Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli
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Ultimo aggiornamento: 19 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti -
Se ancora non ce ne fosse bisogno, è bene ribadirlo per l'ennesima volta: gli inglesi Winterfylleth sono una band colossale, degna portavoce della nuova frangia Black Metal, quella più melodica ed atmosferica che negli ultimi quindici anni ha praticamente preso il sopravvento. Tuttavia tra l'essere un gruppo valido ed essere un top di gamma, per così dire, c'è un abisso enorme; abisso che i nostri hanno ampiamente superato già da un po'. Ed è con questa premessa che oggi presentiamo questo magnifico "The Imperious Horizon", ottavo album che consacra i Nostri tra i grandi del genere, cosa peraltro già constatata con il precedente (ed altrettanto stupendo) "The Reckoning Dawn" del 2020. Pochi gruppi riescono ad essere così maledettamente espressivi e pregni di carica emotiva, e i Winterfylleth centrano in pieno il bersaglio con una musica che continuamente si discosta dai canoni cosiddetti classici. Il Black Metal partorito dalla band è estremamente eterogeneo: epico a tratti, malinconico, sofisticato, brutale e dolce allo stesso tempo. Un continuo mix che ricalca lo stile di altri nomi quali Drudkh o Wolves In The Throne Room, Saor e Agalloch, passando per qualche leggera spennellata Post-Black. Insomma, siamo di fronte a quello che apparentemente potrebbe essere un mix di tutto più o meno riuscito; ma non è così. Qui siamo di fronte a qualcosa di nuovo, che certamente rimanda ad uno stile noto, ma è il come che cambia totalmente le carte in tavola: il songwriting è denso e compatto come un fiume in piena che investe l'ascoltatore con una furia senza precedenti; e per furia qui intendiamo una musica molto introspettiva che mette totalmente a nudo l'interiorità della persona lasciandola spoglia e di fronte alle emozioni più profonde. Le tracce sono lunghe, intriganti e costantemente caratterizzate da alti e bassi, con momenti feroci ed altri più malinconici. E questo gioco di luci ed ombre non fa che commuovere di continuo, costringendo l'ascoltatore a volerne sempre di più. Dal canto nostro i Winterfylleth si sono guadagnato il primo posto senza il minimo dubbio con il miglior disco Black Metal dell'anno.
Ultimo aggiornamento: 20 Agosto, 2024
Top 10 opinionisti -
Iniziamo questa recensione con una celebre frase di Batman nei confronti della sua nemesi, ossia che dal Joker devi aspettarti l'inaspettato. Ecco, questo concetto che potrebbe sembrare puramente dialettico, riflette alla perfezione quello che sono oggi i Dark Tranquillity: una band leggendaria che ha inventato un genere, con una carriera fatta di capolavori e momenti più bui, come dimostrano le dipartite di membri storici negli ultimi anni. Insomma, per Mikael Stanne e soci questi sono stati tempi burrascosi. Ne sono un esempio gli ultimi due dischi, "Atoma" e "Moment", album stupendi e meravigliosi che tuttavia ci hanno presentato una band rinnovata sia nella line-up che nello stile, molto più dolce e melodico, in netto contrasto con le vecchie glorie più ribollenti di magma. Insomma, questo sono i DT di oggi, prendere o lasciare. E poi eccoli di nuovo con questo clamoroso ritorno dal titolo "Endtime Signals", uno dei più grandi giri di boa della band che riporta il sound indietro di almeno quindici anni, ai tempi di "Fiction" del 2007. Non ci crediamo nemmeno noi, eppure è così. Un disco incredibilmente più duro ed energico, con un songwriting cattivo, arrabbiato, quasi stufo della parentesi più morbida degli ultimi anni. Sembra quasi che il terreno, già iniziatosi a plasmare con "Moment" grazie alla chitarra di Johan Reinholdz, sia finalmente diventato fertile per poter tirare fuori dal cilindro un album colossale che guardasse indietro senza vena nostalgica o citazionistica, quanto con una sincera voglia di riagganciarsi ad un filone compositivo più consono ai Nostri. Eppure in questa durezza c'è sempre e comunque spazio per la meravigliosa voce in pulito del leggendario Mikael, che anche qui ci offre una performance canora da encomio, ma stavolta un po' più centellinata o quantomeno relegata a piacevoli parentesi all'interno dei brani. Inoltre, dettaglio più che importante, le chitarre sono di nuovo le vere protagoniste a differenza dei capitoli precedenti dove le tastiere la facevano da padrone indiscusse. Ora, invece, le asce hanno un ruolo dominante, con riff che si intrecciano nelle tipiche armonizzazioni che hanno reso i colossi di Goteborg quelli che sono. Insomma "Endtime Signals" si rivela essere un album potente dal punto di vista espressivo, elegante, maturo e pieno zeppo di sfaccettature che riflettono da un lato l'infinita preparazione musicale dei DT, dall'altro mettono in luce una nuova (?) fase che probabilmente ci porterà a vedere la band di nuovo su una carreggiata più stabile dopo anni di turbolenze. In ogni caso questo è un capolavoro. Punto.
Ultimo aggiornamento: 04 Agosto, 2024
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Feroci, brutali, assassini e guerrafondai: con questi aggettivi possiamo tranquillamente definire i neozelandesi Diocletian, nome di punta del cosiddetto War Metal, quel filone più grezzo e "guerresco" del Black/Death di cui i Nostri, da vent'anni ormai, sono considerati i signori. C'è da stupirsi poco, dunque, se i Diocletian con questo quinto album dal titolo "Inexorable Nexus" non hanno minimamente cambiato formula, ed anzi hanno dimostrato come questo particolare genere possa comunque rinnovarsi pur mantenendo fede a quella sorta di aura ancestrale e primitiva tipica del settore. Possiamo tranquillamente dire che l'album sia un assalto all'arma bianca per una buona mezz'ora: produzione secca, asettica, riff ferocissimi e tirati, sezione strumentale votata al blast beat, voce cadaverica degna del genere e violenza gratuita allo stato puro. Pochi - apparentemente - semplici ingredienti per un gran risultato in cui tutto è volutamente caotico e disordinato, proprio come una sparatoria all'interno di una trincea. Eppure in questo mix delirante di odio, fiamme e proiettili i Nostri ci mostrano un songwriting ragionato nel sue essere feroce e istintivo, motivo in più per definire i Diocletian i massimi esponenti del settore. A conti fatti, per concludere, c'è poco da dire su un disco che fa dell'impatto il suo punto di forza, semplicemente perché è già tutto lì in bella vista pronto a falciare a suon di proiettili tutto ciò che gli si para davanti. Se, dunque, cercavate chissà quale innovazione o evoluzione del caso siete nel posto più sbagliato. Al contrario, se siete fan di questo genere e cercate qualcosa che nel suo essere caotico riesce comunque a stupire per l'ottimo songwriting, allora i Diocletian hanno fatto nuovamente un centro pieno. Da parte nostra disco promosso al 100%.
Ultimo aggiornamento: 04 Agosto, 2024
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I Suffer sono un nome piuttosto importante nella scena Death americana: attivi dal 1989, i Nostri hanno alle spalle un solo disco uscito nel 2015 e svariati demo negli anni '90. Insomma, una carriera sempre in sordina non di certo all'insegna della costanza, come dimostra questo secondo disco dal titolo "Grand Canvas of the Aesthete", pubblicato a distanza di nove anni dal precedente. Comunque sia, se siete fan della vecchia scuola, quella di stampo Carcass in primis, Exhumed, Immolation e Asphyx, allora siete nel posto giusto, perché i Suffer sono fieri portavoce di un certo modo di intendere il Death, che tuttavia non disdegna qualche sguardo alle soluzioni più moderne, benché si parli di spennellate sporadiche che comunque aiutano il disco a scorrere. All'atto pratico, dunque, il quintetto ci offre un vero e proprio spaccato degli anni '90, forse un po' troppo tardi visto l'anno in cui siamo, ma sarebbe ingiusto definirli obsoleti o "già ascoltati". Il rimando costante ai Carcass, per l'appunto, è sempre evidentissimo con le chitarre che si intrecciano quasi a sfiorare il Melodic Death. La sezione ritmica ci offre un classico esempio del Death di trent'anni fa, tra blast beat spaccaossa e tappeti di doppio nelle parti più cadenzate. Un plauso invece va fatto alla chitarra solista di Daron Petit, che riesce egregiamente ad offrirci degli assoli molto tecnici ma mai troppo agghindati: semplici, diretti e ben incastrati tra i marcissimi riff proposti. In sintesi i Suffer rientrano nel calderone di band sopra la media, con tracce molto valide e altre forse un po' troppo citazionistiche. Diciamo quindi che dopo nove anni di attesa forse ci aspettavamo qualcosa di più, ma probabilmente il pregio/condanna di questa band sta proprio nel rimanere totalmente fedele a se stessa, con tutti i pro e i contro del caso.
Ultimo aggiornamento: 04 Agosto, 2024
Top 10 opinionisti -
In soli cinque anni di vita, gli olandesi Defacement si sono ritagliati - a buon diritto, lo sottolineiamo - uno spazio tutto loro tra le frange più contorte e caotiche del Metal, quelle che richiamano gente come Ulcerate, Suffering Hour, Vertebra Atlantis, Incantation e company. Insomma, un filone, quello del quartetto, che può contare su dei pilastri più che noti del settore. Eppure in questo grande calderone i Nostri si sono saputi distinguere con una formula pressoché unica ed inimitabile, e questo "Duality", il loro terzo full-length, ne è la prova. Figlio diretto del precedente omonimo disco, questo album ci presenta la band nella sua forma più matura e completa. Il risultato è dunque un prodotto estremamente variegato, spigolosissimo, difficilissimo, contorto... unico. Quando il Black/Death Metal più feroce di stampo Teitanblood e Triumvir Foul si incontra con le dissonanze dei Portal o, come dicevamo all'inizio, dei Suffering Hour, non può non uscirne qualcosa di malato al limite dell'umana concezione. E tanto basta a dare ai Nostri un biglietto da visita degno di questo nome: quasi 50 minuti di follia che trasportano l'ascoltatore in un oscuro gorgo da cui non si può più uscire, il tutto accompagnato da un tocco di eleganza che rende il disco non solo una mera prova di tecnica ineccepibile, ma anche qualcosa di ragionato e razionale nel suo essere totalmente privo di appigli. Le tracce proposte sono estremamente contorte, quasi per nulla riconducibili a pattern noti, ma comunque fruibili dopo svariati ascolti. Complice di tutto ciò le stupende sezioni più melodiche che accompagnano durante il viaggio, come avviene in "Barrier". Inoltre, differenza sostanziale con le precedenti produzioni, qui si è voluto dare un maggior peso alla sezione strumentale, con la voce del bassista Forsaken Ahmed che fa quasi da sfondo, rendendo il tutto ancora più folle. Un'opera, dunque, perversa e per certi aspetti non per tutti che nel suo avanzare senza logica - per così dire sia chiaro - riesce a darsi comunque una direzione, a patto di ascoltarla più e più volte per poterne cogliere ogni singolo aspetto. Sicuramente tra gli album più interessanti e meglio riusciti del 2024 che entra tra i candidati della top 10 di quest'anno.
Ultimo aggiornamento: 23 Giugno, 2024
Top 10 opinionisti -
Se vi chiedessero di pensare al Metal estremo, quasi sicuramente l'Australia non sarebbe il paese che vi verrebbe in mente per primo. Tuttavia, la terra dei canguri è ben lungi dall'essere priva di una scena attiva e ribollente di novità, come oggi andremo a dimostrare. Dal sottobosco del vastissimo territorio australiano ecco spuntare gli Endless Loss, duo capitanato da tali SJ alla voce e chitarre e ML alla batteria. Per il resto la band è praticamente sconosciuta avendo alle spalle un solo EP e una demo. Ma oggi la musica cambia in tutti i sensi con questo fenomenale "Traversing the Mephitic Artery", primo vero album di debutto del duo di Adelaide che ci mostra un gruppo che di Black/Death Metal ne capisce tanto, ma veramente tanto. Per darvi un'idea: immaginate di mettere in un frullatore Triumvir Foul, Teitanblood e Archgoat; aggiungete un microscopico pizzico di follia dissonante dei Portal e avviate la macchina. Ecco, il risultato sarà un disco di una potenza devastante ed una personalità granitica come un monolite. Questo "Traversing the Mephitic Artery" si presenta come una gorgo oscuro, un turbine nero nell'acqua che inghiotte perfino la luce dal tanto che risulta pesante, con tutte le accezioni con cui si può usare il termine. La ritmica è serrata e non lascia spazio a momenti di calma, tranne in qualche passaggio come in "Sepulchre of Violent Consummation". Eppure, nonostante tutto, ML riesce a muoversi attraverso pattern affatto scontati, dando alle tracce un impianto osseo molto stabile e convincente. A seguire abbiamo il riffing: brutale, marcio, oscuro, privo di qualsiasi richiamo alla luce. Tutto è impastato come se fosse una melma maleodorante dalla quale emerge soltanto un growl cadaverico che molto deve agli americani Triumvir Foul - il che è un enorme punto di merito -. Ma anche qui non è da intendersi come un disco nel quale tutto è buttato in caciara tanto per dargli l'effetto frullatore impazzito. Al contrario: in questa quasi mezz'ora il duo riesce ad imprimere la propria personalità alle tracce, che risultano - stranamente ed in contrasto con il mood - scorrevoli e granitiche, senza intoppi del caso o fastidiosi passaggi. Chiaramente siamo di fronte ad un certo modo di intendere il Black/Death nelle sue frange più feroci ed estreme, ma possiamo garantirvi che questa è la qualità se volete addentrarvi nei meandri più oscuri del genere. Complimenti ragazzi!
Ultimo aggiornamento: 23 Giugno, 2024
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Quella che stanno vivendo gli olandesi Bodyfarm è letteralmente una seconda nuova vita: dopo la morte del fondatore Thomas Wouters e l'uscita dalla line-up del cofondatore, il batterista Quint Meerbeek, i Nostri hanno passato una fase di riassestamento con la pubblicazione nel 2023 dell'album "Ultimate Abomination": un'ottima prova che dimostrava quanto la band avesse ancora lo stomaco forte per potersi fare carico di queste importanti novità ed andare avanti. Ebbene oggi siamo di fronte ad un altro piccolo passo avanti in questa rinascita dei Bodyfarm, ossia l'EP "Malicious Ecstasy": un assaggio della ferocia olandese fatto di quattro inediti e alcuni brani live in vista del tour che vedrà i Bodyfarm fare da spalla a Pestilence e Carnation. L'EP, tanto per essere secchi e diretti, fila liscio che è una meraviglia, senza intoppi o inciampi del caso, con l'unico difetto che, se proprio dovete presentarlo come full-length, quantomeno assicuratevi di avere nella faretra più tracce nuove anziché brani suonati live. Comunque sia, tolto il neo in questione, siamo di fronte ad una classica prova firmata Bodyfarm, con quel sentore Asphyx spennellato dalle sfuriate Dismember e Bolt Thrower per un risultato che, tutto sommato, si attesta ben al di sopra della media e che conferma quanto la band sia ben lungi dal battere la fiacca. Certo, è comunque un settore questo dove i Nostri sanno muoversi, non una vera e propria comfort zone ma nemmeno un terreno tutto da battere: i Bodyfarm sono nel posto giusto al momento giusto, con alcuni guizzi di genio e altri passaggi un po' più comodi e quasi prevedibili.
Ultimo aggiornamento: 23 Giugno, 2024
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Beh, c'era da aspettarselo. Era lì, nell'aria, già annunciata: la versione ri-registrata di "Schizophrenia", capolavoro dei Sepultura del 1987, per mano dei fratelli Cavalera. Quindi, senza che facciate i finti stupiti, considerando che esattamente un anno fa Max e Iggor pubblicarono il ri-arrangiamento di "Morbid Visions" e "Bestial Devastation", tuffiamoci in questo viaggio nel passato. In realtà c'è molto poco da dire - e grazie al ca**o direte voi -, il disco parla da sé: cosa vuoi obiettare ad un album che ha fatto la storia del Thrash e che è perfetto dall'inizio alla fine? Esattamente nulla. Ciò che invece possiamo fare è constatare come - e PER FORTUNA - i fratelli Cavalera non abbiano minimamente voluto snaturare la loro creatura adattandola ai tempi moderni con tutti gli abbellimenti e ghirigori del caso. Esattamente come successe per "Morbid Visions", siamo di fronte ad un lavoro di pulizia, per così dire, di una vecchia gloria; una sorta di spolverata e lucidata per dare il giusto merito ad un sound che già trent'anni fa fece tremare il mondo del Metal. Sound che all'epoca, vista anche la produzione più "casereccia" - che noi amiamo, sia chiaro - risultava sporco. Ecco, i Nostri non hanno semplicemente dato una passata di pezza e basta, una "ripulita" alla copertina et voilà: semplice, diretto ed essenziale. Poi è chiaro come il sole che si tratta di un album di cui non avevamo assolutamente bisogno dato che il passato sta bene dove sta; però non possiamo non lodare questa spasmodica attenzione nell'omaggiare senza snaturare la propria storia. Quindi dai, questa versione di "Schizophrenia" è più che valida e merita tanto.
Ultimo aggiornamento: 02 Giugno, 2024
Top 10 opinionisti -
Speravamo di non arrivare mai a questo punto, ma, ahinoi, eccoci qui con quello che - speriamo di no -potrebbe essere il momento del calo degli inglesi Ingested: band che negli ultimi anni si era imposta come una realtà in crescita, freschissima di idee e con un rinnovato stile. Ne fu un esempio il capolavoro del 2020 - ad oggi imbattuto - dal titolo "Where Only Gods May Tread", l'opera che diede al trio inglese la notorietà e l'importanza che meritava. Sarà un caso che con il passaggio a Metal Blade i Nostri abbiano abbandonato l'idea di portare al tavolo prodotti di qualità in favore della quantità? Ai posteri l'ardua sentenza e a noi il compito di recensire questo settimo lavoro, il qui presente "The Tide of Death and Fractured Dreams". Ora, definirlo un brutto disco sarebbe intellettualmente disonesto e d una grossa stupidaggine. D'altro canto non possiamo nemmeno decantarlo come un'opera degna del nome Ingested; o almeno non in parte. Siamo di fronte al classico disco senza infamia e senza lode che non aggiunge nulla alla carriera del trio e che anzi, a fronte dei precedenti capitoli di molto superiori a questo, ci fa solamente inca**are. La componente Deathcore, come pure le spennellate Slam degli albori sono sempre lì. Idem per quanto riguarda le sferzate melodiche e più oniriche. Il tutto però suona come prodotto di riserva, di band stanca e per nulla affamata di idee; e non parliamo di struttura dei brani similare. Parliamo proprio di ciò che gli Ingested trasmettono con questo settimo album: stanchezza. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad un colosso di granito che al suo interno però nasconde un cuore morbido e molliccio; della serie più potenza che atto. Un'inevitabile conseguenza per una band che in quattro anni ha sfornato tre dischi e una remastered edition di un vecchio capitolo. Capite dunque che non si tratta solamente del delirio del recensore, ma di qualcosa di più intrinseco riassumibile nella frase "quantity over quality", che dovrebbe invece essere l'inverso.
Ultimo aggiornamento: 02 Giugno, 2024
Top 10 opinionisti -
Chiediamo scusa per l'enorme ritardo con cui scriviamo questa recensione. E lo chiediamo doppiamente dopo aver messo le mani su questo fenomenale "The Tread of Darkness", colossale disco di debutto dei bielorussi Ciemra: l'ennesimo album che conferma di nuovo quanto l'Europa dell'Est sia la nuova culla dell'ondata Black Metal moderna. Un tripudio di sonorità, mid-tempo, arpeggi, feroci cavalcate ed emozioni che stentiamo a credere possano essere tutti presenti all'interno di una sola opera. Eppure è così. Stentiamo inoltre a far rientrare in determinate coordinate stilistiche il sound del quintetto di Minsk, poiché "The Tread of Darkness" è un album talmente denso di contenuto che sarebbe imperdonabilmente riduttivo tentarlo di inquadrare in un solo blocco; e forse è meglio così. I riff sono profondi, eleganti ma al contempo velenosi e feroci, la voce è cadaverica, l'impulso omicida è sempre lì dietro l'angolo ma ben nascosto, quasi a volersi fare appena intuire. Un sorta di vedo-non vedo che traccia dopo traccia ci trasporta all'interno di un maligno vortice oscuro. Immaginate di prendere la ferocia dei Necrophobic ma con le atmosfere di Mgła o Gaerea: praticamente come tentare di unire i poli uguali di due calamite. Eppure i Nostri riescono nell'impresa di creare un'opera estremamente eterogenea, possente, austera ed elegante ma al contempo feroce e malefica, costantemente tinteggiata da spennellate di violenza ferina degna dei migliori lavori Raw Black. Non sarebbe nemmeno giusto parlare di rivisitazione di diversi stili del Black Metal, perché lascerebbe sottintendere una sorta di lavoro citazionistico o comunque non genuino. Niente di tutto questo. Qui siamo di fronte a bravura allo stato puro messa in atto da un gruppo di cinque componenti che a modo loro hanno plasmato un capolavoro. Goduria allo stato puro per 45 minuti di qualità fuori dal comune.
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