Opinione scritta da Chiara
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Top 50 Opinionisti -
Intelligenza artificiale, deumanizzazione, clonazione, lotta tra uomo e macchina sono solo alcuni degli argomenti trattati in “Genexus”, che segna il ritorno dei losangelini Fear Factory in forza alla Nuclear Blast Records, dopo tre anni di silenzio da “The Industrialist”. In questo lasso di tempo i paladini dell’industrial metal hanno raccolto i pezzi e visto grandi ritorni e cambi di line-up, ma la formula magica alla base della loro fortuna è rimasta invariata, complice anche la produzione di livello del fidato Rhys Fulber e del mixaggio di Andy Sneap (che ha collaborato, tra gli altri, con Testament, Killswitch Engage e Trivium).
La prima traccia di “Genexus”, “Autonomous Combat System”, è in pieno stile Fear Factory, anche in termini di songwriting, e le novità che introduce, dal punto di vista del sound, sono ben poche. Ma nonostante questa relativa prevedibilità, l’ultima fatica di Burton C. Bell e compagni è un prodotto ottimo e accattivante. Se in pezzi come “Anodized” è la melodia a prendere le redini del discorso, l’utilizzo dell’elettronica e del consueto marchio di fabbrica industrial (come insegna “Dielectric”) sono presenti con una certa insistenza per tutta la durata di “Genexus”. Non mancano i brani più heavy e tirati: basti pensare a “Protomech”, l’episodio più pesante dell’opera. Poco fa accennavo alla melodia preponderante: i refrain catchy di “Regenerate” e la conclusione iconica e malinconica di “Expiration Date” (con una bella citazione di “Blade Runner”) possono mettere a dura prova i fan della prima ora, ma il risultato finale è ugualmente diretto ed efficace.
“Genexus” è un’ulteriore riprova (se mai ce ne fosse stato bisogno) che i Fear Factory sono tra le poche band al mondo ad essere riconoscibili ed inconfondibili fin dalle prime note delle loro composizioni, e che la loro identità, in venticinque anni di carriera, è solida, massiccia e cosciente di sé come le macchine decantate all’interno di questo nuovo lavoro.
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Quando si dice: “il caldo dà alla testa”. Il sole dell’Arizona deve aver trasformato i Vorzug da simpatici e solari ragazzoni americani a un gruppo di deathster assetati di sangue. Ma l’alone di mistero che circonda i quattro di Phoenix è talmente fitto da poter solo supporre l’origine della loro passione per queste sonorità oscure. L’unica cosa certa è che “Call Of The Vulture”, il secondo album della formazione, propone un blackened death metal da urlo e di sicuro impatto, spiccando nettamente nell’intrico di formazioni più o meno recenti di questo sottogenere.
Nove brani esplosivi, a partire dall’opener “At Winters End”, con la sua intro melodica e strumentale, una piccola parentesi dopo la quale si inizia a picchiare veramente. Il growl di Anthony Hoyes dà alla testa, sposandosi al meglio con le ritmiche atipiche dei suoi colleghi, e con cambi di ritmo repentini. La vena black si fa sentire a fine brano, con la seconda voce che ricorda il lamento di uno zombie appena resuscitato. “Her Screams” vomita blasfemie a profusione, la voce black è davvero da paura e la batteria di Daniel Beck pesta talmente pesante che farebbe tornare sul serio i morti dalla tomba. Si procede lungo la stessa direttrice anche con “I Am In Hell”, alternando growl e screaming, ma con ritmi leggermente più rallentati. “Slumber Party Massacre” con i suoi riff ipnotici e buone dosi di doppia cassa, ci butta in una convincente atmosfera da film horror. Spetta a “Broken Dreams” chiudere le danze, con un'ultima, grandissima esplosione di malvagità.
Se siete fan delle sonorità death più estreme, alla Cannibal Corpse, ma arricchite da un pizzico di originalità e di malignità black, “Call Of The Vulture” è il disco che fa per voi. Non riuscirete a fare a meno di pensare a quel growl maniacale per molto, molto tempo dopo l’ascolto.
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I canadesi Riotor ritornano a cinque anni dal primo full length, “Beast of Riot”, con un’opera thrash estrema, “Rusted Throne”, pubblicata come da buona tradizione della Inferno Records anche in tiratura limitata in musicassetta. Forti di diversi mesi di tour in patria e oltreoceano, i cinque thrasher di Quebec City non potevano non sfornare un album degno del loro nome.
“Rusted Throne” è un compendio della filosofia e dello stile di vita della formazione canadese: la vita non è degna di essere vissuta se non lanciandosi a folle velocità sulla corsia di sorpasso. Violenza, sofferenza, lyrics esplicite (così come l’artwork della copertina) la fanno da padrone per tutta la durata del disco, che suona davvero come un unico urlo disperato. Pur trovando una parziale salvezza in “Metal Salvation”, non si poteva che chiudere con il trionfo del dolore, traducendo alla lettera il titolo del pezzo di chiusura di “Rusted Throne”, “Triumph of Sorrow”.
Certo, “Rusted Throne” non è esente da qualche sbavatura, ma siamo a un secondo album e di tempo per migliorarsi i Riotor ne hanno, eccome. La voglia di fare e di spaccare non manca, vedremo se sopravvivrà alla prova del tempo.
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Un’altra buona band australiana si aggiunge all’elenco già nutrito di gruppi revival thrash che vengono dalla parte opposta del globo: i Deraign. La giovane formazione nasce nel 2012 per volere del chitarrista Steve Lievesley e del batterista Chalky Hill. Dopo alcuni cambi di line up endemici per una band ai primi passi, e dopo aver girato l’Australia in lungo e in largo spargendo il loro verbo, i Deraign approdano al primo EP “Purity In Violence”, per ora rilasciato esclusivamente in digital download.
Come anticipato qualche riga sopra, l’offerta dei Deraign non si discosta dall’old school thrash, ma lo approccia con un’attitudine fresca e moderna, molto “aussie”. “Broken Trust”, la prima traccia di “Purity In Violence”, ne è la prova: rime facili ma immediate e orecchiabili, riff squillanti e dal carattere forte. L’intro di “All Is Lost” lascerebbe presagire una ballad Metallica-style, ma ben presto il ritmo accelera lasciando a bocca asciutta gli estimatori delle sonorità più morbide. La title track ribadisce il concetto della catarsi nella violenza, come sembrerebbe suggerire la chiusura più riflessiva e rilassata dopo la sfuriata iniziale.
I Deraign partono con il piede giusto grazie a “Purity In Violence”: forse è troppo presto per parlare di full length, ma avanti di questo passo i nostri non tarderanno a regalarci altri inni thrash per le nuove generazioni.
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I Prime Evil sono dei veterani dell’underground newyorchese. Il loro status di cult se lo sono guadagnato a partire dalla metà degli anni ’80 suonando nei club più malfamati della Grande Mela e non rilasciando mai un solo full length nel corso di quasi trent’anni, ma limitandosi alla registrazione di diversi demo tape (che oggi sono dei veri e propri pezzi da collezione) e alla pubblicazione nel 2002 di una compilation, “Unearthed”, che raccoglie la maggior parte dei loro EP. Dopo una pausa di riflessione fino al 2010, i nostri tornano più cattivi che mai con il loro primo album di inediti ufficiale, “Blood Curse Resurrection”, rilasciato in CD e in una tiratura limitata di cento cassette, per la gioia di tutti i nostalgici.
Il mix corrosivo di death e thrash metal si percepisce già dal primo brano di “Blood Curse Resurrection”, “Blood Curse” appunto, dal suono sporco e malvagio, complice anche un growl profondo, raschiato e crudele, la voce di un demone dall’Inferno. “Soul Shattered” è pura disperazione death, sulle note della batteria impazzita e di riff brevi e incalzanti. I riflettori rimangono ben fissi sulle pelli anche in “Cannibal God”, una blasfemia lunga circa tre minuti urlata a pieni polmoni, e nella successiva “In Defiance”. “Horns of Rapture” cambia leggermente rotta, con un ritmo più tormentato così come il growl che si fa ancora più sofferto, se possibile. L’opera trova la sua degna conclusione in “Strangulated Decapitation”, rimarcando il concetto espresso nel titolo stesso del brano: in un modo o nell’altro, non c’è scampo, di sicuro non per le nostre orecchie dopo l’ascolto di “Blood Curse Resurrection”.
Band emergenti (e non solo) prendete nota: i Prime Evil sono dei maestri, in primis di modestia e di autenticità, avendo sempre voluto rimanere nella cerchia dell’underground, evitando di svendersi al primo offerente. In secondo luogo, ma non da ultimo, il sound, la tecnica, l’energia e la passione sono assolutamente quattro caratteristiche che ogni formazione che si rispetti deve almeno prendere in considerazione prima di lanciarsi in un determinato ambito musicale.
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Facce pulite, suoni puliti, titoli e testi filosofeggianti-letterari e artwork tanto trendy che pare un album di Ke$ha. Ora, non me ne voglia Ke$ha, che tra le stelline del pop è una delle più coraggiose e meno conformiste, tanto da aver collaborato con il temibile Alice Cooper. Ma cover a parte, “Welcome To My Void”, l’album di debutto dei tedeschi Watch Them Fade, non è il solito melodic metalcore tanto in voga in questi ultimi tempi.
Nati appena quattro anni fa, ma attivi con la line up attuale solo dal 2013, i Watch Them Fade si sono immersi nella registrazione del loro primo full length con l’entusiasmo dei principianti, che è stato effettivamente premiato con un contratto con un’etichetta di prestigio come la Massacre Records. Ma non è stato solo l’entusiasmo a portare la formazione di Würzburg ai fasti attuali: qui ci troviamo di fronte a quattro musicisti con i controfiocchi. Gli undici pezzi all’interno di “Welcome To My Void” sono in equilibrio perfetto tra melodia e ritmo, energia e malinconia, coadiuvati dall’utilizzo dell’elettronica che svecchia il sound senza risultare troppo invadente. Anche il growl di Christoph Aggou è un plus: profondo, cavernoso, instancabile, in un contrasto agrodolce con le melodie proposte dai suoi compagni. L’alternarsi di pezzi più energici come l’ottima “Nothing Remains” (con tanto di sparatoria finale) ed altri più onirici (“Horizon” e “Mathematics With Butterflies” sono i sogni dai quali non vorremmo mai svegliarci) fa sì che l’ascolto sia piacevole fino alle battute di chiusura del disco, e anzi, una volta terminato, ne vorremmo ancora.
I Watch Them Fade, pur cavalcando l’onda della moda attuale, riescono a spiccare nel mare di band tanto simili a loro stesse da risultare un unico amalgama distinguibile solo dai moniker più o meno diversi. Aspettiamo la seconda prova di studio per avere un’effettiva conferma del loro talento ma soprattutto della direzione che vorranno prendere.
Ultimo aggiornamento: 14 Luglio, 2015
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I Tornado nascono nel 2010 per volere del carismatico ex tour manager/vocalist Superstar Joey Severance. Il personaggio in questione, pur non essendo finlandese, ha deciso di eleggere a propria patria la ridente città di Tampere in quanto è il luogo più in linea con le sue aspirazioni artistiche e musicali. È proprio qui infatti che ha avuto l’opportunità di collaborare con un buon numero di formazioni locali (un nome su tutti, Korpiklaani) e dove ha fondato la sua attuale band, i Tornado appunto, insieme ai chitarristi Tommy Shred e Tim Damion, al bassista Henry Steel e al batterista Niko McNasty.
Superstar Joey Severance si è fatto portavoce con i suoi compagni di avventura del cosiddetto “sleazy thrash”, il filone letteralmente da “quartiere malfamato” di questo sottogenere. E difatti, i dieci pezzi che compongono “Black President”, sono delle vere e proprie filastrocche urbane a ritmo di thrash. Il secondo full length della formazione finlandese è quindi un crogiolo di violenza e denuncia politica lanciato a tutta velocità, con sfumature a tratti hard & heavy (vedi “T-Minus 10” e “David and Goliah”). Spesso e volentieri la band si dedica anche a tematiche più strettamente horror e splatter, come in “Flesh Crawling Nightmare”, in cui la voce cantilenante di Severance crea insieme alla sezione ritmica in primo piano una buona atmosfera ossessiva da B-movie.
Forse “Black President” non sarà il disco thrash dell’anno, ma è una gradevole compagnia, che vi coinvolgerà in qualche piacevole minuto di guerriglia urbana virtuale.
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Squadra e ricetta vincente non si cambiano. Nonostante la copertina diametralmente opposta rispetto al precedente “How We Both Wondrously Perish”, che farebbe presagire un sound più cupo e meno “californiano”, “Being As An Ocean” continua sulla direzione tracciata dal secondo album della band: emozioni sincere e cuore in mano.
Rispetto all’anno scorso la situazione è rimasta pressoché immutata: stessa formazione, stessa instancabile tabella di marcia per quanto riguarda le date internazionali del nuovo tour. Tanto che la domanda sorge spontanea: ma dove avranno trovato il tempo di registrare il nuovo album? Non saprei, ma fatto sta che ce l’hanno fatta. E che il risultato è davvero buono, nel suo genere ovviamente. Emo, screamo, metalcore, spoken word e post-core continuano a intrecciarsi con passione e ispirazione dando vita a canzoni orecchiabili ma allo stesso tempo profonde, che migliorano ad ogni ascolto. Tra i pezzi più significativi, mi sento di citare senza esitazione “Forgetting Is Forgiving The I”, quasi commuovente nella sua dolcezza, e l’energica chiusura di “…And Their Consequence”. Un altro brano che ha acceso una scintilla nella mia memoria è “Saint Peter” (sono l’unica a trovare una somiglianza incredibile tra le prime note di questo pezzo e “City Of Blinding Lights” degli U2?).
“Being As An Ocean” vede inoltre un parziale abbandono di alcuni strumenti forse un po’ troppo fuori contesto (vedi le trombe campionate in un paio di pezzi di “How We Both Wondrously Perish”), ma a mio avviso, si tratta di un punto a favore dei Being As An Ocean e dello sviluppo della loro personalità, che si sta rivelando sempre più forte di album in album.
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Gli After All sono una band thrash belga attiva dal 1988. Si può dire di tutto tranne che siano di primo pelo. Con otto full length e altrettanti EP all’attivo, oltre che una quantità invidiabile di ore su palchi internazionali e di chilometri macinati, i cinque musicisti si sono guadagnati la loro bella fetta di mercato, grazie anche al successo clamoroso del loro ultimo album, “Dawn Of The Enforcer”, uscito tre anni fa, che si è rivelato essere la prova tangibile della possibilità di mietere consensi sia tra i fan che la critica.
L’EP “Rejection Overruled” è uno stuzzichino che ingolosisce parecchio, soprattutto in previsione dell’uscita del nono lavoro di studio dei thrasher belga nei prossimi mesi di questo 2015. Ovvio che è sempre meglio non giudicare un album dalla copertina, ma in questo caso anche il “confezionamento” conta: edizione limitata in vinile, impreziosita dall’artwork post-apocalittico del leggendario Ed Repka. Venendo al contenuto, ci imbattiamo in tre brani curati nei minimi dettagli. La mano di Dan Swanö si sente eccome, e lo si nota dall’impronta più tenebrosa che i nuovi pezzi (“Rejection Overruled” e “None Can Defy”) presentano all’interno della loro struttura solo in apparenza old school thrash. In chiusura la già nota “Land Of Sin”, rispolverata per l’occasione con un featuring di Andy LaRocque alle sei corde.
Ora che questa chicca da collezionisti ci ha fatto venire l’acquolina in bocca, non ci resta altro che attendere qualche mese per buttarci a capofitto su quello che ha tutte le carte in regola per essere un ricco banchetto.
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I Nadimac, band serba attiva dal 2003, appartiene alla categoria delle sorprese tanto inaspettate quanto gradite. “Manifest Protiv Sudbine” è il quarto full length della formazione di Belgrado, manipolo formato da quattro veterani che sanno esattamente dove mettere mano per ottenere ottimi risultati. Il mio timore, accingendomi all’ascolto di “Manifest Protiv Sudbine”, era di essere sviata dalla comprensione pressoché nulla dei testi (l’album è cantato interamente in serbo), ma devo ammettere che in questo caso è stato un plus, permettendomi di concentrarmi sulla musica senza dovermi per forza preoccupare del songwriting.
I Nadimac propongono un buon crossover thrash, ultra efficace e ultra violento, contaminato da hardcore, speed, grind (influenze dei loro maestri, tra i quali si possono riconoscere Onslaught, Hatebreed, Napalm Death, D.R.I. e Municipal Waste) e non hanno mai avuto la pretesa di essere ascritti alla new wave del thrash, preferendo farsi promotori di un atteggiamento DIY che fino ad oggi si è rivelato vincente e, se non altro, privo di qualsiasi compromesso.
Venendo a “Manifest Protiv Sudbine”, la breve intro costruita su urla, vagiti, sirene sembra quasi suggerirci “lasciate ogni speranza, voi che entrate”. E infatti, il presentimento è corretto. “Stakleni Zidovi Klanice” (l’unico titolo di cui ho trovato una traduzione, che sarebbe all’incirca “il macello dalle pareti a specchio”) è un’aggressione sonora, il ruggito di una macchina da guerra (un carrarmato?) che avanza inesorabile, accompagnato dalle urla a pieni polmoni del vocalist. Se non fosse per il growl, “Krv Do Kolena” sarebbe un brano HC in piena regola, così come “Jebe Mi Se!”, pezzo breve e lancinante come le famigerate grida a cui accennavo prima. “Retardiran Za Skejt” è talmente coinvolgente che verrebbe voglia di rispondere a tono al botta e risposta, nonostante le effettive difficoltà linguistiche. Tra gli altri pezzi spicca la convincente “Glas Pod Zemljom”, sublimazione della malvagità umana narrata a suon di riff lanciati a velocità folle.
Se siete alla ricerca di musica stordente, in grado di annientare qualunque pensiero e di fare tabula rasa del vostro cervello per qualche minuto, “Manifest Protiv Sudbine” è l’ascolto che fa per voi. Sembrerà un paradosso, ma l’effetto è straordinariamente tranquillizzante. Provare per credere.
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