Opinione scritta da Celestial Dream
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Top 10 opinionisti -
Se i nomi di Aquaria e Age of Arthemis non vi suonano nuovi, allora fermatevi qui perchè probabilmente anche i TierraMystica fanno al caso vostro. Sempre dal Brasile questa giovane band ci propone del power metal con elementi etnici prendendo un pò d'ispirazione da quel capolavoro indiscusso che è "Holy land" dei conterranei Angra. In realtà il sound dei TierraMystica è più folk, con influenze della musica andina (tipica di quell'area dominata anticamente dagli Incas), ovvero con l'utilizzo di alcuni strumenti tipici come il charango, il quenae e la zampona.
"Heirs of the sun" è il secondo disco della band (che nella propria giovane storia può vantare anche un dvd) che dimostra già grande maturità e un'ottima capacità di songwriting. E così tra le due strumentali etniche con elementi folk "When the new..." (intro) e "Inti sunset" (outro), i TierraMystica ci deliziano con 8 songs maestose capaci di appassionare l'ascoltatore con ritmi tribaleggianti ed ottime melodie. "Vision of the condor" vi dà il benvenuto, ma il disco sale di colpi con le successive "Essence of pride" e "Myths of creation". Ed è proprio quest'ultimo il brano simbolo di questo disco; un pezzo straordinario, che contiene tutti gli elementi che caratterizzano il sound dei TierraMystica: sonorità folk, accelerazioni e splendide melodie. E poi la magia dell'acustica "Shine, once again", che vi farà sognare immaginando di volare verso luoghi lontani, e la seconda parte del disco che ci regala tanti momenti di alta classe come la power song "Gate of gods" e "The rise of the feathered serpent" che si candida tra i pezzi di punta dell'intero full lenght. Se tutta la band dimostra un'abilità tecnica notevole, è Gus Antonioli a spiccare; il singer brasiliano dimostra di essere un vero portento al microfono, possiede un timbro caldo ed una capacità non comune di interpretare i brani.
La copertina, i brani, il feeling che li accompagna, tutto è davvero perfetto in questo "Heirs of the sun". Ora tocca a voi: scoprite i TierraMystica e viaggiate ed esplorate con loro luoghi, musiche ed orizzonti lontani.
"Hand in hand we will be one with the sun,
When a new dawn arrives,
Color blue set the skies"
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Il finale del 2013 è stato musicamente scoppiettante con alcune uscite obbligatorie tra cui citerei anche i Silent Force che tornano a distanza di diversi anni (esattamente 6) da "Walk the earth". Conosco la band dal lontano 2001 dai tempi di "Infatuator", loro secondo disco, quando furono di supporto agli Angra nel tour di "Rebirth". La band tedesca ha sempre avuta gran considerazione nel mondo del power metal, anche se personalmente devo ammettere che li ho sempre considerati una band discreta ma nulla più. Ora tornano in pista con una formazione rinnovata per tre quinti e soprattutto senza DC Cooper alla voce, sostituito dal sempre presente Michael Bormann. Insieme a lui troviamo il nostro Alessandro del Vecchio alle tastiere, Matt Sinner (Primal Fear) al basso, e i confermati Andre Hilgers (anche nei Rage) alla batteria e lo storico (e fondatore della band) Alex Beyrodt alla chitarra. Inutile dire che con un singer come Michael di chiare radici hard rock, questo nuovo album abbia un suono meno power e più classico.
Lo si intuisce sin da subito dalla scoppiettante opener "Caught in the wicked game" pezzo da novanta che subito ci mostra una band carica ed ispirata. I Silent Force si muovono sapientemente tra hard rock, classic metal e un pizzico di power, con melodie catchy, coretti da cantare e ottime parti strumentali. "Circle of trust" si erge a best song del disco con il suo refrain fatto apposta per incollarsi al vostro cervello, mentre con la veloce "Before the run" sarete obbligati ad alzare il pugno al cielo. Bormann è fenomenale alla voce e i brani scritti a 4 mani tra lui e Alex Beyrodt, si sposano alla perfezione col suo timbro. La tracklist prosegue senza cali ed ogni brano è una possibile hit, come non citare infatti il roccioso hard rock di "You gotta kick it", la melodicissima "Living to die" o la Gottahrdiana "Anytime anywhere"?
Che bella sorpresa questo ritorno dei Silent Force; la band tedesca è risorta dalle proprie ceneri con "Rising from ashes", un disco davvero coinvolgente che cancella ogni dubbio riguardo i cambi di line-up, perchè Michael Bormann è una sicurezza ed i suoi nuovi compagni altrettanto. Bentornati!
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I Persuader sono una vera cult band e hanno molti fans che li seguono calorosamente fin dall'esordio, considerandoli dei veri idoli. Come i Savage Circus e i Sinbreed, questi svedesi fanno parte di quel gruppo di bands che si rifanno al sound dei Blind Guardian degli esordi, in pratica riprendendo le sonorità di dischi come "Somewhere far beyond" e "Imaginations from the other side" ovvero i lavori più massicci e meno barocchi e orchestrali dei guardiani di Krefeld. Quindi molti metalheads che si son sentiti traditi o disorientati dagli ultimi dischi di Hansi e soci, hanno virato verso questa band che è sempre fedele al proprio sound. E così dopo un silenzio di otto lunghi anni i Persuader son tornati a solcare i mari del power metal con il tanto atteso "The fiction maze" tramite l'attenta etichetta Innerwound Record
Il nuovo lavoro del gruppo svedese conferma quanto già fatto in passato e suona piuttosto massiccio con una produzione pulita e potente che ben si sposa con il genere proposto, e la voce ruvida ma allo stesso tempo squillante di Jens Carlsson, che inevitabilmente rimanda a quella bel buon Hansi. Riff trita ossa, che tanto si avvicinano al thrash ma accompagnati da linee vocali e cori non certo originali, ma melodici anche se in certi casi non così orecchiabili. In effetti il songwriting del quintetto svedese è leggermente più vario rispetto il passato, ed i brani necessitano di alcuni ascolti per essere metabolizzati. Troviamo infatti inserti growl in "InSect" e "Worlds collide" o ritmiche estreme in pieno stile death metal nella seguente "Falling faster" ma i risultati a mio modesto parere non sono eccelsi. Tra le canzoni più riuscite segnalo sicuramente "Son of sodom" cupo mid tempo dal chorus ruffiano e l'opener "One lifetime" brano che suona 100% Persuader. La realtà però è che alcuni pezzi scivolano via senza esaltare, perchè diciamocelo chiaramente, i Persuader sono bravi, i loro dischi sono piacevoli, ma "Imaginations from the other side" era tutt'altra cosa.
"The Fiction Maze" che esce nei negozi oggi 17 gennaio, ha il compito di aprire il sipario sull'annata power metal 2014. Un disco cazzuto ma che conferma i Persuader essere una band che ancora deve lavorare per potersi affermare al top del genere.
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Lo storico singer americano David Reece, che in passato ha collaborato tra le altre con bands come Accept e Gypsy Rose, ora arriva al suo secondo disco solista dopo il debutto del 2009 "Universal Language". "Compromise " può contare sulla partecipazione di alcuni grandi nomi della scena come il bassista Ronnie Parkes (7 Witches), il chitarrista Jack Frost (7 Witches, Savatage, Metalium), il tastierista Paul Morris (Rainbow, Doro, Jurgen Blackmore) e naturalmente di David che si occupa del cantato con una prestazione davvero maiuscola.
"Compromise" non sarà un disco da top ten del genere hard rock nell'anno appena terminato, ma si dimostra a tratti davvero piacevole grazie a songs come la ballata dall'alto tasso emozionale "Someone beautifull", il classic hard rock di "End of it all" e la spedita e melodicissima "Disaster". Un album vario che unisce l'hard rock ruvido a momenti dolci, ma non disdegna alcune spruzzatine di blues e la voce di David riesce sempre a sposarsi perfettamente con il contesto musicale. Peccato per la presenza di alcuni brani non certo entusiasmanti altrimenti il ritorno del singer a stelle e strisce sarebbe potuto essere ancora più scoppiettante.
Insomma, il secondo lavoro solista di David Reece è un disco indirizzato a chi vive di rock and roll, quello classico e massiccio senza disdegnare momenti sognanti. "Compromise" è un album ben costruito che non può che promuovere il buon e bravo David.
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Arjen Anthony Lucassen ovvero la mente di Ayreon, progetto che dal 1995 si ripropone di presentarci dell'ottima musica con grandi ospiti, torna alla carica con un nuovo, complesso concept album. Il polistrumentista olandese dopo una pausa di qualche anno ed un disco solista, ha deciso che è giunta l'ora per rispolverare la sua creatura principale, quella che l'ha reso celebre, con una nuova opera di prog rock/metal da ascoltare tutto d'un fiato, "The theory of everything". Un'ora e mezza di musica dove la parola canzone in senso stretto non trova spazio, due cd entrambi composti da due mega suite di oltre 20 minuti ciascuna, le quali sono a loro volta formate da tante brevi tracce per un totale di 42 brani.
Pezzi che si uniscono l'uno con l'altro come un puzzle, formando un'opera d'arte musicale ideata con estrema cura e dedizione. Ed essendo i brani piuttosto brevi naturalmente sognatevi strutture canoniche con vere e proprie strofe e ritornelli; questo disco è un continuo susseguirsi di stati d'animo e cambi di umore. Certo non tutti gli episodi contenuti in "The theory of everything" sono stratosferici e in qualche momento si ha la percezione di avere tra le mani solamente un buon disco, ma nel complesso Lucassen è riuscito a mantenere un livello piuttosto alto nel songwriting e a dire la verità anche quando l'ispirazione manca un pò, il disco riesce a rimanere abbondantemente a galla grazie a qualche invenzione strumentale e ad una produzione favolosa. E poi gli ospiti, con il talentuoso JB ex singer degli Spitual Beggars prezioso interprete con la sua voce calda e Tommy Karevik (Kamelot, Seventh Wonder) autentico prodigio ma che in realtà non ha troppo spazio qui per eccellere particolarmente (nei SW è tutt'altra cosa). In realtà a parere di chi scrive, gli assoluti protagonisti del disco sono proprio i meno conosciuti: da una parte l'australiano scovato quasi per caso Michael Mills, dall'altra la nostra Sara Squadrani dei grandi Ancient Bards. "Diagnonis" presenta un John Wetton al suo meglio a duettare con una splendida Cristina Scabbia, ed è tra i momenti più riusciti con "The eleventh dimension", favolosa breve strumentale, e "The theory of everything part 2" con il già citato Michael Mills, ma anche Marco Hietala dimostra il suo valore ed il suo ampio range vocale in "The rival's enigma". Per chi fosse nuovo alle sonorità di Arjen e di Ayreon troverete un pò di tutto in questo disco, dal prog classico, al folk, oltre che a svariati momenti acustici, e la presenza di strumenti a fiato, violoncello e violino, il tutto arrangiato con classe superiore.
Il nuovo capitolo targato Ayreon non arriva a sfiorare il livello compositivo dei punti più alti della discografia di Lucassen ("Human equation" per esempio) e non si può definire un autentico capolavoro, ma non vi è dubbio alcuno che "The theory of everything" sia un ottimo disco ed un must per ogni progster e amante del metal melodico e ricercato. Un avventura a cui non si può certo rinunciare.
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Davvero poca roba questo come back dei Kick, band inglese il cui l'ultimo lavoro in studio risale al lontano 2004 con "New horizon" (e relativo tour con Magnum e Thunder). Undici nuove songs (e due bonus tracks) che riportano sulle scene il quintetto britannico capitanato dall'ugola non troppo convincente del singer (e principale songwriter) Mickey Jones.
"Memoirs" è il titolo di questo nuovo lavoro che vede i Kick fedeli al loro sound, che strizza l'occhio all'aor ma suona a tratti ruvido e ricorda sonorità di band imponenti come Whitesnake, Alice Cooper e Def Leppard, ma con un tocco più moderno. Il songwriting però convince poco; songs banalotte e piatte, riff già sentiti e risentiti e melodie poco convincenti fanno di "Memoirs" un disco tutt'altro che interessante e di cui non saprei proprio cosa consigliarvi.
Insomma il ritorno dei Kick non fa parte delle uscite imperdibili dell'anno appena terminato.
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Per festeggiare il 25esimo compleanno i grandi Mago de Oz, leader indiscussi del metal spagnolo negli ultimi 15 anni, pubblicano questa raccolta divisa in due dischi, in cui si vanno a riproporre naturalmente 25 brani con una nuova veste.
"Celtic Land" vede molti ospiti della scena metal e soprattutto hard rock mondiale che interpretano alcuni brani storici in alcuni casi cantando in lingua inglese. E questa è una novità per quanto riguarda la band capitanata da Txus che mai si era spinta così "lontana" dalle proprie radici. Il primo disco infatti è composto esclusivamente da brani cantati in inglese, come potete vedere dalla tracklist. Gli ospiti sono illustri, ci mancherebbe; troviamo così un ottimo Ralph Scheepers (Primal Fear) in Black book o il nostro Damna (Elvenking) in Vodka'n'Roll. Piacciono soprattutto Satanael e I Believe che acquistano un sound più hard rock grazie all'interpretazione rispettivamente di Paul Shortino e Darren Warthon, due autentiche leggende. Ma lo stesso si può dire con Danny Vaugh impegnato nella bellissima "Love never dies (Tell me)". Eravamo a conoscenza della passione di Txus per le sonorità hard rock (e i Burdel King, seconda band del batterista spagnolo, sono un'altra prova), e i cantanti scelti per questo disco lo confermano. Nella seconda parte della raccolta troviamo pezzi in lingua spagnola ma sempre impreziositi da qualche guest star, anche se tolto qualche raro momento, come "Fiesta Pagana 2.0" (di cui è stato girato un video) che presenta una marea di ospiti della scena nazionale, molte songs rimangono piuttosto inutili come "Siempre 2.0" decisamente peggiorata in questa versione con Patricia alla voce e "El poema de la lluvia triste 2.0" con un Bertoncelli inadeguato al microfono. E' un piacere comunque per le orecchie ascoltare due grandi come Leo Jimenez e Victor Garcia protagonisti in un paio di brani.
In fondo "Celtic Land" è un disco pensato e destinato per i veri fans dei Mago de Oz, quelli che vogliono tutto e proprio tutto della loro band preferita. Se per caso non siete tra questi, il consiglio è chiaramente quello di andarvi a pescare i grandi classici della band come "Finisterra" e la trilogia di "Gaia". In attesa del nuovo disco, un tuffo nel passato.
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La Svizzera ha regalato al genere hard rock bands di assoluto valore, sempre rimaste un pò in ombra a causa dei grandi e ben più famosi Gotthard. I Crystal Ball sono una di quelle band, un gruppo che ha sempre composto buona musica e che ritorna sul mercato dopo 6 anni di silenzio con questo nuovo disco "Dawnbreaker", settimo in carriera.
Ho conosciuto i Crystal Ball solo con "Hellvetia" nel lontano 2003, un bel disco di hard rock melodico ma graffiante, come nella migliore tradizione elvetica. Negli anni la band ha cambiato davvero poco e anche in quest'ultimo lavoro la band alterna mid tempos rocciosi a songs più melodiche, accompagnate dall'ugola del buon Steven Mageney e da una produzione pulita. Gli svizzeri eseguono bene il compitino grazie all'esperienza maturata negli anni, e ci presentano 12 brani validi con la melodica "Anyone can be a hero" che piace già ai primi ascolti, la deliziosa "Stranded" e "Back for good" con la quale sarà difficile non agitare la testa. L'acustica "Eternal flame" segna uno dei momenti migliori del disco, e così "Dawnbreaker" si mantiene per oltre 50 minuti su standard più che discreti, senza mai segnalare però picchi notevoli.
La sensazione è che i Crystal Ball si siano limitati a svolgere il compitino senza metterci qualcosa in più, ma dispongono di abbastanza talento per arrivare comunque a meritare un voto oltre la sufficienza. "Dawnbreaker" è un buon disco ma come tanti, sicuramente valido, ma non essenziale.
Ultimo aggiornamento: 02 Gennaio, 2014
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Alquimia è il frutto del desiderio del chitarrista Alberto Rionda di tornare a comporre e suonare il power metal degli esordi, quello che ha reso grande la sua ex band Avalanch, con la quale è stato capace di scrivere la storia del metal spagnolo (per chi non li conoscesse consiglio l'articolo presente in questo sito: "Avalanch- los poetas han muerto?"). E così come rivelato in alcune interviste, poichè i vecchi compagni di avventura non erano molto propensi ad un ritorno alle sonorità del passato (più power), il maestro asturiano delle 6 corde ha deciso di intraprendere una nuova strada con nuovi musicisti.
Il nuovo lavoro di Alberto è un disco prettamente power che ci riporta indietro di 15 anni al sound di "Llanto de un heroe" e "El angel caido" due dischi che come detto formano le colonne portanti del heavy spagnolo e che mancavano a tantissimi fans. La splendida copertina ad opera del solito Luis Royo funge da perfetto collegamento tra gli Avalanch e la nuova espressione musicale di Rionda, gli Alquimia. Se la band è ineccepibile nell'esecuzione, segno che chiaramente Alberto ha scelto di farsi accompagnare da musicisti preparatissimi, a spiccare è decisamente la prova di Isra Ramos che bissa le sue pur buone prestazioni con gli Amadeus e si destreggia alla grande sia nei momenti più spediti, sia in quelli più ruvidi o cadenzati. Le cavalcate power di "El lobo y el arca" e "Dama oscura" aprono alla grande il disco, ma sarebbe superficiale pensare a "Alquimia" come ad una fotocopia di "El angel caido", piuttosto al risultato delle esperienze maturate in tutti questi anni dal chitarrista asturiano. Nonostante quindi il disco sia prettamente power, in canzoni come "Sacrificio" e "La fuente dorada" troviamo accenni agli ultimi Avalanch, quelli di "Muerte y vida" e "El hijo prodigo", "Divina providencia" è un bel mid tempo, "Claro de la luna" una sognante ballata e in generale le canzoni sono elaborate, fresche e mai banali, con ottimi solos di chitarra ad opera di un ispiratissimo Rionda che si erge ad assoluto protagonista nella canzone finale, "Cabala XIII", la "solita" strumentale con cui Alberto, poeta della sei corde, riesce ancora una volta ad emozionare.
Ogni canzone contenuta in questo disco è una perla di immenso valore, che chiede solo di essere ammirata. Alberto Rionda è un artista straordinario che con questo nuovo cammino musicale ha ritrovato la sua migliore ispirazione. Il disco dell'anno come è ormai di tradizione (l'anno scorso successe la stessa cosa coi Saurom) arriva a Dicembre, "Alquimia" è uno di quei lavori a cui abbandonarsi per lasciarsi magicamente avvolgere. Divino!
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Della serie "dischi che non ti aspetti" ecco "Starborn" degli Opera Rock. La band mi ha spedito il kit con il materiale per la recensione diverso tempo fa, ma avendo una lunga lista di dischi da ascoltare avevo messo in attesa questo album finchè un giorno, premendo il tasto play ho capito di avere tra le mani un lavoro di una certa caratura.
14 songs che formano un concept album di lunga durata (oltre gli 80 minuti) davvero ben composto, con songs dalle melodie accattivanti, intermezzi dove i protagonisti interpretano le parti narrate del concept ed ispirate parti strumentali. Il sound degli Opera Rock unisce l'hard rock sinfonico al power metal, ottenendo un mix tra Ayreon e Avantasia, con un pizzico di Skylark (quelli dei grandi "Divine Gates") e Royal Hunt. La storia racconta di Isaac e Reika, due anime di mondi lontani, tanto distanti e diverse quanto simili e vicine. E così il bassista Marco "Mr. Faz" Fazzini ha "arruolato" una serie di musicisti per rendere possibile questo disco: i cantanti Alessandro Formenti, Marco Scorletti, Daniele Laporta e Silvia Ciraudo, il tastierista Giorgio Macchi e i chitarristi Marco Longhi e Stefano Dallosto. Il risultato è davvero notevole soprattutto se pensiamo che si tratta di un esordio e ascoltando songs come la melodica "Under starry skies", la powerozza "Dawn of rage" e la lunga "The shadow you cast", è facile rendersene conto.
E' ridicolo che un disco come questo non sia stampato in cd; "Starborn" è un album ispirato ed una delle migliori uscite dell'anno quindi segnatevi questo nome e appena il disco sarà disponibile, fate come me ed ordinatene una copia.
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