Opinione scritta da Mark Angel
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Top 50 Opinionisti -
Dopo un’attesa lunga tre anni ed alcuni intoppi relativi alla produzione ed al mastering, irrompe sul mercato sotto l’egida della Pure Steel Records il nuovo disco degli Us Metallers partenopei Savior From Anger; la compagine guidata dal mastermind Marco Ruggiero (ora Mark Ryal) è alla quarta prova in studio, dopo aver esordito con l’Ep “No Way Out” del 2006 sfornò rispettivamente nel 2009 e nel 2013 i full-lenght “Lost in the Darkness” e “Age of Decadence”.
Chi conosce la band fondamentalmente sa cosa aspettarsi, un roccioso Us Power Metal che più a stelle e strisce non si può; la devozione di Mark Ryal per band storiche come: Metal Church, Vicious Rumors, Riot, Annihilator, Anthrax, Reverend, Heathen ecc è davvero unica; purtroppo in Italia questo sound è poco seguito quindi molti Metal kids nostrani si perdono una fetta purissima del nostro amato genere musicale.
La sorpresa più grande di questo disco è la presenza del veterano Bob Mitchell (Attacker, Mind Assassin, Sleepy Hollow, Vyndykator ecc) in qualità di nuovo cantante della band, stavolta Mark Ryal non poteva compiere scelta migliore assoldando il navigato singer statunitense, dotato di una voce realmente adatta al genere proposto: chi lo conosce sa di cosa parlo, chi non lo ha mai sentito cantare, immagini un misto tra David Wayne, Mike Vescera e Rob Halford.
Un’altra nota positiva rispetto al passato è la produzione finalmente all’altezza degli standard internazionali, i dischi precedenti dei Savior From Anger, seppur qualitativamente ottimi erano molto penalizzati da una produzione Low Cost che non ne esaltava il sound.
Ciò che mi ha colpito, conoscendo bene la band, è un leggero cambiamento stilistico, la componente Speed/Thrash è stata messa da parte per far spazio ad uno stile più catchy e melodico, quasi europeo a tratti, ma partiamo con un’attenta analisi dei brani: La opener “Across the Sea” si scaglia sull’ascoltatore con un riff poderoso continuando su di un ritmo veloce che rallenta durante il ritornello offrendo degli ottimi spunti melodici.
La successiva “In the Shadows” scelta come singolo apripista dell’album, annovera l’ex Metal Church Craig Wells come coautore del brano, qui siamo in presenza di una vera e propria perla che non ho problemi a classificare come uno dei brani più belli da me ascoltati in questo 2016. In “Bright Darkness” il cantato di Mitchell si fa più melodico ed a tratti sembra di ascoltare gli Helloween di metà anni ’90 o gli Axxis.
Ecco che con “The Eye” i ritmi aumentano e torna il classicissimo Us Metal d’autore, questa song molto Live-oriented è stata scritta secondo i dettami di mostri sacri come Metal Church e Vicious Rumors; la successiva Thunderheads è Metal Church al 100%, la prestazione vocale di Mitchell qui oscilla tra il Wayne d’annata e Bobby “Blitz” Ellsworth; il brano non sfigurerebbe in dischi come “The Dark” o “The Human Factor”.
“Chosen Ones” è un altro highlight del disco, che ritornello ragazzi! Anche la successiva “The Calling” si assesta su ottimi livelli, mentre l’ottava traccia “Starlight” è una dolce ballad sulla scia delle vecchie “Through this Life” e “Warrior Princess” dei dischi precedenti; l’atmosfera è molto anni ’70 e potrebbe intenerire anche il cuore del metallaro più truce, unico neo l’eccessiva durata.
Lo Speed Metal torna sovrano con la velocissima “The Eyes Open Wide” altro validissimo brano partorito da un Mark Ryal in stato di grazia; la penultima “Repentence” possiede un feeling oscuro e presenta alcune influenze dei Crimson Glory di “Astronomica”, sicuramente è una canzone che per essere apprezzata appieno deve essere ascoltata più volte. La title track posta alla fine dell’album presenta elementi di Iron Maiden, Running Wild e Rage, anche se è il brano che mi ha convinto di meno nonostante il discreto livello.
Che dire, siamo in presenza di un disco italiano di ottima fattura, non ci sono riempitivi in questo “Temple of Judgment” ne tempi morti, anche se personalmente mi avrebbe fatto piacere qualche elemento Thrash Metal come nei vecchi dischi ma non dispero per il futuro.
In conclusione chi si definisce un Defender ma soprattutto un seguace del Metallo italiano dovrebbe procurarsi senza esitazioni questo disco, il migliore finora della coerentissima e lodevole carriera dei Savior From Anger.
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Gli Ivory da Torino non saranno certo un nome nuovo per i lettori più attenti, la band piemontese infatti esordì nel 2003 con il disco “Prophecy of a Dream” seguito dal successivo “Time for Revenge” del 2008 mentre il cd che ho tra le mani: “A Moment, a Place and a Reason” è uscito ad inizio Febbraio, ben otto anni dopo il disco precedente.
Appurato che il quartetto torinese non è molto prolifico in quanto ad uscite discografiche occorre sottolineare l’attenta ricerca qualitativa della propria proposta musicale, inoltre va segnalato il ritorno del primo singer della band Roby Bruccolieri al posto di Ivan Giannini.
Ciò che colpisce è l’inequivocabile sterzata stilistica attuata dalla band che dal Power/Prog dei primi due lavori si è spostata su territori Hard Rock/Blues decisamente anni ’70; l’artwork ed il booklet sono discretamente curati ed il mastering è stato curato dal celebre Roland Grapow, ex chitarrista degli Helloween ed ora titolare dei “Grapow Studios”.
La opener “Bad News” non può lasciarci indifferenti travolgendoci con il suo ritmo veloce, caldo e sanguigno; le chitarre e le tastiere si intrecciano creando un brano davvero convincente pieno di reminescenze Whitesnake e Deep Purple del periodo “Burn” o “Stormbringer” non a caso la song in questione è stata scelta come videoclip promozionale del disco.
Con la successiva “The Hawk” i ritmi rallentano e l’Hard Rock degli Ivory diventa più melodico tessendo delle atmosfere ariose e sognanti, con “Feeling Alive” il Blues la fa da padrone mentre qualche passaggio è puro Funk Rock, non c’è che dire un gran lavoro, sia ritmico che dal punto di vista prettamente chitarristico.
Con “Who Am I?” veniamo sorprendentemente catapultati in territori NWOBHM e la cosa non mi dispiace affatto, il songwriting del chitarrista Salvo Vecchio denota una notevole cultura musicale; al contrario dei primi quattro brani la Country Rock “Take a Ride” non mi convince più di tanto così come ho trovato superflua la brevissima strumentale “A Drink at the Village”.
Scorre piacevolmente l’ottima cover dei Beatles “Come Together” un grande classico, qui indurito ed elettrizzato a dovere mentre con “Inner Breath” gli Ivory presentano uno dei brani migliori del disco, una canzone più tipicamente Metal rispetto alle altre, molto evocativa e ben costruita.
La ballad del disco è la malinconica e nostalgica “Through Gloria’s Eyes”, episodio semiacustico e riflessivo del disco davvero raffinato in cui si possono cogliere alcune sfumature progressive del songwriting della band; infine con la conclusiva “Blues for Fools” sembra di assistere ad una jam session tra Led Zeppelin e Deep Purple, gli amanti di queste sonorità rimarranno estasiati!
Alla luce di quanto scritto credo ci sia ben poco da aggiungere: chiunque viva di pane, Hard Rock, Blues e gruppi come Deep Purple, Whitesnake, Led Zeppelin, Van Halen, Rainbow, Mr. Big ed altri, farebbe bene a non farsi sfuggire questa raggiante band tricolore.
Come voto non posso che assegnare un 7 pieno (il nostro Allaroundiano 3,5) a questo disco che ci regala una mezzoretta ricca di pathos e buona musica, avanti Ivory sono in attesa di vostre nuove “Good News”!
Ultimo aggiornamento: 26 Mag, 2016
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Bene, qui siamo in presenza di una band tra le più storiche della NWOBHM, anche i meno esperti del genere avranno sicuramente sentito nominare, o letto da qualche parte il nome “Vardis” affianco a quello dei Maiden, dei Saxon, degli Angel Witch, dei Tygers of Pan Tang, dei Diamond Head, dei Raven, dei primissimi Def Leppard e via dicendo.
Il valore ed il contributo storico di questa band al movimento inglese dei primissimi anni ’80 è difficilmente opinabile nonostante un numero abbastanza limitato di dischi pubblicati: i Vardis infatti annoverano nella loro discografia una manciata di Ep, solamente tre studio album ed uno storico Live nel 1980.
Dopo trent’anni esatti dalla loro ultima apparizione discografica (Il disco “Vigilante” del 1986) torna il trio capitanato dal leader Steve Zodiac, a pochi mesi dalla perdita del bassista Terry Horbury; i Metalheads più attempati ed amanti della storica band britannica sanno già cosa aspettarsi, ma i più giovani?
Dunque,senza inutili giri di parole i Vardis suonano un genere che già nel lontano 1983 era considerato superato ed anacronistico, ma data l’importanza del ritorno non si può prescindere un’analisi dettagliata della musica contenuta in questo “Red Eye”.
La canzone che da il titolo all’album parte con un riff oscuro che porta con se un mood molto malinconico venato di tinte Blues, quasi Sabbathiana se non fosse per la voce ben riconoscibile di Steve Zodiac, un buon inizio per essere mancati dalla scena da più di 30 anni.
La successiva “Paranoia Strikes” scelta come videoclip promozionale del disco, si basa su di un unico riff sempre molto Bluesy che a tratti mi ha ricordato gli Status Quo ed i Deep Purple d’annata, con “I Need you Now” veniamo trasportati in un’atmosfera briosa e senza tempo di fine anni ’70 mentre “The Knowledge” molto simile alla canzone precedente, potrebbe esserne il continuo, molto efficace l’assolo a metà brano.
Dopo un paio di canzoni meno convincenti (“Back to School” sembra uscita dalla penna di Elvis) ecco giungere forse il pezzo migliore del disco, tal “Jolly Roger” che già dal titolo si preannuncia importante: una cavalcata NWOBHM accompagnata dalla voce convincente di Zodiac tesse delle trame epiche, confezionando finalmente un brano di puro Heavy Metal.
“Head of the Nail” scorre via lasciando ben poche tracce mentre “Hold Me” è una canzone tipicamente Southern”sia nella struttura che nel sound tuttavia non convincendo oltremodo; per ritrovare una canzone convincente e dotata di una certa potenza dobbiamo aspettare “200 M.P.H”, ideale seguito della storica “100 M.P.H” presente nel loro Ep di debutto del lontano 1979, energica e molto Live-Oriented grazie al lungo e coinvolgente assolo.
L’edizione a me pervenuta ricomprende anche due imperdibili Bonus Tracks presenti nella versione digipack: la storica “Living Out of Touch” presente sul Live Album “100 MPH” del 1980, brano per certi versi accostabile allo stile dei colleghi Saxon, e “200 M.P.H.(Reprise)” versione sostanzialmente più breve, senza cantato ed “improvvisata” della decima traccia del disco.
Sinceramente per questo disco dovrei avere due parametri differenti di valutazione, per i loro sostenitori accaniti il voto sarebbe di 5/5 ma io trovandomi in una situazione di imparzialità, non posso che assegnare una piena sufficienza a questo gradito ritorno discografico.
Ultimo aggiornamento: 22 Mag, 2016
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Quando si nominano gli Assassin i Thrashers più incalliti drizzano sempre le antenne: verso la fine del 1986 fece clamore il loro debutto “The Upcoming Terror” che presentò alla scena Thrash dell’epoca questa giovane band tedesca pronta all’attacco come il carro armato della fantastica copertina; un annetto e mezzo dopo la band licenziò il meno entusiasmante “Interstellar Experience” salvo poi sciogliersi nel 1989 in seguito al furto di tutta la loro strumentazione.
Gli assassini di Dusseldorf tornarono poi sulle scene con il disco della reunion “The Club” del 2005 ed il penultimo “Breaking the Silence” del 2011, dischi dignitosi che non fecero tuttavia gridare al miracolo; eccoci dunque ai nostri giorni esattamente cinque anni dopo a discutere del loro quinto disco: “Combat Cathedral”.
Prima di analizzare nel dettaglio la musica contenuta in questa release, si ravvisa come la novità più rilevante sia il cambio del cantante: lo storico screamer Robert Gonnella è stato infatti rimpiazzato dal feroce Ingo “Crowzak” Bajonczak, dotato di una voce completamente diversa; allo scream acuto quasi Hardcore di Gonnella, la band è passata alla voce più compatta e potente del nuovo arrivato.
I fan di vecchia data stiano tranquilli in quanto le due asce della band sono vive e vegete, sin dalla opener “Back from the Dead” il riffing di Michael Hoffmann e Jurgen Scholz è riconoscibilissimo e più violento che mai, echi degli Slayer del nuovo millennio durante il ritornello per un inizio di album davvero considerevole.
La breve “Frozen Before Impact” scorre via piacevolmente senza troppe pretese, mentre la terza “Undying Mortality” presenta alcuni elementi più moderni rispetto al classico sound degli Assassin, qualcosa di accostabile ai vari The Haunted, Terror 2000, Dew-Scented ecc. per intenderci; tuttavia gli Assassin possono fare di meglio!
Ecco infatti arrivare la violentissima “Servant of Fear” introdotta da un arpeggio minaccioso che lascia presagire un assalto frontale, anche qui gli assassini di Dusseldorf picchiano davvero duro regalandoci un ritornello in clean vocals che entra in testa sin dal primo ascolto.
“Slave of Time” ci travolge come un carro armato in corsa lasciando intravedere qualche somiglianza con i Testament di metà e fine anni ’90; la voce del nuovo singer in alcuni tratti ricorda quella di Chuck Billy; la seguente “Whoremonger” parte con un killer Thrash riff che in occasione del ritornello assume dei connotati quasi Black Metal, questo brano sicuramente è tra i highlights del disco.
Per una “Cross the Line” troppo Pantera-Oriented che non entusiasma, arriva una “What Doesn’t Kill Me Makes Me Stronger” che non lascia prigionieri: aperta da un inserto di un discorso di Cyrus dal film “I Guerrieri della Notte” prosegue con un arpeggio molto evocativo che mi ha ricordato gli Xentrix più oscuri ed introspettivi di “Kin”, salvo poi assestarsi su un ritmo velocissimo quasi Hardcore.
Anche “Ambush” può racchiudersi tra i migliori pezzi del disco, velocissima, efficace e Slayeriana al 100% con il suo ritornello urlato con estremo odio, un brano che sembra uscito da “Reign in Blood”; “Word” è sulla falsariga della precedente ma annoia, le cose migliorano leggermente con la perversa “Sanity from the Insane”.
Con la conclusiva “Red Alert” gli Assassin sorprendono l’ascoltatore destinando alla chiusura del platter uno dei migliori, se non il migliore episodio di questo “Combat Cathedral”; gli effetti sonori iniziali su di un mid-tempo misterioso conferiscono a questo brano una struttura diversa in cui il cantato filtrato di Ingo rende le linee vocali più variegate al di là del solito attacco senza fronzoli.
Che dire? Negli anni ’80 gli Assassin sono stati un gruppo di culto per gli amanti del Thrash Teutonico e non sarà di certo questo nuovo album a renderli più appetibili alle masse, bisogna tuttavia riconoscere alla band una rinnovata freschezza ed un’ispirazione ancora notevole.
L’innesto del nuovo singer, sebbene io preferisca lo stile di Gonnella, ha certamente portato una ventata di rinnovamento alla band; gli amanti del genere non esitino a procurarsi questo discreto disco che con due o tre canzoni in meno, avrebbe preso un voto sicuramente più alto.
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Oramai è assodato, il Thrash Metal in Europa può tranquillamente considerare Atene come una delle nuove capitali del genere: il capoluogo dell’Attica infatti è città natale di una moltitudine di promettentissime band che stanno venendo allo scoperto prepotentemente negli ultimi anni.
Non fa eccezione il quintetto degli Endless Recovery, formatosi nel 2011 con una cadenza discografica abbastanza regolare e proficua: l’esordio ufficiale è l’Ep “Liar Priest” del 2012, a cui ha fatto seguito l’anno dopo il Full-length “Thrash Rider”, l’Ep “Resistance Bangers” del 2014 e questo ultimissimo “Revel in Demise” uscito in prossimità delle festività Natalizie.
La band suona un Thrash/Black Metal devotissimo agli indimenticati anni ’80 senza tralasciare alcune venature Speed, specialmente per quanto riguarda gli assoli davvero ben eseguiti dal solista Apostolos Papadimitriou; la voce del cantante Mihalis Skliros è totalmente incentrata su di uno screaming abbastanza particolare e personale, senza tuttavia tralasciare alcuni acuti in determinati momenti del disco.
Le influenze di questa band sono i Kreator dei primi due dischi ed i Destruction (nello specifico lo stile di quel capolavoro insuperabile intitolato “Eternal Devastation”); è importante sottolineare che molti dei brani si reggono su dei riff completamente Black Metal, tuttavia il drumming molto variegato, la superba padronanza degli strumenti ed una non comune capacità compositiva riescono ad intrattenere l’ascoltatore senza problemi lungo i 42 minuti di durata del disco.
Dando uno sguardo più approfondito al cd, ad una breve strumentale segue la violentissima title track in cui i ritmi rallentano solo in occasione del ritornello, un inizio efficace che annichilisce l’ascoltatore; l’assalto sonoro prosegue inesorabile con la successiva “Reaping Fire” di cui la band ha realizzato anche un videoclip, ottimi i numerosi cambi di tempo ed alcune parti di basso davvero ben rifinite.
Terremotante “Storming Death” perfetto connubio tra Speed & Black Metal, impreziosita oltremodo da un riff davvero ottimo ed alcuni acuti del cantante difficili da dimenticare, forse il miglior brano del disco; “Leather Militia” parte sulla falsariga degli Exciter più veloci salvo poi assestarsi su di un un riffing tipicamente Black Metal; posso solo immaginare dal vivo la carica esplosiva di questa canzone molto ‘80s.
Il trio “Trapped in a Vicious Circle”, “Blood Countess” e “Hypnos” vede la band estremizzare ancora di più il proprio sound avvicinandosi a quel Black Metal primordiale di fine anni ’80; mentre con “Evoke Perdition” il Thrash torna ad indirizzare prepotentemente lo stile dei cinque ateniesi, una song che non sfigurerebbe in un disco come “Pleasure to Kill”.
La conclusiva “Lurking Evil” pone il sigillo finale in maniera più che degna consegnando ai posteri un disco davvero notevole: un’affermazione molto forte la mia, in quanto preferendo una tipologia diversa di Thrash Metal, ho apprezzato davvero molto questo disco riconoscendo in maniera imparziale l’altissima qualità presente in “Revel in Demise”.
Lo stile anacronistico e romanticamente “Vintage” degli Endless Recovery non intacca minimamente il loro lavoro data l’elevatissima qualità compositiva e tecnica di questa giovane band ellenica.
Che dire: tra Suicidal Angels, Chronosphere, Mentally Defiled, Bio-Cancer ed Exarsis la Grecia con questi Endless Recovery assesta un ulteriore colpo alla scena Thrash Metal del vecchio continente.
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Ormai è assodato, il Metal ellenico sta invadendo il mercato!
A parte gli scherzi, gli Ateniesi Alphastate fondati nel 2014 giungono abbastanza rapidamente all’esordio discografico senza aver pubblicato precedentemente alcun demo o Ep; questo “Out of the Black” consta di nove brani più una outro strumentale e presenta una band che pretende di essere moderna e tradizionale allo stesso tempo.
Nella Bio leggo tra le influenze: Steelheart, Black Label Society, Ozzy Osbourne, Brainstorm, Primal Fear e Pantera per citarne alcune, gli allegati biografici talvolta sono fuorvianti in quanto di Pantera, Steelheart e Black Label Society ho sentito ben poco.
La opener nonché title track è un ottimo brano: grintoso e potente al punto giusto, il riffing è devastante ed anche le linee vocali sono molto personali bilanciando con un’ottima melodia la pesantezza del brano, da menzionare l’ottimo assolo finale durante un’accelerazione Thrash: un ottimo inizio.
Con “Last Day” il riffing si fa ancora più pesante ed a mio avviso risulta molto influenzato da quel sottovalutato chitarrista di nome Roy Z, artefice della resurrezione artistica di Bruce Dickinson verso la fine degli anni ’90, brano sulla falsariga del precedente ma meno entusiasmante.
Con la successiva “Don’t Look Back” le somiglianze con la carriera solista di Bruce Dickinson aumentano pericolosamente e sembra di sentire un brano scartato da “Tyranny of Souls”, il pezzo non è male ma il tasso di personalità degli Alphastate qui rasenta lo zero.
La quarta “Before the Soul Departs” è indubbiamente uno dei highligths del disco, molto ottantiana grazie al cantato durante alcuni episodi arpeggiati, ovviamente anche qui il singer Manos Xanthakis rincorre (con successo per essere onesti) lo stile Dickinsoniano degli ultimi quindici anni.
Purtroppo con la successiva “Great Divide” le cose peggiorano, il sound “Bruce Dickinson meets Brainstorm” comincia a diventare davvero irritante e con la successiva “Road to Hell” la musica non cambia, avrebbero fatto meglio a coverizzare l’omonima canzone presente su “Accident of Birth” del 1997…
Con “World’s Control” la situazione migliora, gli Alphastate ora si mettono a fare il verso a Queensryche e Savatage ed il cantante fortunatamente si cimenta in un cantato leggermente più personale rispetto ai brani precedenti; sorvolando l’anonima “Only Chance” giungiamo all’ultimo pezzo vero e proprio: “The System” veloce e concisa, qui gli Alphastate uniscono la potenza di band come Iced Earth e Brainstorm con un tocco leggermente più progressivo, il cantante si distacca dai canoni Dickinsoniani regalandoci una prestazione decisamente più personale; davvero un bel brano, qui alzo le mani!
La simpatica outro “The End?” presenta degli arpeggi malinconici molto riusciti, sembra di sentire alcuni episodi melodici di chiara scuola “Alex Skolnick”.
Che dire? Gli Alphastate tecnicamente e compositivamente parlando sono ineccepibili, tuttavia per lunghi tratti del disco vi sono lacune di personalità imperdonabili ai limiti del plagio, le capacità e le potenzialità ci sono tutte: suggerirei ai ragazzi di continuare sulla strada di brani come la title track, “World’s Control” e “The System”; nel frattempo disco consigliato a chi non riesce a dormire la notte pensando che l’ultimo lavoro solista di Bruce Dickinson (Tyranny of Souls) sia datato 2005…Rimboccatevi le maniche Alphastate!
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Chi non muore si rivede! Già da un annetto e mezzo si sono riformati gli storici Sacrilege, inglesi di Birmingham; le tracce del quartetto inglese capitanato dalla energica Lynda “Tam” Simpson si erano perse nel lontano 1990 in seguito alla realizzazione di tre album ed alcuni demo intercorsi tra un disco e l’altro.
La Relapse Records non si è fatta sfuggire l’occasione di ristampare il loro debut album “Behind the Realms of Madness” datato 1985, fino ad oggi non facilmente reperibile sul mercato.
L’esordio in questione viene presentato in una veste completamente rinnovata: oltre una copertina nuova di zecca, alle sei tracce originarie si aggiungono tre brani tratti dal loro demo del 1986, altri due registrati nel 2015, infine due tracce live registrate durante un concerto del 1986 tenutosi a Leeds.
Nonostante abbiano inciso solamente tre dischi i Sacrilege hanno fatto dell’innovazione e del cambiamento le loro bandiere, questo “Behind the Realms of Madness” presentava infatti delle composizioni molto grezze, rabbiose e violente, accostabili ad un misto di Thrash, Punk, Crust ed Hardcore; il successivo “Within the Prophecy” era teso verso alcune forme più tradizionali di Thrash Metal in voga in quegli anni, mentre il loro ultimo full-length “Turn Back Trilobite” presentò una band intenta ad abbandonare le sonorità più veloci in favore di un Doom Metal decisamente originale a causa delle vocals femminili della Simpson.
Senza alcun dubbio questo disco d’esordio presenta delle composizioni meno rifinite e più grezze rispetto agli episodi successivi della band, perfino la voce della cantante, qui totalmente impostata sulla furia cieca e sulla totale assenza di grazia e melodia, negli altri due album cercherà una sorta di maggiore “orecchiabilità”.
All’epoca presentare una cantante donna in un genere poco adatto alle vocals femminili fece dei Sacrilege dei pionieri e Lynda si dimostrò totalmente a proprio agio nel dirigere l’assalto sonoro della band grazie alla sua sfrontata attitudine punk; complici le lyrics crude su temi scottanti (violenza, crudeltà, guerra, disuguaglianze sociali ecc) i Sacrilege sciorinano un assalto sonoro considerevole per quegli anni; i brani non presentano delle sostanziali differenze l’uno con l’altro e nonostante questo possa sembrare un difetto, l’atmosfera del disco rimane plumbea dall’inizio alla fine non annoiando oltremodo l’ascoltatore.
In dischi come questo sarebbe inutile e controproducente fare un track by track, una menzione particolare va al geniale e costante riffing del chitarrista Damian Thompson che trova la sublimazione nella conclusiva “Out of Sight, Out of Mind”.
Le canzoni del demo sono dei meri riempitivi trovandosi nel successivo “Within the Prophecy” mentre le nuove registrazioni “Feed” e “Dig your Own Grave” (quest’ultima presente nel primo demo della band) presentano una produzione più pulita com’è giusto che sia una trentina d’anni dopo, il marchio della band tuttavia è immutato e la voce della Simpson è ancora più energica e convincente, la qualità proposta fa ben sperare per il futuro; le canzoni dal vivo non hanno altra funzione che quella di testimoniare l’attitudine live del gruppo.
In definitiva sebbene io preferisca gli episodi successivi della loro discografia, consiglio senza remore questo disco a chi desidera scoprire le radici di certa musica estrema sviluppatasi negli anni successivi (Napalm Death, Bolt Thrower, ecc).
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Recensire uno dei propri gruppi preferiti è un compito ingrato: a volte si rischia l’imparzialità oppure un eccessivo entusiasmo o delusione, eccomi dunque a recensire il fresco di stampa “XI” dei grandi Metal Church, band che per il sottoscritto rappresenta una vera e propria istituzione del genere più puro che ci sia.
Tralasciando la storia più remota della band (chi non conosce storia e discografia della band farebbe bene a provvedere) ed i primi cinque storici dischi con alla voce prima il compianto Wayne e successivamente Howe, mi concentrerò sulla fase relativamente recente della band.
Dopo la reunion del 1999 con Wayne alla voce, la band diede alla luce il non esaltante “Masterpeace” mentre dal 2004 in poi alla voce ci fu Ronny Munroe, ottimo cantante ma completamente inadatto a creare determinate atmosfere oscure maggiormente consone allo stile della “Chiesa Metallica”; con Munroe alla voce la band ha pubblicato dei dischi altalenanti alternando ottime composizioni ad episodi piuttosto banali; di certo il penultimo “Generation Nothing” del 2013 trovo sia stato un gran bel disco.
Il ritorno di Mike Howe ha destato un rinnovato interesse nei confronti di questa leggendaria ma sottovalutata band statunitense, nel recensire questo disco cercherò di non commettere lo stesso errore di alcuni colleghi scribacchini: valuterò “XI” tenendo ben presente che siamo nel 2016 in una scena musicale profondamente mutata rispetto al magico terzetto dei dischi con Howe: “Blessing in Disguise”, “The Human Factor” e “Hanging in the Balance”.
Si parte dunque con “Reset”, un ottimo brano di apertura: veloce, potente ed incisivo; ovviamente non siamo ai livelli di una “Ton of Bricks” ma questo pezzo funziona maledettamente bene e Mike Howe sembra non aver perso lo smalto dei tempi andati; parimenti sorprendente è la prestazione vocale su “Killing Your Time”, brano se vogliamo ordinario ma impreziosito oltremodo dalla voce evocativa del ritrovato singer.
La terza “No Tomorrow” la conoscerete un po tutti grazie allo spettacolare videoclip che ha fatto da traino all’album: trattasi di un brano davvero all’altezza dei vecchi classici, un lavoro certosino è stato fatto sia negli arrangiamenti strumentali che nelle linee vocali interpretate magnificamente da Howe, sicuramente uno dei brani migliori ascoltati in questo primo scorcio di 2016!
I ritmi (ma non la qualità) rallentano con le successive “Signal Path” e la doomy “Sky Falls In”, canzoni più lunghe e meno immediate che necessitano numerosi ascolti per venire apprezzate appieno, mentre con la thrashy “Needle & Suture” i ritmi aumentano nuovamente e Howe non smette di stupirci positivamente grazie alla voce graffiante ed abrasiva, sembra che il tempo si sia fermato e tale impressione è confermata dalla successiva “Shadow” accostabile ad alcuni episodi di “Hanging in the Balance”.
Se proprio vogliamo trovare qualche riempitivo in questo disco allora dobbiamo convergere sulle sottotono “Blow your Mind” e “It Waits” mentre “Soul Eating Machine” si salva nettamente da questa catalogazione grazie alla superlativa prova dell’ineccepibile Howe.
Infine arriviamo all’undicesimo brano, tale “Suffer Fools”, qui sono stravolto e strabiliato: trattasi del migliore del disco, un capolavoro vero e proprio che non sfigurerebbe neanche in quel “Blessing in Disguise” da me considerato tra i migliori Lp Heavy Metal mai prodotti.
Cosa dire quindi giunti a questo punto? Ebbene è qui che entra in gioco la responsabilità di un recensore che prende sul serio il proprio compito di informare ed indirizzare il lettore: spogliandomi di tutto l’entusiasmo scaturito da più di dieci giorni di ascolti ripetuti vi dirò con il cuore in mano che questo “XI” non raggiunge i livelli dei primi cinque magici dischi che dal 1984 al 1993 hanno segnato in maniera indelebile il nostro genere prediletto.
Tuttavia questo disco è sicuramente il migliore tra gli ultimi sei, musicalmente è la prosecuzione ideale del discorso interrotto bruscamente dopo il sottovalutatissimo “Hanging in the Balance” e la prestazione vocale di Mike Howe aggiunge non pochi punti al valore finale di questo cd.
Considerando che i brani presenti su “XI” sono stati scritti prima del ritorno di Howe, credo e spero che l’ispirazione successiva ad un tour in cui la band avrà il tempo di amalgamarsi maggiormente, non potrà che giovare.
Quindi perché non premiare quest’album fossilizzandosi su un inutile e dannoso paragone con un passato troppo perfetto per essere bissato alla leggera dopo così tanti anni? Questi sono i Metal Church del 2016, tornati in campo con il loro mix tra Heavy classico, Thrash e Power/Speed di chiaro stampo statunitense, tinto di atmosfere sinistre ed oscure.
Trovatemi altre band storiche dello stesso genere che sono su questi livelli oltre gli Armored Saint, trovatemi altresì gruppi attuali che presentino brani eccellenti come i primi tre o la conclusiva “Suffer Fools” e sarò lieto di rivedere la mia valutazione; fino ad allora il mio voto per questo disco sarà alto.
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Arriva dalla Bavaria il quartetto autodefinitosi Thrash’n’Roll dei Deathless Creation, certamente una compagine totalmente concentrata sulla musica piuttosto che sull’immagine; la band fondata nel 2012 dopo il demo “Insanity” dello stesso anno ed un Ep autoprodotto nel 2013 “Endless Source of Power”, ci presenta questo “Thrash’n’Roll” licenziato per conto dell’etichetta Timezone Records.
Il loro motto è “Apertura Mentale” ed il genere proposto nelle dodici tracce di questo full-length d’esordio è un mix tra Thrash Metal, Groove Metal, Hardcore, Street Metal, Stoner e chi più ne ha più ne metta; la copertina è davvero carina e di grande impatto, lodevole anche la scelta di includere i testi ed uno sticker della band.
La opener “Stigma of Degeneration” è senza alcuna esitazione la Thrash song più ordinaria e tradizionale in questo cd: velocità e pesantezza per un assalto frontale che mi ha ricordato i loro connazionali Sodom del periodo “Better Off Dead”; questa canzone si presta alla perfezione anche come opener nei loro live incitando il pubblico presente al pogo selvaggio.
Purtroppo seguono una manciata di canzoni non esaltanti in cui la band sembra voler dimostrare in maniera forzata di essere moderna ed innovativa ad ogni costo unendo più influenze tra loro: immaginate un mix tra Pantera (il cantante Benne Rommel trae decisamente ispirazione da Phil Anselmo), Anthrax del periodo Bush, Monster Magnet, Sodom, Entombed di fine anni ’90, Metallica ed Alice in Chains; un bel pastrocchio insomma!
La traccia numero 5 “King of the Lonesome Riders” scelta come singolo apripista dell’album è un gran bel brano di Street Metal anni ’80, coinvolgente, trascinante e dotato di un ritornello che rimane marchiato sin dal primo ascolto; con “Break the SIlence” si torna sullo stile Anthrax/Metallica di metà anni ’90 con risultati comunque abbastanza gradevoli.
Avanzando nell’ascolto non posso non notare come il riff portante di “Endless Source of Power” sia praticamente quasi identico a quello di “Mouth for War” dei Pantera, mentre col decimo pezzo del cd, tale “Escape the Prison” siamo in presenza di un altro tra i migliori del platter, molto particolare grazie al ritornello fantasioso e convincente in cui il produttore Vagelis Maranis affianca Rommel nel chorus.
Gli ultimi due brani “I Am the Devil” e “The Last War” si attestano sulla sufficienza senza brillare più di tanto.
In conclusione credo che i Deathless Creation abbiano grandi potenzialità; a mio avviso dovrebbero effettuare una scelta marcata su quale strada e quale genere proporre in futuro, mischiare in un album canzoni quasi Street/Rock’n’Roll con brani più marcatamente Thrash può disorientare l’ascoltatore meno open minded; una linea univoca da seguire è la soluzione più semplice per far si che questa giovane band raggiunga una discreta notorietà anche fuori dalla Germania.
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Il Canada è terra di grande tradizione Metal, sarà probabilmente il clima ma questa nazione ha sempre partorito gruppi di ottima qualità e soprattutto non banali; questi Titans Eve non fanno eccezione; da me ignorati fino ad ora, in virtù di questa recensione sono venuto a conoscenza che questo “Chasing the Devil” è il loro terzo disco, dopo l’esordio “The Divine Equal” del 2010 e “Life Apocalypse” del 2012; la giovane band in pochi anni ha saputo guadagnarsi una discreta notorietà nel Nord America che li ha portati a suonare con compagini ben più famose come: Diamond Head, Anvil, Arch Enemy, Raven e Soulfly.
Il mastering del disco in questione è stato curato nientedimeno che dal poliedrico Jeff Waters, mastermind degli Annihilator nonché loro connazionale, date le credenziali l’aspettativa in me è stata alta.
Già dall’apertura con “We Defy” capisco che la band in questione etichettata semplicemente come Thrash Metal, in verità è qualcosa di più; un groove pesantissimo è costantemente accompagnato da alcune melodie di chitarra di chiaro stampo NWOBHM che impreziosiscono il tutto; la voce di Brian Gamblin è potente ed evocativa e pur essendo piuttosto monocorde risulta perfetta nelle linee vocali costruite in questo brano (e come vedremo anche in quelli seguenti).
La seconda “Warpath” segue dei binari più tradizionalmente Thrash, l’influenza dei Testament qui è molto marcata, ma basta meno di un minuto e i Titans Eve si smarcano come anguille da qualsiasi facile omologazione regalandoci dei ritornelli intensi degni degli In Flames di inizio anni 2000; notevole anche l’accelerazione finale ed i fraseggi di chitarra davvero ispirati dei fratelli Gamblin.
Celestiale e rilassante è l’inizio di “No Kingdom”, salvo poi esplodere dopo una cinquantina di secondi in un attacco frontale non privo di qualche influenza TechnoThrash in cui ogni tanto fanno capolino i soliti fraseggi Maideniani, questo brano a differenza dei precedenti è meno incentrato sul ritornello e più sulla struttura complessiva mentre le armonizzazioni finali pagano dazio alla colossale influenza dei Metallica di “Master of Puppets”.
La successiva “Another Day” è sulla falsariga di “No Kingdom”, nulla da eccepire sul lato tecnico ed esecutivo, ma in questo brano affiora qualche calo di attenzione; il rischio noia per fortuna viene subito spazzato via dalla title track, semplicemente geniale riuscendo ad unire tutte le influenze della band: Iron Maiden, Metallica, Testament, In Flames, Trivium, Avenged Sevenfold, Paradise Lost, Machine Head e giù di li.
Il minaccioso giro di basso introduce la groove “The Grind” song tanto lenta quanto pesante nel suo incedere, decisamente un discreto brano a cui segue l’evocativa strumentale “Stranded” che la funzione di rilassare ed accompagnare l’ascoltatore verso l’ultimo brano del disco, tal “The Endless Light” terremotante al punto giusto, una degna canzone di chiusura che lascia l’ascoltatore positivamente impressionato.
Inutile rimarcare quanto io sia stato positivamente colpito da questo disco, i Titans Eve riescono ad unire perfettamente tradizione ed innovazione senza risultare banali o plastificati; tuttavia mi chiedo due cose: la prima è com’è possibile che questo cd, assieme a molti altri arrivati ultimamente sia un’altra autoproduzione, davvero le case discografiche dormono o sono impegnate a produrre l’ennesimo side project di Pinco Pallino oppure i soliti cloni?
Seconda domanda: ma perché questi Titans Eve in Italia non se li fila nessuno?
Spero con la mia recensione di invertire questo trend.
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