Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
In attesa del prossimo album che uscirà in agosto, tornano i tedeschi Saltatio Mortis, dopo l’ennesimo inutile live album (“Manufactum III”), con un simpatico singolo intitolato “Wachstum über alles”. Oltre alla versione originale della title-track, che dovrebbe finire anche sull’album e che tratta in maniera provocatoria del desiderio di controllo per la crescita ed il profitto, sono presenti altre 4 differenti versioni dello stesso pezzo, completamente rivoluzionate e con l’aggiunta di ospiti illustri. Ma partiamo proprio dalla versione originale di “Wachstum über alles”, aperta da piacevoli parti di basso; si tratta di un pezzo abbastanza insolito per i Saltatio Mortis, almeno per quelli che siamo abituati ad ascoltare; la presenza degli strumenti tradizionali come cornamuse, ciaramelle et similia, infatti, è decisamente ridimensionata, facendo così perdere la connotazione tipicamente folk, per andare a finire su lidi più canonicamente heavy/power. Si arriva poi alle versioni del pezzo con i vari ospiti, la prima delle quali è quella con gli Omnia (folk band olandese, composta però da musicisti di varie nazionalità); si tratta di una variante quasi dark/gothic, a causa della voce del singer molto bassa e cupa e dei cori femminili, ma anche per le parti romantico-decadenti delle tastiere che sono praticamente l’unico strumento assieme alle voci. Dopo questa splendida e dolcissima versione, arriva quella con i Subway to Sally, band tedesca di cui non credo servano presentazioni; se qualcuno si aspettava una versione folk all’ennesimo livello, rimarrà deluso, dato che questa, nonostante la presenza di qualche sprazzo con le cornamuse qua e là, è praticamente industrial! Arriva poi la versione con i Das Niveau (altra folk band tedesca, a me del tutto sconosciuta), completamente acustica, quasi blueseggiante, con la particolarissima presenza di uno strumento come il kazoo. L’adattamento più bello è però l’ultimo, quello con il pianoforte: in primis per una prestazione superlativa del musicista che l’ha suonata (ignoro chi sia stato dei tanti componenti della band) capace di donare calore e colore al pezzo, ma poi è proprio l’intero insieme che convince, persino quando spunta un certo nazionalismo nell’inserire parti dell’inno della Germania. Chiude questo particolarissimo singolo di 6 pezzi, l’inedito di turno intitolato “Lebensweg”, che non farà parte dell’imminente album; si tratta di un brano lento che, nonostante il fastidiosissimo idioma tedesco (ma oramai tocca farsene una ragione, i Saltatio Mortis sono fatti così!), riesce anche in alcune parti ad essere romantico; naturalmente non mancano gli strumenti tradizionali della band per mantenere il classico flavour del folk metal. Cosa aggiungere in conclusione? “Wachstum über alles” è un singolo molto particolare che sicuramente non potrà mancare nella collezione di ogni fan dei Saltatio Mortis e del folk metal in generale ma che, per la sua particolarità, potrebbe incuriosire anche altri metalheads che cercano qualcosa di nuovo ed originale.
Ultimo aggiornamento: 08 Luglio, 2013
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Gli Heavenshine sono una nuova band italiana, credo proveniente dalla Campania, arrivata con questo “Black aurora” al debut album, dedita ad un piacevole gothic/power sinfonico, alquanto simile nel sound ai Nightwish dell’era-Tarja. Come non pensare, infatti, alla grande soprano finlandese, ascoltando ad esempio in “Dreamscape” la voce della bravissima Miriam Cicotti? Udendo la sua prestazione vocale, mi sono anche chiesto come sarebbero stati i dischi dei Nightwish se, dopo la rottura con la loro grande ex, avessero reclutato proprio una come Miriam, invece della Olzon... ma queste sono quelle domande a cui ognuno di noi darebbe proprie risposte, di fatto la storia è andata diversamente. Oltretutto il songwriting del gruppo è chiaramente studiato per esaltare al meglio le doti della loro soprano, vera e propria punta di diamante della band. Il rischio però di sacrificare gli altri strumenti e di avere un songwriting non pienamente convincente è dietro l’angolo e si palese nella dolce “Embrace of the sun” che mi è sembrata un po’ troppo finalizzata ad esaltare le capacità della singer, con forse minore attenzione al contributo che avrebbero potuto dare gli strumenti per rendere straordinario un pezzo che così è solamente ordinario. Questa è almeno la sensazione che ho avuto nei vari ascolti di questo album, prendetela per quella che è, giusta o sbagliata che sia. Gli altri brani sono tutti notevoli, dalla splendida “When the father lion mirrors the stars”, brano decisamente movimentato che, per i miei gusti, è il migliore del lotto, passando per la già citata “Dreamscape”, l’opener “Atlantis reloaded”, “Fear me” (in cui si sente anche un bell’assolo di basso!) o anche per la cover di “Phantom of the opera” che mi è sembrata più vicina alla versione proposta proprio dai Nightwish, piuttosto che, per quello che ricordo, all’originale dell’omonimo musical di Andrew Lloyd Webber. Gli altri musicisti fanno la loro parte egregiamente e, del resto, si nota che sono tutti artisti di notevole esperienza; devo spendere due parole anche sulla seconda voce maschile, del tastierista Marco Signore, che non si lascia tentare dai cliché del genere, non concedendosi mai al growling o a parti esageratamente aggressive, ma mantenendosi sempre su toni puliti, credo baritonali (portate pazienza, non sono un maestro di canto), convincendo pienamente, pur se recitando obiettivamente da comprimario. Per essere un debut album, questo “Black aurora” degli Heavenshine, anche se forse non proprio originalissimo, è comunque un ottimo esempio di power/gothic sinfonico che non potrà non far breccia nei cuori di tutti i fans del genere e di bands come Nightwish, Edenbridge, Amberian Dawn et similia. La band suonerà anche alla prossima edizione dell’Agglutination Festival, segno evidente che c’è anche qualcun altro che si è accorto del talento e delle potenzialità degli Heavenshine.
Ultimo aggiornamento: 01 Luglio, 2013
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Quando mi è stata proposta questa recensione, mi sono posto delle domande sul significato del nome del nostro sito: cosa può significare “all around” se non tutto quello che sta attorno al metal? E non può stare attorno alla musica metal anche il rock italiano? Ci stanno la musica elettronica e l’EBM di cui abbiamo spesso ampiamente parlato su queste pagine, perché non anche il puro e semplice rock italiano? E’ stato per questo che ho accettato e deciso di imbattermi in “Quattro” dei toscani Underfloor, band attiva addirittura da un decennio ma di cui, mea culpa, causa ascolti più “metallici”, ne ho ignorato l’esistenza fino a poco tempo fa. Se nel mio lontano passato, mi sono lasciato conquistare dai Litfiba della Trilogia del potere, dai vecchi Diaframma, o dai Timoria di Renga, o anche dai primissimi Negrita, forse anche questi Underfloor, se mi fossero capitati prima tra le mani, mi avrebbero ugualmente convinto. Lo stile è avvicinabile ai vecchi Timoria (quelli di “Viaggio senza vento”, “Storie per vivere” o altri capolavori dei primi anni ‘90), ma anche a certe cose dei primi Negrita (dell’album omonimo o di “Paradisi per illusi”, quando ancora non si erano “commercializzati”), ma con i dovuti distinguo, dato che il punto di forza degli Underfloor sta nel basso di Guido Melis, vero e proprio strumento protagonista che non può non far venire in mente un po’ lo stile del grande Gianni Maroccolo, quando i Litfiba erano ancora una band apprezzabile (quindi fino all’album “3”). E’ attorno a questo strumento che il songwriting degli Underfloor si sviluppa (ascoltate “Indian song” per comprendere!), con connotati misterici ed onirici che lasciano correre lontano la mente, specie se ci si trova nelle giuste condizioni di spirito. La loro musica non è per nulla semplice, contaminata continuamente da trovate diverse, passando per digressioni jazz/blueseggianti, parti elettroniche, psichedeliche, fino andando a scomodare il prog degli anni ’70.... insomma un mix micidiale, eterogeneo, difficile al primo impatto, ma indubbiamente ben riuscito ed alla lunga anche convincente! Naturalmente per concepire e realizzare musica del genere, ci vogliono musicisti all’altezza e devo dire che questi quattro fiorentini mi è sembrato che ci sappiano fare, almeno dal punto di vista tecnico. Bravi davvero questi Underfloor e questo “Quattro” (appunto quarto album della loro carriera, che fantasia!) è un disco notevole che può trovar sicuramente posto nella collezione di chi ascolta anche sonorità più “morbide”; se, insomma, non siete solo truci metallari, date loro un ascolto, potrebbero conquistarvi...
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I Thunder Axe sono una band bergamasca che arriva con questo “Grinding the steel” al debut album, grazie all’attenta My Graveyard Productions. Dal nome della band e dal titolo dell’album (obiettivamente Thunder e Steel sono tra i cliché più abusati in campo metal), qualcuno potrebbe immaginare di trovarsi davanti gente ispirata da Manowar o Hammerfall, ma così non è, dato che i lombardi suonano un fottutissimo heavy metal ispirato a quella che fu la meravigliosa NWOBHM degli anni ’80, con gente come Iron Maiden e Saxon quali nomi più famosi. Nulla di particolarmente originale, ma suonato con passione e perizia che, almeno nella parte iniziale, si lascia ascoltare con piacere ed infonde energia ed adrenalina. L’opener “Iron will” è emblematica in tal senso: ritmiche veloci ed adrenaliniche imposte dall’ottimo Ivo Sangalli alla batteria, parti di chitarra della coppia Zambelli/Pasinetti al fulmicotone, ben sorrette dal lavoro al basso di Federico Filì, in un brano che coinvolge dal primo all’ultimo secondo di fronte al quale è impossibile rimanere fermi! L’unico punto debole dei Thunder Axe è il singer Renato “The Joker” Forza che obiettivamente non ha un’ugola di prim’ordine e che nelle parti più acute denota dei limiti; alla fin fine, comunque, in tanti anni di militanza metallica ho avuto modo di ascoltare molto peggio di questo vocalist che, tutto sommato, può anche non dispiacere. Come dicevo prima, è la prima parte del lavoro quella che più mi ha convinto; pezzi come la splendida strumentale “Instrumental breeding”, la già citata “Iron will”, la maestosa “Age of revenge” (che sa molto di Savatage) sono ottimi esempi di come si possa suonare heavy metal nel 2013 con risultati lusinghieri. Quando, invece, i Thunder Axe, nella seconda parte del lavoro, inseriscono parti più hard-rockeggianti, con richiami a mostri sacri come Led Zeppelin o Black Sabbath, ecco che convincono meno e perdono un po’ di smalto e grinta. Ne possono essere un esempio brani come “Dawn to divine” (specie nella parte iniziale) e soprattutto “On my way” che hanno una marcia in meno rispetto agli altri, pur non essendo tutto sommato da buttar via. Se tutto l’album fosse stato sul livello di “Iron will” o “Instrumental breeding”, ma anche della conclusiva “Seeking into the past” (che salva la seconda parte dell’album!) avremmo avuto un disco eccelso; così purtroppo non è, ma obiettivamente “Grinding the steel” resta un buon debut album per i Thunder Axe, band che sono sicuro saprà in futuro scrivere dell’ottimo heavy-metal!
P.S. Non sarebbe male aggiornare le pagine di Facebook e MySpace, se non addirittura creare un sito internet dedicato alla band!
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Come si sa, nel mondo della musica l’immagine è spesso fondamentale, alcune volte anche più del talento, soprattutto negli States. Questa considerazione è obbligatoria perché obiettivamente gli Huntress, se non avessero quella super-gnocca di Jill Janus come singer (tra l’altro, spesso con pochissimi abiti addosso!), sarebbero una band come tantissime che suonano heavy metal senza mai riuscire ad emergere dall’underground. Gli Huntress, invece, hanno avuto la fortuna di avere in formazione una biondona simile e sanno utilizzarla al meglio per lanciare la propria immagine (dato che come singer non è nemmeno questo granché) ed ecco il contratto con una label importante come la Napalm Records ed il lancio a livello internazionale. Ero curioso di ascoltare la musica di questa band americana, dato che non avevo fatto in tempo lo scorso anno ad accaparrarmi il loro debut “Spell eater”; così, quando ci è stato proposto questo secondo album “Starbound beast”, non me lo sono lasciato sfuggire. Il roccioso heavy metal proposto dalla band si lascia ascoltare gradevolmente, anche se non presenta nulla di nuovo, nulla che non abbiano già realizzato tanti altri in passato; è grintoso, ricco di energia ed abbastanza orecchiabile, ma ugualmente alla fine rimane un po’ di amaro in bocca, soprattutto pensando che ci sono miriadi di bands molto, ma molto migliori che non hanno avuto la fortuna di questi cinque americani. Le parti di chitarra della coppia Meahl – Crocamo (cognome dalle chiari origini italiane) sono piacevoli, così come furioso e preciso è il drumming di Wierzbicky, non ho sentito moltissimo il basso di Alden, ma probabilmente sono io che me lo sono perso lungo la strada. Mi ha invece molto deluso la voce di Jill Janus, agli antipodi rispetto alla sua avvenenza fisica; non ci troviamo davanti ad un’emula della grande Tarja o delle altre ugole liriche, quanto piuttosto ad una singer dalla tonalità sporca ed aggressiva che, però, non ha nulla di eccezionale.... per capirci meglio, le varie Federica De Boni o Marta Gabriel (5 minuti di vergogna per chi non conosce le singer di White Skull e Crystal Viper), cantanti a cui può essere lontanamente accostata come genere la bionda Janus, sono anni luce più carismatiche ed espressive ed indubbiamente migliori. Ma così è la vita, l’immagine a volte conta molto di più ed obiettivamente quella degli Huntress è vincente, soprattutto tra giovani virgulti in piena tempesta ormonale. Dal punto di vista musicale, invece, nulla di più di una normalissima sufficienza, visto che in giro c’è molto, ma molto di meglio.
Ultimo aggiornamento: 24 Giugno, 2013
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Ammetto di non essere un grande fan dei generi più estremi di musica metal ed, in particolare, del black metal; ogni tanto, però, mi piace ascoltare qualche proposta, in modo da poter rimanere al passo con i tempi e, chissà, magari scoprire qualcosa che possa affascinarmi. E’ stata con questa mentalità aperta che mi sono avvicinato a “Bù-Tik”, disco dalla piacevole copertina dei Chthonic, band di Taiwan dedita ad un interessantissimo melodic black metal, completato dall’uso di strumenti tipici della loro terra, senza però, tenetelo bene a mente, dare luogo a contaminazioni folkeggianti. Non avevo mai avuto modo di approfondire, mea culpa, la conoscenza di questa validissima band orientale, arrivata con questo album al settimo lavoro della propria carriera. Qui c’è davvero tanta roba, da una cantante d’opera a backing vocals femminili, orchestrazioni eleganti, screaming e growling in quantità, un impatto sonoro semplicemente devastante in quanto ad energia, ma indubbiamente coinvolgente, per finire a tematiche decisamente “impegnate” imperniate sulla storia violenta della piccola isola di Taiwan. A parte intro ed outro che, comunque, hanno una loro ben precisa ragion d’essere nel quadro globale dell’album, restano 8 brani arrabbiatissimi ed estremamente tirati, in cui comunque l’innata violenza sonora del genere viene spesso mitigata da parti soliste melodiche e dagli strumenti della tradizione orientale che donano quel flavour elegante che è la classica ciliegina sulla torta. Per suonare a questa maniera bisogna avere una notevole confidenza con gli strumenti ed ai vari membri della band di certo questo non difetta; sono però rimasto colpito dallo stile poliedrico del batterista Dani, capace di passare dal blast-beat più furioso a momenti più tipicamente heavy-power con una semplicità letteralmente disarmante. Ecco il particolare che più mi ha convinto in questo disco è la capacità degli Chthonic di essere aggressivi al punto giusto, mi spiego meglio: qui non c’è un assalto sonoro dalla primo all’ultimo momento, ma vengono alternati con gusto momenti di pura violenza, con altri più elegantemente melodici e cadenzati. E’ quindi il complesso sonoro a risultare vincente, arrivando a conquistare anche uno come me che, come detto, non è proprio amante di certe sonorità così “estreme”. Mi sento quindi di concludere questa recensione affermando, senza tema di smentita, che “Bù-Tik” dei taiwanesi Chthonic è un disco che non può mancare nella collezione di ogni appassionato di sonorità estreme, ma anche di tutti coloro che ritengono di ascoltare musica metal di qualità superiore.
Ultimo aggiornamento: 22 Giugno, 2013
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Con il nome “Asgard”, oltre al famoso pezzo dei White Skull, ci sono anche parecchie bands, soprattutto in Germania; quest’oggi parleremo della band italiana (di Ferrara per la precisione), attiva da circa un decennio che con questo “Outworld” taglia il traguardo del terzo lavoro. Per chi non li conoscesse (ammetto che anche io, prima di avere questo disco, ignoravo la loro esistenza), gli Asgard suonano un velocissimo e sparatissimo speed metal, abbastanza influenzato dalla scena d’oro degli anni ’80, con un nome come quello degli Agent Steel come punto di riferimento. E’ proprio lo stile canoro del grande John Cyriis ad ispirare l’ottimo Federico “Mace” Mazza, che regala una prestazione indubbiamente notevole con la sua voce sempre acuta, arrabbiata quasi fino all’isteria. Le chitarre dei fratelli Penoncini intessono muri di riff, qualche piacevole arpeggio arabeggiante (ricordando un po’ gli Artillery per intenderci) ed assoli di gran gusto, sorretti alla grande dal basso di Renato “Reno” Chiccoli che qualche volta ritaglia per il suo strumento anche momenti da protagonista, come nell’attacco iniziale di “The night hawk”, ad esempio. Su tutti, però, ritengo doveroso citare la batteria di Rudy Mariani, velocissima ai limiti dell’inumano, ma sempre precisa e chirurgica, esattamente come il termine stesso “speed” richiede. A livello tecnico, come avrete intuito, non c’è nulla da dire sugli Asgard; resta da parlare della musica. Questo speed metal è quello che ogni appassionato cerca come una bevanda fresca nell’assolato sole di questi giorni: fresco, potente, frizzante, orecchiabile, energico ed arrabbiatissimo! Non trovo assolutamente nulla che non vada o che sia fuori posto in questi 9 pezzi, 9 mazzate roventi sulle vostre gengive o, più precisamente, sulle vostre martoriate vertebre cervicali, dato che ascoltando questi 41 minuti di musica sarà praticamente impossibile fermare l’head-banging! “Outworld” degli Asgard potrà essere dotato di una copertina non proprio entusiasmante, ma ha tutto il resto che convince e conquista dal primo all’ultimo istante ed è un “Must” per tutti gli appassionati del genere. Complimenti doverosi!
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Ci sono bands che hanno talento, coraggio e genialità ed altre che semplicemente non ce l’hanno; tra le prime indubbiamente vanno inseriti i novaresi Bejelit. Dopo l’ottimo “Emerge”, uno dei dischi migliori in assoluto dello scorso anno nell’intera scena metal, la band dei fratelli Capone torna con un E.P. interamente autoprodotto, intitolato “Don’t give up”, in cui rivisita alcuni dei pezzi dell’album in maniera semplicemente ingegnosa e sorprendente, aggiungendo un solo inedito, intitolato “Death trip serenade”. Partiamo proprio da quest’ultimo; come intuibile dallo stesso titolo, si tratta di un brano dolcissimo, ideale per momenti romantici, completamente strumentale ed acustico. Ed è tutto il lavoro ad essere acustico, non ci sono infatti strumenti elettrici, né la batteria, ma solo chitarra e basso acustici e percussioni, spesso in stile afro. Con il metal c’è molto poco a che spartire, almeno con quello che si intende normalmente per “musica metal”; se, però, avete la mentalità aperta e non siete degli ottusi oltranzisti conservatori, non vedo motivo per non apprezzare e non ricondurre anche tutto ciò nell’alveo del concetto di musica metal, pur se obiettivamente ampiamente rivoluzionata. C’è di tutto, da ritmi caraibici, a digressioni blueseggianti, ma sono soprattutto gli strumenti acustici ed il piano ad essere protagonisti. Fa un certo effetto ascoltare “Emerge” con la voce del grande e poliedrico Fabio Privitera arrabbiata a dovere, ma con ritmiche soffuse sotto; “We got the tragedy” rallentatissima o una “Dancerous (In the deep carribean)” che si potrebbe immaginare suonata su una spiaggia cubana, con il meraviglioso tributo ai Queen nel finale in cui è inserita una parte di “Innuendo” (quella più famosa del solo di chitarra acustica di May). E così anche tutte le altre, decisamente stravolte rispetto alle versioni originali, ma ugualmente estremamente accattivanti ed affascinanti. Notevole anche il “Piano medley”, oltre 8 minuti in cui Giulio Capone dimostra di non essere solo un grande batterista, ma di saperci fare tremendamente bene anche con i tasti bianchi e neri. Certo se, come detto in precedenza, non avete una mente aperta, difficilmente riuscirete ad apprezzare questo lavoro, ma i fans dei Bejelit credo non abbiano questo difetto ed immagino sapranno apprezzare, così come l’ho fatto io, questo originalissimo e particolarissimo “Don’t give up”, ennesima conferma delle qualità notevoli di questa band troppo sottovalutata. Se venissero dagli States, dalla Germania o dalla Scandinavia, tutti staremmo ad osannarli, sono italiani come noi e dobbiamo andarne fieri!
P.S.: Il disco è acquistabile esclusivamente sul sito della band ad un prezzo molto interessante.
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I Burn of Black sono una band che credo abbia origini venete (almeno i cognomi mi pare siano di quelle zone) e con questo “Danger” arrivano al loro debutto discografico, dopo numerosi cambi di formazione (anche adesso dobbiamo registrare l’uscita di Alessandro “Jimbo” Finesso che ha suonato sul disco, sostituito dal nuovo chitarrista Alessandro “Bane” Bassani). 4 pezzi + intro, per poco più di un quarto d’ora di ottima musica a cavallo tra thrash moderno ed heavy metal classico, per una proposta musicale ricca d’energia e che si lascia ascoltare piacevolmente. I Burn of Black pestano per bene sull’acceleratore (ottima la prova del batterista Alberto Lemoni!) e fanno dell’impatto la loro forza principale; su questo si innestano le due chitarre che si rendono protagoniste di parti soliste di gusto, ben sorrette dall’oscuro lavoro di supporto reso dalla bassista. Non mi ha convinto molto la prova vocale di Giacomo “Jacko” Cordioli (che soprannome impegnativo!!), un po’ troppo urlata e piena zeppa di effetti ma, visto il genere aggressivo della band, può anche starci. Per il futuro, ma prendetela solo come puro gusto personale, suggerirei al buon singer (obiettivamente un lusso per una thrash band!) di lavorare maggiormente su parti più calde e basse ed usare un po’ meno effetti, in modo da risultare maggiormente espressivo e render giustizia alla propria ugola che non mi sembra niente male! I 4 pezzi si presentano come dei rulli compressori, violenti, tirati a dovere ed ottimi per un head-banging sfrenato fino a farsi dolere le martoriate vertebre cervicali (come se nella pianura padana non bastasse l’umidità a rovinarle!), insomma degli ottimi esempi di thrash moderno. Qualcuno potrà obiettare che qui l’originalità è un po’ latitante, ma non credo che sia questo l’obiettivo dei Burn of Black, quanto sfogare la loro rabbia e passione in musica ed infondere energia ed adrenalina nei loro ascoltatori. E questo risultato è sicuramente raggiunto ampiamente e con indubbia capacità. Non resta che attendere un album vero e proprio.
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Oramai ogni appuntamento con gli spagnoli Dark Moor è, per ogni appassionato di power metal sinfonico, un qualcosa di imperdibile, un viaggio nei sensi, un orgasmo lungo quanto un intero cd ed anche questa volta, con questo nuovo album intitolato “Ars Musica”, la band di quel genio chiamato Enrik Garcia ha confermato ogni sua qualità. 10 pezzi che sono letteralmente da brividi, cui si aggiungono una piacevole intro che somiglia ad una vera e propria ouverture di un’opera classica, una versione acustica del singolo “The Road Again” (in giro anche un video per la versione “normale”) ed una versione con orchestra di “Living In A Nightmare”. Un insieme che lascia attoniti dalla meraviglia, raramente si riesce ad ascoltare qualcosa di così perfetto da ogni punto di vista, dal cantato magistrale di Alfred Romero (obiettivamente madre natura è stata generosa con la sua ugola!), alle parti strumentali suonate con perizia estrema dai vari musicisti, passando per il gusto delle melodie, per un songwriting particolarmente ispirato e senza pecche ed una registrazione (opera ancora una volta dei trevigiani New Sin Studios e del grande Luigi Stefanini) che esalta ogni piccolo particolare, arrivando finanche alla bella copertina dell’artista brasiliana Nathália Suellen che evita i soliti cliché fantasy.... tutto è pressoché perfetto, tanto che mi è praticamente impossibile trovare dei difetti. Dando uno sguardo al passato dei Dark Moor, forse questo “Ars Musica” (titolo che è tutto un programma!) è più melodico e ruffiano, probabilmente Enrik Garcia, nella stesura delle musiche, ha prestato maggiormente attenzione alla melodia e meno ricercato il classico impatto sonoro dell’heavy metal, ma sono dettagli che non inficiano il risultato finale eccelso. Non mi stancherei mai di ascoltare questo disco, da “First Lance Of Spain”, fino all’immancabile strumentale classica “Spanish Suite (Asturias)”, opera del compositore spagnolo Isaac Albéniz, passando per pezzi fantastici come “It Is My Way” o le già citate “The Road Again” e “Living In A Nightmare”, ma anche per “Saint James Way” o “Together As Ever”... è insomma tutto l’album a convincere dalla prima all’ultima nota. I Dark Moor si confermano una band di livello primario in tutto il mondo metallico, una garanzia di qualità assoluta e questo loro nono album intitolato “Ars Musica” è un Must per tutti coloro che ritengono di ascoltare buona musica, oltre che per i fans del power sinfonico. Al momento, credo sia il miglior album che abbia ascoltato in questo 2013 e difficilmente sarà scalzato dal gradino più alto del mio personale podio dei top dell’anno.
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