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Opinione scritta da Corrado Franceschini

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    21 Ottobre, 2024
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Gabriele Bellini è una presenza costante all’interno del panorama Hard & Heavy italiano. Ogni anno il maestro trova il modo di far uscire un CD sia esso un lavoro solista; una raccolta, o un disco degli Hyaena. Naturalmente il 2024 non fa eccezione anche se “Urla – 30 anniversario Demo Live 94 Raw Edition”, è un disco particolare. Si tratta di un CD inserito in una confezione in cartoncino rigido, contenente cinque pezzi suonati in presa diretta durante la primavera del 1994. Lo stesso Bellini lo definisce come demo incompiuto, tanto schietto quanto magico: un’asserzione sulla quale concordo. Il disegno in copertina fa riferimento al CD “Scene” (Pick Up Records – 1995) e tre pezzi: “Scene”; “Luminescente Aria” e “Angeli” sono presenti, sicuramente in versione diversa, anche su quel disco. Se stessi parlando di cinque brani da studio, non esiterei a definirli dei piccoli capolavori ai quali i testi in italiano donano un valore aggiunto. Purtroppo le versioni “grezze” dal vivo hanno parecchi limiti. Con un campionario di suoni inerente all’Hard & Progressive con puntate nell’Heavy Metal, e con due tastiere, è richiesta una nitidezza del suono per poter goderne al meglio. Il cantato di Biagio Volandri Verdolini ha delle potenzialità e si sente ma, in questo caso, la prestazione non è delle migliori. Gli Hyaena del periodo in esame hanno una grande versatilità e lo dimostrano a suon di composizioni complesse nelle quali trovano spazio innumerevoli cambi. “Luminescente Aria” coniuga l’Hard, con il Progressive rafforzato dall’uso delle tastiere. “Scene” assembla melodia e tratti veloci. “Notturno” è nervosa, oscura e con un ritmo controtempo che va a sfociare in una fase finale in piena libertà. “Urla” è una sorta di manifesto futurista che unisce Hard imperioso, urgenza Punk & Thrash e ritmi claustrofobici. “Angeli” passa da una chitarra iniziale in stile Flamenco, a una scatenata nel solo; nel mezzo ci sono fasi epiche, oscure e angoscianti, tenute assieme dall’immancabile tessuto Hard e Progressive. Questo disco potrebbe essere interessante per chi è cresciuto con gruppi come The Trip o P.F.M. (quella dei primi album) ma è adatto anche a chi apprezza sonorità più dure. Spero che Gabriele abbia la voglia e la possibilità di ripescare e pubblicare questi cinque brani in versione studio, per dar loro maggiore lustro. Sarebbe un peccato lasciarli cadere nel dimenticatoio o darli in pasto ad un pubblico risicato.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    11 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 16 Ottobre, 2024
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Da un paio di mesi fra le mie recensioni, trovano spazio quelle di gruppi che sono spariti dalla circolazione parecchi anni fa e poi, come per magia, ricompaiono: i Pyracanda sono uno di questi gruppi. Nati nel 1987 e con un background fortemente ancorato al sound dei Metallica, i tedeschi rilasciano due dischi - “Two Sides of a Coin” (1990) e “Thorns” (1992) -, poi si volatilizzano fino alla reunion del 2020. Oggi, con una formazione parzialmente cambiata e a 32 anni dall’ultimo disco, esce “Losing Faith”. Se stessi parlando dell’ultimo lavoro dei Metallica, festeggerei il ritorno della band americana ai fasti dei primi tre dischi. I Pyracanda hanno in comune con il gruppo di Hetfield e Co. il modo di comporre e molte delle ritmiche tanto che almeno sei brani su dieci, ne seguono le orme: basta ascoltare “Hellfire” e “Misanthrope” per rendersene conto. Ovviamente non ci sono le chitarre caratteristiche del duo Hetfield/Hammett e i soli dei teutonici ne risentono, ma il risultato finale è più che convincente. Come ulteriori band di riferimento si sentono Laaz Rockit e simili che spiccano durante l’ascolto della prima oscura, poi dinamica, “Don’t Wait For”. Uno dei pezzi migliori del lotto è “History Twister”: in questo caso la velocità del pezzo richiama alla mente i Nuclear Assault. Del tutto atipica per i generi proposti è “We Are More” che può essere vista come un Hard Rock in versione 2.0 dei Deep Purple. Le ultime due canzoni, se pur ben strutturate, hanno attutito un poco il mio entusiasmo ma il giudizio su “Losing Faith” rimane più che positivo. A volte chi ha oltre cinquanta anni, soffre di nostalgia e tornerebbe volentieri a tempi più spensierati quando Speed e Thrash la facevano da padroni. I Pyracanda ve ne danno l’opportunità.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    28 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 29 Settembre, 2024
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Gli Hand on Heart, gruppo toscano formato nel 2017 da quattro musicisti con pregresse esperienze, hanno fatto uscire a maggio del 2024 il CD d’esordio dal titolo “Space”. La biografia cita come riferimento musicale l’Hard Rock degli anni '80, ma, a mio avviso, l’atmosfera è affine a quella di certi gruppi di Rock cristiano, o del Rock melodico americano. Immaginate un paese rurale dove voi siete in un campo di grano, o mais, premete il tasto play e lasciate uscire le immagini partorite dalla vostra mente. La voce di Gianluca Niccoli è gradevole da ascoltare e si incastra bene tra le pieghe di un Rock che, come detto, è melodico e molto leggero. Ci sono dei punti a sfavore e riguardano alcune fasi della produzione. Il suono non è mai né aggressivo né spinto ed è possibile notare in alcuni brani alcuni svarioni strumentali e perdite di ritmo. Le canzoni, pur nella loro semplicità, non sono brutte, inoltre quando la chitarra di Christian Evans si mette d’impegno, crea validi riff e soli. Del disco mi è particolarmente piaciuta “Angel”, la leggiadra “When You Fall in Love” e “You Are the One”, uno dei pochi pezzi a flirtare realmente con l’Hard Rock. Una nota a parte la lascio per “Love Theme for Debora”, un pezzo strumentale a base di piano che a me non ha detto un granché, ma può darsi che ai più romantici fra voi faccia battere il cuore. Non so a quanti possa piacere questo disco, io lo considero sufficiente in virtù del fatto che, durante l’ascolto, ha saputo infondermi una buona dose di serenità. Resta il fatto che gli Hand on Heart devono mettere assolutamente a punto alcune cose, se vogliono riuscire a far breccia nel mercato musicale.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    18 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 18 Settembre, 2024
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Ai metallari più giovani il nome Victory dirà poco o niente, ma a chi ha vissuto l’epopea d’oro di metà anni '80, suonerà familiare. La band tedesca - di Hannover - è nata nel 1984 ed è andata avanti fra alti e bassi, ma il fondatore e chitarrista Herman Frank, unico superstite della formazione originale, è riuscito con caparbietà a portarla al traguardo del nuovo disco intitolato “Circle of Life”. Le dieci canzoni si muovono agevolmente nel territorio dell’Hard Rock sfruttando riff portanti e ritmi già noti eseguiti con gusto e perizia strumentale, ma mai monotoni grazie ai cambi inseriti. La voce di Gianni Pontillo è adatta al genere proposto ed è abbastanza versatile tanto da andare a sfiorare quelle di mostri sacri come Robert Plant, Bon Scott (per la sua “acidità”), Joe Linn Turner e simili. Ci sono molti pezzi che hanno una struttura valida e che sono in grado di coinvolgere l’ascoltatore tanto da fargli battere il piede a ritmo. Cercate una canzone veloce, aggressiva e dal solo di chitarra bello ed energico? Portate il tasto play su “Count on Me”. “Money” è un pezzo che grazie ai suoi riff sbrigativi e grezzi, comunica un certo “nervosismo” sotto forma di musica. La conclusiva “Virtual Sin” può essere catalogata come una versione 2.0 di canzoni di gruppi seminali come Led Zeppelin e AC/DC, grazie alla sua accelerazione vitaminizzata rispetto a quella delle band citate. La produzione del disco a cura dello stesso Herman Frank e il mix eseguito da Arne Neurand presso gli Horus Sound Studios sono di buon livello. Ho riscontrato alcune piccolissime mancanze in “Falling”, ma non compromettono la piena riuscita di “Circle of Life”: un disco per amanti del suono definito, duro e trascinante.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    04 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Settembre, 2024
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Copertina e titolo dell’ultimo disco degli statunitensi Absolon potrebbero trarvi in inganno. Un disegno che ricorda lo stile di Luis Royo, ma con dettagli più macabri, e un titolo come “The Blood Seed” porterebbero a pensare ad un gruppo dedito al Thrash o al Black. Non è così! Gli Absolon sono nati nel 2012 dalla mente di Ken Pike, colui che, a tutt’oggi, tiene saldamente in mano lo scettro del comando. A chi ama le sigle dico che gli Absolon vengono catalogati come NWOTHM; a tutti gli altri posso dire che la musica del terzetto è da ascrivere ai generi Heavy e Power. A chi vuole farsi un’idea personale più precisa consiglio l’ascolto del brano finale: “War of Angels”. Quello che esce dagli altoparlanti, è la risultante delle influenze e dei generi trattati lungo tutto l’arco dell’album. Un difetto che ho riscontrato durante l’ascolto con le cuffie è stato quello di trovare un suono “rotondo”, ma anche saturo di strumenti e sovra incisioni. Questo fatto crea un poco di confusione nel distinguere il corposo risultato finale di alcuni pezzi. Nonostante ciò il disco è gradevole ed è reso interessante da cambi e ritmi che non sono mai monotoni o “raffazzonati”. A mio avviso i pezzi migliori del lotto sono “Anger Unconfined”, un Power sinfonico dotato di un buon solo di chitarra, e “The Time Has Come”, dove è possibile “divertirsi” a contare tutti i cambi di ritmo che si susseguono. Se vi gustano Heavy e Power che non disdegnano fasi sinfoniche e una buona dose di melodia pur non cadendo mai nel “mieloso”, “The Blood Seed” fa al caso vostro.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    22 Agosto, 2024
Ultimo aggiornamento: 23 Agosto, 2024
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Gabriels, al secolo Gabriele Crisafulli, è un tastierista e compositore siciliano che vive il mondo della musica a 360 gradi. Dopo un complesso concept album incentrato sulla figura di Dracula uscito nel 2022, “Dragonblood - Damned Melodies”, il maestro è tornato sui suoi passi e ha ripreso in mano il concept in sette fasi dedicato alla figura di Ken il Guerriero o, se preferite, Kenshiro/Hokuto no Ken. Il quarto capitolo della saga ha come titolo “Fist of the Seven Stars – Act 4: Five Forces” e, come gli altri, è pieno di ospiti che per la maggior parte, provengono dal mondo del Power Metal sinfonico. Questi ospiti si dividono le prestazioni vocali impersonando i vari “attori” del concept e le parti musicali alternandosi per tutta la durata del disco. Non so darvi ragguagli sulla trama di questo episodio dato che non mi sono giunti ne i testi e neanche il “canovaccio” della storia. Quello che posso dirvi è che, come accade per molti album che raccontano una storia, è difficile scorporare i brani. Metterne in evidenza solo un paio vorrebbe dire vanificare il lavoro di tutti coloro che compaiono negli altri. In questo caso non lo trovo giusto vista la resa globale molto più che sufficiente. Quello che posso fare è darvi un’idea del tracciato musicale. Tastiere, piano e sintetizzatori, gli strumenti suonati da Gabriels, imperversano in lungo e in largo in maniera evidente e, a tratti, invadente. Le voci degli ospiti le ho trovate centrate ed aderenti alle parti e ai dettami dei generi loro assegnati. Quali sono questi generi è presto detto: Power sinfonico a profusione, inserti epici e pomposi, Progressive Metal e Hard Rock. Come nomi di riferimento vi faccio un piccolo elenco: Dream Theater, Stratovarius, Malmsteen, Helloween, Europe, Rhapsody e Blind Guardian. Detto che tastiere e chitarre compaiono con soli separati e alternati almeno nel 90% dei brani, voglio comunque lasciarvi il titolo di quella che, a mio avviso, è una delle canzoni migliori del lotto: “I Live for You”. Il suo andamento sinusoidale ed il suo incedere non eccessivamente tirato né caotico, aiutano l’ascoltatore ad entrare in un mondo epico (non cupo) e a disintossicarlo dalla presenza delle tastiere; c’è sì il piano ma è ben dosato.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    14 Agosto, 2024
Ultimo aggiornamento: 14 Agosto, 2024
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Quattro elementi provenienti da pregresse esperienze musicali, decidono di dar vita nel 1982 al gruppo dei Witch Hunters (all’inizio il nome era scritto staccato N.d.A.). Non si può certo dire che il gruppo modenese sia fra i più conosciuti della scena Metal italiana anche se, almeno per anzianità di servizio, lo meriterebbe. A questa condizione ha contribuito sicuramente una scarsa produzione discografica dovuta anche a certe “vicissitudini”, e uno stop avvenuto fra gli anni 2001 e 2009. Nel 2024 i due componenti superstiti originali: Cesare Vaccari (batteria) e Miguel Esteban Ramirez (chitarre), affiancati da Cristiano Agnani (basso) e Marcello Monti (voce), tornano a farsi vivi con l’album a otto pezzi “Time is Running”. I Witchunters si vanno ad incuneare in quello spazio che, se vogliamo restare in Emilia Romagna, sta fra i parmensi Wyvern e i modenesi Perfect View. La risultante, quindi, è un Hard & Heavy che affonda le radici negli anni '80 e che propone riff grintosi legati a fasi melodiche. La chitarra di Ramirez scorrazza in lungo e in largo e segna i confini del territorio svolgendo un gran lavoro. Unico neo è una certa ripetitività nelle fasi dei soli “a spirale” ma, fortunatamente, ciò non avviene in tutti i pezzi. Canzoni a più fasi come la title-track “Time is Running” (ne possiede almeno tre), permettono all’ascoltatore di entrare in un mondo musicale a tutto tondo. Qualche riga sopra ho accennato alla passione dei Witchunters per il Metal anni '80. Se ascoltate “Motorcycle Driver”, pezzo che nel cambio interno ricorda i Saxon (“Motorcycle Driver” “Motorcycle Man”, sarà un caso?), ne avrete la riprova. Nel disco trova spazio anche l’Hard Rock americano dalle venature Southern: è il caso di “Always”. C’è anche l’immancabile - almeno per il genere - ballad “dondolante” dal titolo “Words” anche se, per definirla “strappa mutande”, ci vuole fantasia. Ultima annotazione per la conclusiva “I Will Burn”: è un pezzo interessante perché mostra tutte le possibilità che i quattro modenesi potrebbero sfruttare ancora meglio nelle loro future composizioni.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    06 Agosto, 2024
Ultimo aggiornamento: 07 Agosto, 2024
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Un personaggio dallo sguardo indagatore e con il viso che ricorda molto da vicino quello di Sigmund Freud, campeggia nel disegno di copertina di “The Dystopian Chronicles - Voume 1” dei texani Warhog. Dopo avere ascoltato i cinque brani dell’EP mi sono chiesto: “Ma quanti gruppi conoscono ed hanno preso come riferimento i Warhog per sviluppare il loro metodo di composizione?”. La biografia acclusa a quella che viene definita come la prima parte di una trilogia, evidenzia fra le influenze musicali dei quattro texani gruppi come Iron Maiden, Black Sabbath e Blind Guardian. In realtà, il metallaro più attempato riconoscerà partiture appartenenti a vari tipi di Metal e ad una marea di gruppi. Non pensate però che i quattro facoceri abbiano fatto una semplice operazione di copia/incolla. Se tralasciamo “Almost There”, un’introduzione di ben 145 secondi con tastiere che ci portano allo scorrere dell’acqua o, se preferite, al passare del tempo scandito dalla sabbia di una clessidra, gli altri pezzi sono come dei piccoli incastri e intarsi. Provateci voi a catalogare “Hunt of the Cybertooth”: è impossibile! Chitarre cupe downtuned, Cyber-Thrash, fase epica/spaziale e, dopo cinque minuti e mezzo circa, si ha l’ultima variazione del ritmo. Anche l’ottima “Emperor” non è facile da incasellare. Sentore di Iron Maiden, ma con chitarre più potenti e assillanti, intrecci cupi accostati ad una atmosfera celestiale e la chitarra che, non paga del gran lavoro svolto, va a flirtare con il Thrash. Varietà di generi e cambi, peraltro ben eseguiti, è ciò che troviamo anche in “Next”. Le tastiere presenti portano a pensare agli “spaziali” Hawkwind, ma solo da metà pezzo in poi; per il resto sbizzarritevi a trovare altri “agganci” da soli. Nonostante un inizio battente che richiama i Motorhead, Black Sabbath e Monster Magnet sono i principali punti di riferimento della conclusiva “Downtrodden”. Cosa manca ai Warhog per essere perfetti? Un suono di batteria meno secco - quello che sentirete è troppo “da studio” - e un briciolo di accuratezza in più nella fase produttiva.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    27 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 27 Luglio, 2024
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Con “III” dei Damn Freaks si chiude il mio ciclo di recensioni per l’anno 2023. Non conoscevo la band, quindi non sapevo cosa aspettarmi musicalmente. Un primo indizio l’ho avuto quando ho visto che nel 2022 era entrato il chitarrista di lungo corso Alex De Rosso (Dark Lord, Dokken etc.). I Damn Freaks riescono a coniugare - e lo fanno bene - il Rock ruvido con la melodia, una cosa che riporta l’ascoltatore indietro nel tempo ai ruggenti anni '80. Produzione, mix e mastering del disco sono a cura dello stesso Alex: sulla pulizia del suono nulla da eccepire, ma a mio modo di vedere certe fasi con le chitarre sovraincise andavano “legate” meglio. Lo stile compositivo è per la maggior parte quello classico: ritmo, cambio, solo e rientro, il tutto senza mai spingere realmente a fondo sull’acceleratore. Tra i brani che ho apprezzato di più metto “Walking in the Sand”, con il suo cambio incisivo e scatenato situato oltre la metà del pezzo. La voce di Giulio Garghentini è adatta alle varie soluzioni ritmiche, ma, se volete goderla a pieno sulle tonalità più alte, vi consiglio di ascoltarla nel ritornello di “My Resurrection”. Per chi ama le variazioni a più riprese, quelle che scacciano la noia e rendono più interessante l’ascolto, c’è “My Time has Gone”. Il suo solo non mi ha convinto in pieno, ma, a parte questo, il pezzo è ben riuscito. I componenti dei Damn Freaks non sono dei ragazzini e lo si capisce leggendo i ringraziamenti a mogli e figli/e nel piccolo booklet, e non devono dimostrare niente a nessuno. Se cercate un album fatto con passione, “III” potrebbe risultare di vostro gradimento.

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Opinione inserita da Corrado Franceschini    17 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 17 Luglio, 2024
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La prima cosa che ho fatto quando mi è stata proposta la recensione di “Omega – Drive” dei The Blast Wave, è stata quella di ascoltare il primo singolo dell’album, “Atomic Lady”. Mi sono detto: “Questo quartetto francese suona come i Van Halen solo che è più sguaiato”. In realtà non è proprio così o, almeno, non lo è del tutto. The Blast Wave, combo nato nel 2012 ma realmente attivo dal 2017, ha pubblicato in maniera autoprodotta “Mega – Drive” nel 2023. Nel 2024 il gruppo si è accasato con l’etichetta Music-Records e ha riproposto il disco con titolo leggermente diverso, senza intro e bonus track, e registrando nuovamente il tutto. Ho parlato prima di un gruppo “sguaiato” è lo è in molte tracce. Manca una coesione di fondo fra i musicisti che, a tratti, impedisce loro di andare allo stesso ritmo. Esiste una certa dose di originalità e la troviamo nei repentini e improvvisi cambi di tempo che velocizzano alcune delle composizioni. Purtroppo non siamo di fronte a un gruppo da Party Rock come i Poison o, in alcuni casi, i Mötley Crüe e nemmeno rozzo come certe canzoni dei Guns: solo il brano “The Blast Wave” abbraccia in pieno e al meglio lo Street Rock del gruppo di Axl Rose. L’influenza dei Van Halen, poi, si sente solo nella sopra citata “Atomic Lady”. Non abbiamo un frontman come David Lee Roth o Vince Neil e quando Alexandre Hamon va sulle note alte, cosa che tende a fare spesso, non eccelle. Cose da salvare, oltre al già citato cambio di velocità di pezzi come “Mega Drive”, ci sono. Una bella miscela di stili è quella che emerge da “Devil Lived”. Non è facile però assemblare parti Hard & Glam, e farle collimare con una fase in velocità, infatti, come accennato, i componenti sfilacciano un poco il ritmo frammentandolo. Reputo riuscite canzoni come “Cut Throat Boogie”, che con il suo ritmo battente rilascia una buona energia, o “Rock Heaven”, dove sembra di sentire gli Sweet che si sono convertiti al Glam di metà anni ’80. Poteva mancare una canzone che, almeno nel ritmo, ricalca quelle da party selvaggio? Certo che no! “Man Have Long Hair” porta brio e allegria e, per uscire dal grigiore dei nostri tempi, va più che bene. “Omega – Drive” lo colloco come voto fra il cinque e il sei. Spero che in futuro il gruppo riesca a trovare un produttore che lo valorizzi meglio. I soli delle chitarre non sono male e, con qualche idea in più e maggior precisione, potremmo avere delle sorprese positive.

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