mats Leven?! La lunga e progressive "Through My Prison Walls" chiude il disco con un bel chorus e fosse dutata un pò meno, probabilmente ne avrebbe giovato.
Tirando le somme, se il disco contiene solamente 7 brani e di questi 2-3 non sono niente di che, il risultato non può essere eccelso. "Reveal the change" è un buon disco che può piacere a chi si nutre quotidianamente di power-prog metal. Certo che non siamo neanche lontanamente vicini al top per quanto riguarda questo genere, e band come DGM ed Epysode (tanto per citare un paio di uscite di quest'anno) rimangono su un altro livello.
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I Padovani Neversin arrivano al secondo disco in carriera e lo fanno tramite la storica label italiana Underground Symphony. Nonostante la tradizione della label piemontese, la band veneta non è dedita al power metal che molti si sarebbero aspettati, ma ad un incrocio tra prog rock, metal e aor, con canzoni dalla struttura non banale ma piuttosto complessa (più prog rock) ma con linee vocali molto melodiche vicine quindi all'adult oriented rock.
La band veneta decide di partire subito con le marce alte e la lunga suite "Android"; oltre 16 minuti divisi in 8 parti abbastanza distinte che spaziano da momenti più prog come "I" (che arriva dopo la bella intro strumentale "Escape from the plan of the robots") al melodic rock di "Hit the road" fino al quasi classic metal della positiva "Ghostrider". Il comun denominatore di tutti i brani resta comunque la melodia e i Neversin piazzano qua e là ottime aperture melodiche che piacciono già dai primi ascolti come in "Violet". Inoltre sono degni di nota le parti strumentali con ottime parti di chitarra del duo Scalcon-Fabian che si sbizzarriscono anche in alcune strumentali ben composte. Qualche rimando ai Dream Theater è presente qua e là durante l'ascolto del disco come ad esempio nella sognante ballata "The star watcher" o nel ritornello della splendida (e per certi versi epica) "Sons of the highlands", vera hit del disco.
Davvero positivo questo "Of robots and men" dei Neversin. A volte ci accorgiamo solo per caso di avere magari a due passi da casa, delle band così talentuose. Se amate il melodic hard rock ricercato con alcuni inserti prog allora forse dovreste soffermarvi su questo disco.
Ultimo aggiornamento: 18 Dicembre, 2013
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A volte ritornano! Chi lo avrebbe mai detto, solo qualche mese fa abbiamo recensito gli Harllequin e intervistato Mario Linhares a proposito della sua nuova band (gli Harllequin appunto) e mai avremmo pensato di avere tra le mani, per lo più entro fine anno, il nuovo disco dei Dark Avenger. Ebbene si, la band brasiliana autrice di quel grande gioiellino di heavy metal che fù il debut e omonimo album (uscito anche per Scarlet) e del successivo buon "Tales of Avalon: The terror" (ben 12 anni fà) riesce finalmente a pubblicare il terzo disco, composto e registrato dopo la reunion di un paio d'anni fà, ma "bloccato" per problemi di diritti con la vecchia label.
Se forse il tallone d'achille del già citato "Tales of Avalon: The terror" era di essere troppo prolisso (14 brani, 65 minuti di durata), questo The Lament con undici brani compatti, supera agevolmente questo problema. Registrato agli studi Rossom in Brasile da Tito Falaschi, e mixato e masterizzato nei rinomati WireWorld da Michael Wagener (Ozzy Ousbourne, Metallica, Skid Row etc..), "Tales of Avalon: The Legacy" possiede un sound potente, capace di esaltare le composizioni della band e quella mazzata di riff che vengono macinati in un vortice sonoro potente e melodico già dalla prima favolosa song che è "From father to son". Il disco alterna brani aggressivi in pieno stile heavy come "Doomsday night" e "The thousand ones" a pezzi più melodici, come la riuscitissima "Stronger than death" che a tratti può ricordare addirittura qualcosa dei Kamelot. C'è chiaramente spazio per le ballate; i nostalgici si ricorderanno nel passato dei Dark Avenger alcune gemme come "Half dead eyes" ma la splendida "Can you feel it?" può reggerne il confronto (da applausi il coro finale con voci bianche) così come la breve acustica "And so be it...". La power song "Dead yet alive" è una vera e propria hit, un pezzo da novanta con Edu Falaschi ospite anche se ad aprire le danze ci pensa la splendida voce femminile di Clarissa Moraes. E di Mario Linhares che possiamo dire? Il singer brasiliano si dimostra, a distanza di anni, ancora un cantante di primissimo livello, capace di cambiare forma a piacimento. E la band lo segue alla grande con la coppia Valdez-Bemolator (quest'ultimo poi sostituito da Jeff Castro) a macinare riffs e solos ed un Kayo John notevole alle pelli.
I Dark Avenger hanno composto un disco ruvido ma ruffiano, che mostra le unghie ma allo stesso tempo contiene un'elevata dose di melodicità. Ero ottimista sul fatto che i DA sarebbero potuti tornare sulle scene con un gran bel disco, e così è stato. E allora procuratevi questo "Tales of Avalon: The Legacy", premete play e fate esplodere le casse del vostro stereo!
Bem vindo de volta!
ps- il disco viene accompagnato da un lussuoso digipack ed è ordinabile scrivendo direttamente alla band.
Ultimo aggiornamento: 17 Dicembre, 2013
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Avevo sentito nominare diverse volte questi Ainur e mi ero ripromesso più volte di approfondire la loro proposta, ma ammetto che non li avevo mai ascoltati seriamente fino a questo "The lost tales", loro quarto disco in studio. Questa band italiana, una delle più famose al mondo nell'ispirarsi al grande autore fantasy J.R.R. Tolkien (ed in particolare al Silmarillion), dopo i primi 3 dischi ("From Ancient Times" 2006, "Children of Hurin" 2007 e "Lay of Leithian" 2009), hanno deciso di pubblicare questo album che va a riprendere alcuni dei momenti migliori della propria discografia, rivisitandoli in versione acustica e aggiungendo tre nuovi brani inediti. Se siete interessati anche al fattore lyrics, potrebbe interessarvi sapere che in queste songs la band va a concentrarsi in particolare sui primi scritti del grande scrittore tedesco.
Ascoltando "The lost tales", magari stesi sul letto ad occhi chiusi, sembra di assistere ad un musical fantasy con tanti attori e personaggi che entrano in scena e danno vita alla loro personale performance. Sicuramente l'ascolto di questo disco non è banale e, se non siete amanti di queste sonorità folk rock un pò stile opera teatrale, difficilmente saprete apprezzarlo. In caso contrario, invece, il lavoro degli Ainur potrà deliziarvi con belle melodie vocali, interessanti intermezzi acustici e la capacità di farvi rivivere una fiaba grazie ai 16 musicisti coinvolti. Ancor più se siete fans del Silmarillion e della letteratura fantasy ed, in particolare, del grande Tolkien. Inutile quindi soffermarsi su dei singoli brani quando tutti sono piacevoli e l'album va gustato dall'inizio alla fine.
Come detto sopra questo sound deve piacere, quindi scordatevi chitarroni, ritmi serrati e tutto ciò che non ha a che fare con la musica medievale e acustica. Ma se vi sentite almeno un pò menestrelli dentro, allora "The lost tales" potrebbe essere il disco giusto nelle prossime gelide serate natalizie.
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Nati nel 2011 da Mattia Gosetti arrivano subito al loro secondo disco i Sirgaus, band che il bassista e autore italiano ha fondato con la moglie Sofia che evidentemente, oltre essersi occupata delle voci del disco, ne ha anche ispirato il titolo. "Sofia's forgotten violin" è un album autoprodotto (ma edito da Videoradio edizioni musicali) contenente 11 brani e che unisce più influenze dal rock al metal, fino al grunge ed al folk, quest'ultimo grazie al violino sempre ben presente e suonato da Lethien, violinista dei grandi Elvenking.
In oltre 56 minuti di musica però, la band Bellunese non riesce a mantenere un livello compositivo adeguato agli standard a cui siamo ormai abituati. Le composizioni non sono brutte e si lasciano anche ascoltare, nonostante una produzione non eccelsa, e tra i pezzi più riusciti direi che sia giusto citare "Evening lessons" che gioca con dei bei cori e presenta un bel solo di chitarra, la song d'apertura "The orphan's letter", e la positiva "Real angel" con un ottimo duetto di voci maschile-femminile. Nel complesso però "Sofia's forgotten violin" contiene pochi momenti davvero interessanti e alcuni brani come ad esempio la teatrale "Cellar" risultano un pò pesanti e invogliano a premere il tasto skip per passare al pezzo successivo. Inoltre la voce di Sofia, probabilmente non aiutata dalla registrazione, non sempre convince appieno.
Insomma i Sirgaus devono partire da quanto di buono è presente in questo disco, ovvero alcune parti strumentali ben composte, certe orchestrazioni ed atmosfere, la presenza del violino che insieme ad altri elementi rende il sound della band piuttosto personale, per poter crescere e migliorare nella capacità di creare brani dalle melodie più d'impatto. Luci e ombre quindi in questo album, ma mi piace guardare al futuro dei Sirgaus con ottimismo. A presto ragazzi!
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Arrivano dalla Francia gli Operadyse, giovane band che segue la strada di gruppi come Serenity, Rhapsody, Fairyland e Kerion utilizzando la doppia voce maschile-femminile.
"Pandemonium" si presenta quindi come un classico disco di symphonic power metal, con copertina epica, produzione pulita, la solita intro orchestrale e tutte le componenti che hanno reso celebre questo genere musicale dai tempi di "Legendary Tales" dei maestri triestini Rhapsody. Se però da un lato dobbiamo constatare che i musicisti coinvolti sono validissimi, dall'altra parte non sempre le composizioni riescono a colpire dritte nel segno, così anche dopo ripetuti ascolti ci si accorge che a molti brani come "Celestial Sword", "Unfold legend" e la title track manca qualcosa per fare davvero breccia nel cuore dei fans delle bands sopra citate. Chi è cresciuto con dischi magici come "Symphony of enchanted lands" (Rhapsody), "Fallen sanctuary" (Serenity) e "Score to a new beginning" (Fairyland) si renderà presto conto che questi francesi sono in questo momento una band mediocre e con poche idee vincenti. Per fortuna troviamo anche qualche episodio ben riuscito come in "The path" degna dei migliori Fairyland o la sinfonica "Arkanya" che unisce Serenity ai primi Edenbridge.
Insomma un pò come i Pathfinder, gli Operadyse sono perfetti nella forma ma dopo alcuni ascolti ci si accorge che la sostanza è quella che è. Le potenzialità però ci sono tutte e partendo da questa sufficienza la band francese potrà fare molto meglio nel prossimo futuro.
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Un perfetto mix tra l'hard rock ed il metal degli anni '70 e '80? Un sound che unisce Rainbow, Dio, Whitesnake e Van Halen? Se è questo che state cercando da tempo, allora fermatevi qui perchè i Saffire fanno al caso vostro, o almeno è così che la loro etichetta li descrive. Di cosa stiamo parlando? Di una band al debutto, direttamente dalla Svezia, con una produzione davvero buona grazie al lavoro svolto da due grandi nomi come Fredrik Nordström e Henrik Udd agli Studio Fredman (At The Gates, In Flames, Hammerfall) ed alla masterizzazione da parte di Jens Bogren agli altrettanto famosi Fascination Street Studios (Symphony X, Opeth, Kreator).
Ispirati dalle band sopra citate, questo disco ci mostra un gruppo interessante, che possiede quella marcia in più in grado di farsi notare tra la marea di bands che affollano il mercato odierno. Questo grazie a songs potenti, melodie fresche, tecnica invidiabile ed il songwriting di Victor Olssons davvero degno di nota. Un album per i miei gusti un pochino troppo lungo (sapete che non apprezzo i dischi con più di 10-12 brani), ma capace di mantenere il livello costantemente alto in tutte le songs. Spiccano nella tracklist l'opener "Magnolia" e "Freedom Call" melodic metal song con ottimi spunti chitarristici che mette in evidenza la bella voce di Tobias Jansson, ottimo singer della band. La semi ballad "What if" è un altro brano ben riuscito, così come "Modus Vivendi" e la lenta "She remains a mystery" ma ripeto, il livello generale è parecchio elevato. Canzoni non banali ma con bei cori in stile Aor e parti strumentali ispirate (soprattutto nei solos di chitarra).
Un album che, anche se si dilunga un pò troppo, può davvero portare una ventata di aria fresca in un genere come questo, bravi ragazzi!
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2013
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Human Fortress - che aria leggendaria si porta dietro questo nome. Una band capace di scrivere due pietre miliari del power heavy epic metal con "Lord of earth and heavens heir" e "Defenders of the crown" rispettivamente negli anni 2001 e 2003. Tanti anni sono passati, la band tedesca a causa di problemi di line-up è rimasta ferma ai box per diverso tempo fino al ritorno sulle scene nel 2008 con lo scadente "Eternal empire", un album poco ispirato e lontano anni luce dai fasti del passato.
Ora nel 2013 il proclamato ritorno con questo "Raided Land". Diciamolo chiaramente: NO Jioti Parcharidis NO Party. Il cantante di chiare origini elleniche presente nei primi due dischi è un autentico fuoriclasse, di quelli in grado di elevare da solo una buona song in un brano spettacolare. Per questo disco Gus Monsanto si è preso il non facile compito di occuparsi di tutte le linee vocali e, anche se non ho mai amato particolarmente il singer sud americano (lo ricordiamo in numerose bands come Adagio, Revolution Renaissance e Symbolica), devo dire che la sua prestazione è davvero molto positiva. Peccato che Jioti fosse di un altro livello, ma questo non è certo colpa del buon Gus che svolge egregiamente il suo lavoro. Il resto lo fanno le composizioni; che dire?, è chiaro dopo pochi ascolti che, nonostante qualche buon brano iniziale, mediamente il songwriting risulti abbastanza debole e maledettamente poco ispirato (la seconda metà del disco fa acqua da tutte le parti). Certo qualche buona song è presente, come la potente "Child of war" o "Shelter", ma dell'epicità di un tempo non vi è neanche l'ombra. Anzi si, in effetti l'unica vera hit del disco è "Gladiator of Rome (part 2)" che è la seconda parte della splendida "Gladiator of Rome" contenuta su "Defenders of the crown".
E' chiaro che tutto questo discorso è legato anche al passato della band ma, visto che il nome è rimasto quello, non vedo perchè non dovrebbe essere così. In pratica, se "Raided land" fosse il debutto di qualche giovane band direi che si attesterebbe attorno alla sufficienza, ma essendo stato partorito dagli Human Fortress non può certo soddisfare le aspettative dei fans storici. Ancora una volta, e stavolta in maniera definitiva, direi che proprio non ci siamo.
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2013
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Arriva dalla Pure Legends Records, una delle tante sottodivisioni della storica Pure Steel records, questo debutto dei We are legend, band tedesca autrice di un power-heavy metal con tinte progressive. Ex membri di Stormwitch, Abraxas e Coronatus, quindi gente esperta e navigata che, con questo nuovo progetto, ci offre un sound originale con soluzioni interessanti capaci di attirare l'attenzione di chi non cerca solo doppia cassa e coretti.
Nove canzoni, per 45 minuti totali, un album melodico ma con songs intricate, con un bel lavoro di chitarra sempre accompagnato da pianoforte, belle melodie e continui e repentini cambi di tempo. Si parte con "Hungry mirrors" pezzo da 90 che mi ha ricordato qualcosa dei defunti Zonata per le linee melodiche. I We are legend trovano sempre dei bridge fantasiosi e geniali che meritano nient'altro che applausi come nella potente "This holy dark" (song selezionata anche per la registrazione di un video), supportata da riff massicci che si adagiano su un bel chorus e che, dopo l'assolo, presenta un intermezzo stile musical. Si continua a pestare non poco con "Enemy within" e sorprendere con i continui cambi di tempo della title track. Se "God is dreaming" mischia pop, glam rock e melodic metal ottenendo buoni risultati, con "Out!" troviamo una power song più tradizionale, quasi Helloweeniana. Chiudono piuttosto bene il disco la bellissima "Only time can tell" e la complessa e dalle tinte dark "March of the living".
I We are legend fanno subito sul serio; la band tedesca ha margini di miglioramento questo è sicuro, ma già con questo "Rise Of The Legend" dà alle stampe un album per nulla scontato, straconsigliato e che si può considerare senza dubbio tra i migliori debutti di questo 2013 ed una vera e propria inaspettata e positiva sorpresa.
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2013
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La domanda che ci accompagnerà durante questa recensione è: "ce n'era proprio bisogno?" Perchè gli A hero for the world, dopo il debutto 8 mesi fa ed il lungo ep di ottobre, sono ancora pronti a regalarci un nuovo disco, un regalo di Natale secondo loro, la Holiday Rock Opera "Winter is coming". E come sempre non sanno contenersi e finiscono con l'esagerare. Se, infatti, lo scorso ep conteneva ben 15 brani (ma che ep è mai questo?!), questa raccolta ne racchiude ben 21, sì, avete capito bene, 21 brani che, seppur non troppo lunghi, fanno lievitare la durata del disco ad oltre 80 minuti.
Che dire della musica? Basta la prima song a farci capire dove vanno a parare i nostri eroi, un medley di canzoni classiche natalizie (eh sì, tra cui anche Jingle Bells) che, ascoltata una volta può anche sembrare piacevole, ma poi tanti saluti e via. Si susseguono così brani natalizi rivisti in versione metal ad altri scritti appositamente per l'occasione dalla band, ma qui dentro ci sono songs di una inutilità unica ed ascoltare un disco del genere e di questa durata è praticamente impossibile, ve lo posso assicurare.
Insomma la domanda rimane: "ce n'era proprio bisogno?". C'era proprio bisogno di un altro disco? C'era proprio bisogno di riarrangiare queste canzoni natalizie? C'era proprio bisogno di 21 interminabili canzoni? E voi direte, e vi capisco, c'era proprio bisogno di questa recensione? Un disco inutile!
"Caro Babbo Natale, quest'anno penso di essere stato buono e ti volevo chiedere un dono che sicuramente renderà felice me ed altri miei amici e non: potresti far sì che gli A hero for the world non pubblichino altri dischi durante il 2014? Te ne sarei davvero grato e giuro che continuerò a fare il bravo!
Un abbraccio
Federico"
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