Opinione scritta da Dario Onofrio
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Top 50 Opinionisti -
Non ho capito come mai, sull'internet, ci sia tutto questo astio verso i Sinner, la prima, storica band di Matt Sinner, per gli amici il bassista dei Primal Fear e di altri progetti di alto valore come i Voodoo Circle.
Ecco, pare che dalle recensioni che ho letto qua e là dei vecchi album i suoi dischi siano una palla dopo l'altra, ma in questa sede voglio trovarmi a smentire tutto questo: Tequila Suicide non sarà un album capolavoro, ma non è nemmeno una ciofeca e, anzi, il suo navigare tra un genere e l'altro, heavy, rock o power metal, è divertente e molto coinvolgente.
Recuperato Tom Naumann, compagno della ben più famosa band power metal, e il nostro compaesano Francesco Jovino alle pentole, il buon vecchio Sinner ci introduce subito con Go Down Fighting, un pezzo che non lascia molta immaginazione (il testo recita "Tell me when the goods time are gone") e nei suoi due minuti ci dà una bella carica di hard rock di stampa ottantiano. Tutto l'album è un variare dall'hard rock al power metal, come si sente benissimo in Battle Himn e Dragons, con strizzate d'occhio che variano dai Thin Lizzy al power da guitar hero che tanto aveva influenzato la musica dei paesi nordici durante gli anni 90'. Altro pezzone, dove il nuovo singer sembra a tratti ricordare Peavy dei Rage, è sicuramente Gipsy Rebels, una bella scapocciata con tanto di coro da intonare senza remore. La vocalità molto particolare di questa canzone continua in Loud & Clear e finisce con la ballad Dying on a Broken Heart, forse il pezzo meno riuscito del disco ma comunque facilmente ascoltabile.
Non sono riuscito, purtroppo, ad individuare le tracce dove si sentono i contributi di Gus G, Ricky Warwick e Magnus Karlsson, ma considerata la qualità complessiva del disco penso che siano stati sicuramente dei contributi molto interessanti, anche a livello di songwriting.
Insomma, non capisco come mai si considerino a prescindere i dischi di Mat pura e mera spazzatura, quando un album come Tequila Suicide si inserisce già prepotentemente tra uno degli ascolti più simpatici e genuini di questo 2017. Se vi piace l'hard rock di matrice ottantiana, scanzonato e con qualche influenza hair metal, questo è il disco che fa per voi.
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In musica capita spesso di giudicare una band sin dal monicker o dalla copertina del disco: le prime cose con cui l'ascoltatore viene in contatto. Per questo non avrei dato una mezza cicca a una band dal nome Paganland, che trovavo banale come pochi. Fortunatamente mi sbagliavo.
From Carpathian Land, questo il titolo del loro terzo disco, arriva dopo una lunghissima carriera: il quintetto ucraino ha infatti una storia di tutto rispetto alle sue spalle e arriva addirittura dal periodo dei primi vagiti del genere che suona, quel black influenzato dall'epic che poi diventerà viking metal. E la vecchiaia si sente eccome: pezzi come At the Heart of Carpathians o The Gloom sarebbero da manuale per una scuola di viking metal che di "vichingo" oggi ha poco o nulla. Una bordata di black influenzato, dunque, inframezzata dalle spettrali tastiere di Ruen e da stacchi che ricordano pesantemente Satyricon e Mythotin dei primordi. Anche pezzi come Black Mountain dimostrano una cosa che a molte band di oggi manca: la tendenza al riff e al suo ascolto, vero protagonista di canzoni che altrimenti sarebbero solo sommerse da tastiere. I due nuovi membri, cioè Lycane e Zymobor, fanno sentire tutta la loro potenza e cattiveria soprattutto nelle parti di blast beat dove il black primordiale domina incontrastato, assicurando al tutto anche un tocco un po' più moderno. Nonostante tutto, però, c'è come la sensazione che manchi quel qualcosa, non so se dovuto alla produzione fatta in puro stile black metal o ad altro, ma manca giusto una spintarella in più ai nostri valorosi ucraini per poter pensare di scalare le classifiche del folk metal attuale.
Se insomma siete appassionati di pagan black e desiderate qualcosa che vi ricordi gli antichi fasti del genere siete moralmente obbligati a tuffarvi su questo disco: non resterete affatto delusi. Se invece siete ascoltatori occasionali potete anche accontentarvi di una ascoltatina sui loro canali: non resterete delusi.
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A mio parere, nella memoria dell'uomo, ci saranno sempre dei momenti felici dove andare a rifugiarsi, ritrovando un po' sé stessi e le proprie origini, come fa John Garcia in questo disco dove rilegge alcuni dei più famosi brani dei Kyuss in chiave acustica.
Dopo il debut album da solista col suo stesso nome il buon vecchio John torna quindi sui suoi passi, anche buttandoci dentro un paio di pezzi nuovi, rigorosamente in acustico (tra tutti a mio parere spicca l'iniziale Kylie). Operazione commerciale o no, The Coyote who Spoke in Tongues è un disco godibilissimo, scorrevole e che farà felicissimi i fan dei Kyuss per le interpretazioni originali e rinnovate di pezzi storici come Green Machine, El Rodeo e Space Cadet, mentre per chi ama la chitarra acustica i pezzi originali scritti da John per l'occasione riescono quasi a tenere il passo con i più famosi macigni della band statunitense.
C'è da dire, inoltre, che effettivamente il frontman dietro all'acustica dà una bella pettinata a molti colleghi, con quella vena di post-apocalittico che da sempre contraddistingue la sua musica. Una prova se vogliamo non eccezionale, per il semplice fatto che la maggior parte delle canzoni sono cover, ma comunque godibilissima, da ascoltare davanti a un falò d'estate, avvolti dalle stelle e dal silenzio.
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Caro vecchio DeFeis, ma cosa mi combini? Ho apprezzato molto la remastered di House of the Atreus, ma andare a ristamparmi Visions of Eden in doppio mix mi sembra un tantinello eccessivo, considerato anche che non si tratta di uno dei tuoi dischi migliori.
Espressa la mia personalissima opinione a riguardo, dovete sapere che sono parecchio affezionato al lavoro di DeFeis e Pursino, una di quelle coppie di musicisti che prima di scadere nella spirale di banalità degli ultimi anni tirava fuori un capolavoro ogni due per tre. Visions of Eden è il primo capitolo di questa infinita saga che non accenna ancora a terminare, come l'ultima parte del manga di Berserk: la storia di Lilith e di Adam, dalla quale il nostro sta tirando fuori un mattonazzo che manco gli antichi avrebbero potuto concepire.
Ciònonostante, Visions of Eden è ancora saldamente ancorato ai fasti del passato: a riascoltarlo adesso dopo tanti anni, la Romantic Mix (la prima del doppio cd) dà quel qualcosa in più a un suono che nel 2006 era scarno e poco curato, mentre qui le magie della remastered ci regalano un disco con un DeFeis ancora in forma che, nonostante non tutto l'album funzionasse bene, scriveva perle come la ballad Angel of Death o la rocciosa Childslayer.
Non sappiamo se sia stato proprio Visions of Eden a far perdere la bussola ai due indomiti epic metallers, o se sia stata la mania dei musical portati a teatro (si, vi ricordo che sia i due House of the Atreus che questo disco sono stati teatralizzati), ma nonostante tutto questa remastered ha il suo perché, seppur l'album non sia uno dei migliori dei Virgin Steele.
Ultimo aggiornamento: 07 Marzo, 2017
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Ci sono pochi, fortunati artisti che hanno la possibilità di fare della loro passione un lavoro vero e proprio. Ma quando l'arte è lavoro, di essa stessa cosa resta? Quando un artista smette di emozionare e la sua arte diventa routine? Credo che sia una domanda che noi metallari dobbiamo porci in un'epoca dove sembra non si può più affrontare la nostra amata musica con lo stesso spirito primordiale di un tempo.
Faccio questa doverosa premessa perché Ivano Spiga, songwriter e principale colonna degli Holy Martyr, porta avanti questa band per passione e non per un desiderio di professionismo vero e proprio. Sono passati sei lunghi anni dall'heavy grezzo di Invincible, ed è proprio durante questa pausa che, in punta di piedi, il nostro scrive Darkness Shall Prevail.
Si, gli Holy Martyr sono tornati alle origini primordiali del loro sound; seconda cosa: il concept è basato sull'epicità del male all'interno del mondo di Tolkien, raccontando diverse ambientazioni e diversi personaggi, più che le storie vere e proprie della Terra di Mezzo. Non aspettatevi quindi un disco facile, anzi, fin da Numenor capiamo di essere tornati a un inizio che avevamo dimenticato. Le ritmiche, dovute alla presenza del nuovo batterista Stefano Lepidi e del nuovo chitarrista Paolo Roberto Simoni, si sono evolute in un modo più duro e cadenzato poter recuperare le origini dell'epic metal e, soprattutto, l'assoluto del male rappresentato da Sauron e dai suoi seguaci. Il cantato duro e grezzo di Alex, che resta uno dei migliori singer in Italia nonostante sia stato per molto lontano da questo ambiente, è molto più cupo e roccioso rispetto ai dischi precedenti. Pure la copertina, che rappresenta una battaglia tra demoni (fine citazione ai Mamuthones, maschere pagane della tradizione sarda) e soldati, trasuda un'epicità più oscura.
La cosa che infatti salta alle nostre orecchie arrivati verso la fine del disco è proprio questa oscura solennità che lo pervade tutto, richiamando sia il doom metal, papà del nostro genere, che a grandi compositori di musica classica tramite gli assoli di Paolo. Scrivo queste cose proprio per mettervi in guardia: non aspettatevi un Invincible 2, bensì un disco essenziale, scarno, ridotto ai minimi termini per lasciare spazio all'epic metal nella sua più pura essenza.
L'ultima cosa che posso dire su Darkness Shall Prevail è che si tratta di un ottimo disco, ostile e oscuro se vogliamo, ma al livello dei precedenti lavori del quintetto sardo. Sicuramente farete fatica a entrare nel mondo fatto di assoluti creato da Ivano e soci, che ci restituiscono un Tolkien difficile, da grande letteratura anziché da intrattenimento pop come le ultime avventure cinematografiche di Peter Jackson, ma dopo qualche ascolto non solo ne comprenderete l'essenza, ma vi immergerete in una comprensione del fantasy "diversa" dal solito. Il consiglio che vi do' è di ascoltarlo in un bello stereo o con delle cuffie potenti, per poterne assaporare la durezza e il lirismo intrinsechi, e leggervi nel frattempo i testi per comprendere meglio il viaggio che il quintetto ha messo in musica.
Bentornati.
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Reggere il confronto con sé stessi è sempre stata una sfida intrinseca dell'essere umano, specialmente quando si viene da una serie di successi personali e/o di squadra. Se negli anni 80' sei stato gli Accept, è difficilissimo superarti: parliamo di una band che ha di fatto portato l'heavy metal europeo a un livello straordinario di qualità e passione e che, tra le altre cose, ha inciso uno dei miei live preferiti di sempre, quel bellissimo Staying a Life.
Eppure, come molti di voi sapranno, Wolf Hoffmann e Peter Baltes non solo negli anni sono riusciti a riprendersi degnamente un palco da cui disertavano da fin troppo tempo, ma a dominare le scene con tre dischi micidiali. Quale momento migliore per immortalare questa nuova scalata al successo se non il Bang Your Head 2015? Restless and Live, il nuovo live-album/dvd degli Accept, immortala uno dei più bei concerti della band teutonica con la nuova line-up che vede dietro alla chitarra ritmica l'ex Grave Digger Uwe Lulis e alla batteria il giovane Christopher Williams.
Ero molto titubante all'idea che la band avesse cambiato mezza line-up, ma come avrete avuto modo di leggere nel mio report del concerto con i Sabaton, al contrario vedere i teutoni dal vivo causa ancora una pettinata mica da ridere, come il live-album testimonia fedelmente. Secondo i canali ufficiali di promozione pare che sia tutto derivante dal concerto al Bang Your Head, ma a me pare ci sia pure qualche inserto dalla frenetica attività in Russia della band, molto amata da quelle parti.
Ma non facciamoci menate sull'indicazione di provenienza geografica dei pezzi: questo live tira all'ascoltatore una pettinata mica da ridere, fotocopiando una band nel 100% dell'energia e della forma. Sarebbe stupido cercare di fare un track-by-track, per cui vi dirò solo che se amate l'heavy metal non potete non avere questa bomba in casa, specialmente se siete ggggiovani e avete appena scoperto gli Accept. Mark Tornillo, figura su cui ho sempre sentito il pubblico dividersi, all'ultimo live in cui l'ho visto ha fatto cambiare idea ad un mio amico fotografo che aveva sempre avuto delle riserve su di lui: questo non vi basta per farvi capire quanto la band spacchi dal vivo nonostante manchino ormai 3/4 della line-up originale? Alla fine il quintetto rinnovato tiene il palco perfettamente, come potrete notare nel dvd: questa è gente che a suonare ci mette l'anima.
Di fatto gli Accept non avrebbero nemmeno avuto bisogno di rilasciare un live-album: parlarne solo significa discutere di persone che sono ancora in grado di metterci il cuore e di farci sentire tutti parte di una grande famiglia accumunata da una sola cosa: l'heavy metal tetesco. L'unico consiglio che ho da darvi? Alzate il volume.
Ultimo aggiornamento: 01 Marzo, 2017
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Non è tutto oro quello che luccica e, spesso, ti capita di sentire cose che all'inizio ti sembrano belle ma che poi si rivelano essere ripetitive e noiose. È purtroppo il caso dei Romuvos di Velnias, polistrumentista lituano che porta avanti il progetto dal 2004.
Se, infatti, la title-track che apre il disco può sembrarci accattivante, il problema è che tutto il resto dell'album mi sembra una continua ripetizione degli schemi imposti dal primo pezzo. Anzi, l'album suona alle mie orecchie come una scopiazzatura malriuscita di alcuni degli ultimi album di Falkenbach, dove gli unici punti che si ripigliano sono la strumentale "Around the bonfire our souls will unite" (citazione a Dark Souls?) e l'incedere di "For as long as enemies lay in defeat".
Per il resto, Infront of Destiny è un disco che potete evitare senza troppe remore. Un peccato, perché le premesse per un bel disco c'erano... Non sarebbe stato meglio farlo solo folk e non metal?
Ultimo aggiornamento: 01 Marzo, 2017
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Ci sono piccole storie di paese che spesso ci dimentichiamo, ma che vale sempre la pena di raccontare. Ci sono persone che, dal nulla, provano a inventare qualcosa di nuovo, o portare avanti una passione nonostante tutte le avversità del caso.
Questo è stato il caso di Lars Jensen, alias Myrkgrav, già passato sul nostro portale un po' di tempo fa per il suo EP Vonder Auer. "Takk og farvel; tida er blitt ei annen" significa "Grazie e arrivederci: i tempi sono cambiati", un titolo che non lascia molto spazio all'immaginazione: si tratta infatti dell'ultima prova in studio di Lars, ormai cambiato rispetto a quando, nel lontano 2003, metteva in piedi il progetto come un gruppo black metal.
L'album contiene qualche ultimo pezzo nuovo, l'intero EP Vonde Auer e alcune edizioni risuonate dei primissimi album della discografia di Myrkgrav, incluse alcune chicche strumentali provenienti direttamente da "Trollskau, skrømt og kølabrenning". C'è da dire che è proprio un peccato perdere un musicista così: nonostante tutto le canzoni, che cavalcano l'onda norvegese degli Otyg e altre band famose sui generis, funzionano a meraviglia. La presenza del suonatore di hardingfele (violino tipico della tradizione norvegese) Olav Luksengård Mjelva, sia come musicista che come aiuto dietro al mixer, giova sicuramente a quest'ultima, piccola, storia norvegese, così come le bellissime illustrazioni di Kjell Aukrust, fumettista delle zone che descrive con minuziosa precisione ogni pezzo.
Insomma, un bel pacchetto d'addio per un artista che ha viaggiato sempre in sordina tra sonorità a metà tra Falkenbach e Otyg, alle radici dell'ormai inflazionatissimo folk metal. Molte grazie al coraggio di Lars Jensen, che dal piccolo paese di Åsa ha provato a imbroccare la strada del musicista e ne è infine uscito con grazia e indubbia classe.
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Probabilmente molti di voi considerano gli Ex Deo di Maurizio Iacono come quelle patacche che, per restare in tema, ti vendono gli zozzi ambulanti romani, sempre disposti a intortare i turisti con la grandezza di una città ormai diventata solo scandali e magagne. Probabilmente molti di voi preferiscono altro, parlando di death metal "italico" (ricordiamo che Iacono e soci sono canadesi), o pensano che semplicemente la band sia la risposta sbagliata ai Rotting Christ.
Invece, per me, gli Ex Deo sono sempre stati una band di riferimento e hanno il merito di avermi aperto la strada verso il death metal, sia quello più brutale che quello più soft. Con The Immortal Wars, Maurizio e soci rimettono in piedi il progetto, coinvolgendo anche Olivier Beaudoin, ormai di casa con i Kataklysm e a suo agio anche con il concept del frontman a tema antica Roma. C'è da dire che la formula messa in scena dalla band non cambia: estetica pacchiana con tanto di foto che sembrano realizzate dai grafici di Expo, musica symphonic death super pomposa che ti fa pensare come suonerebbero i Magnum se fossero un gruppo estremo, tematiche che riguardano la storia (un po' romanzata) della prima Capitale del Mondo Antico.
A livello generale, il disco si colloca un gradino sotto a Caligvla, precedente lavoro che era riuscito a stupire in positivo sia fan che critica, nonostante qualche pezzo sia veramente degno di nota come l'opening The Rise of Hannibal, o l'ottima Ad Victoriam (The Battle of Zama). Per il resto si tratta di un grosso "more of the same", come operazione, anche se bisogna riconoscere l'impegno che il quintetto ci mette nell'essere più emozionante possibile.
Nonostante le mie critiche di recensore che cerca di essere oggettivo, comunque, The Immortal Wars è un disco che si fa ascoltare tranquillamente anche se non lascia molto dietro di sé e rende bene l'idea alla "Il Gladiatore" che all'estero hanno dell'Impero Romano. Il suggerimento è di comprarlo se quest'anno volete comunque sentirvi qualcosa di lontanamente ammiccante ai Rotting Christ di Sakis Tolis.
P.S. Comunque la copertina è bellissima.
Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 2017
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-Un giorno Joackim Broden entrò in un negozio di dolci e vide una bambina che piangeva perché, essendo un po' cicciotta, i genitori le aveva proibito di mangiare i dolci. Il frontman dei Sabaton le disse "Non piangere, perché se impari a fare sacrifici un giorno sarai una grande cantante". Quella bambina era Noora Louhimo dei Battle Beast-
Fatta questa premessa tratta da un ben noto meme, possiamo parlare dell'ultima fatica in studio dei finnici Battle Beast. Per chi non li conoscesse vi basta prendere i Sabaton e fonderli con Samantha Fox. Detto così può sembrare una porcheria, ma vi assicuro che Bringer of Pain invece è tutt'altro che un brutto disco, forse esageratamente kitsch, ma non brutto.
Bisogna infatti ben distinguere quei dischi power/heavy con magari 10000 idee ma 0 attitudine, quelli che si pigliano troppo sul serio e quelli che, come in questo caso, non dicono assolutamente nulla di nuovo ma sono suonati con il grosso Metal Heart degli Accept, senza alcuna vergogna. Apprendo da amici che questo disco è il primo senza il vecchio chitarrista (che avevo pure visto live di spalla ai sopracitati Sabaton) Anton Kabanen, storico membro della band, ma sinceramente non noto molta differenza di songwriting dal penultimo Unholy Savior. Anzi, noto più un'evoluzione che altro: quella di una band che non si vergogna ad essere genuinamente pop in un mondo come quello metal dove conta chi è più krieg, chi è più prog o più folk. I Battle Beast se ne fottono altamente e ci propongono tre quarti d'ora dove sguazziamo tra Samantha Fox e i Judas Priest, gli Accept e David Hasselhoff, Bon Jovi e i Bee Gees, il tutto marchiato dalla produzione Nuclear Blast che, a mio parere, stranamente a sto giro non fa un casino come con l'ultimo disco dei Kreator, dando sia quella pulizia tipica della casa discografica teutonica che quella giusta strizzata d'occhio alla disco dance anni 80'.
Per farvela breve questo è un disco da presabbene immediata, con pochissimi cali e che vi farà venire voglia di ballare dall'inizio alla fine. Io, che ultimamente sono diventato insofferente ad un certo modo di costruire l'immaginario power metal, l'ho trovato PERFETTO alla ragione del divertimento puro senza vergogna, anzi, con un disco del genere non mi stupirei se i Battle Beast venissero chiamati "i Lordi del 2020", visto che l'impatto scenico e musicale ricorda molto i toni di quel capolavoro pop che fu The Arockalypse.
Se volete un dischetto da sparare in macchina quest'estate mentre guidate verso le agognate ferie o qualcosa per far esplodere (o convertire?) i fighetti in giro per le strade, compratevi Bringer of Pain, sono sicuro che non ve ne pentirete.
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