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Opinione scritta da Marco Doné

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Opinione inserita da Marco Doné    02 Gennaio, 2014
Ultimo aggiornamento: 02 Gennaio, 2014
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Dopo due Ep autoprodotti arriva il meritato contratto per i finlandesi Nicumo ed il conseguente disco di debutto intitolato “The End Of Silence”. La proposta della band finlandese è in bilico tra rock e metal e mette in primo piano la melodia. Dal disco traspare un'anima cupa, riflesso dei testi delle dieci tracce che compongono “The End Of Silence”. Quella melodia di cui parlavamo all’inizio è infatti tutt’altro che happy e punta a toccare le corde più profonde dell’animo. In più di qualche frangente, nelle parti più metal oriented, mi sono tornate alla mente certe cose dei Sentenced e dei primi Poinsoblack, chi ha amato quelle bands resterà facilmente ammaliato da questo debutto dei Nicumo. Un disco in cui l’unica pecca è quella di esser forse troppo omogeneo, manca una certa imprevedibilità o quella canzone che sappia veramente fare la differenza. Sia chiaro le canzoni ci sono e sono molto ben strutturate, trovano la loro forza nei ritornelli che risultano sempre ben studiati, interessanti sono anche le melodie di chitarra sia in pulito che in distorto. Ed è un peccato che a canzoni dalle elevate potenzialità come “Firestorm” o “Lines Drawn By Tears” venga loro tirato il freno a mano da qualche passaggio che le rende troppo uniformi alle altre tracce del disco. Due parole vanno spese sulla voce di Hannu Karpinnen, alterna parti pulite a parti più aggressive. Sinceramente lo preferisco nelle parti pulite in cui può sfruttare al meglio le sua voce profonda, diventando più espressivo, donando il giusto “colore” alla canzone. Ascoltate il ritornello di “Firestorm” e capirete a cosa mi riferisco. Un debutto interessante quello dei Nicumo che lascia ben sperare per il futuro. Mette in mostra una band con le idee chiare a cui però manca ancora qualcosa per poter veder puntati su di sé i riflettori, la strada però è quella giusta…

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Opinione inserita da Marco Doné    30 Dicembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 30 Dicembre, 2013
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Come spesso accade, il music business non sempre premia le band più meritevoli. Lo sanno bene i Leatherwolf, autentica leggenda heavy metal americana degli anni ottanta. Tre dischi che, partendo dal più grezzo e diretto “Endangered Species”, portarono la band ad affinare la propria proposta arrivando alla pubblicazione dello splendido “Street Ready” del 1989, un disco che posso dire d’avere “mangiato” nel corso degli anni. La band non riuscì a raccogliere ciò che gli spettava e si sciolse poco dopo. Ritornarono sulle scene ad inizi 2000 con una formazione rinnovata e, dopo una serie di cambi di lineup, sfornarono “World Asylum” nel 2006 con il talentuoso Wade Black alla voce. Olivieri tornò poco dopo a riprendersi il posto dietro al microfono, il vero cantante dei Leatherwolf è lui, e con lo storico singer il disco venne ri-registrato totalmente ed intitolato “New World Asylum”. Da lì in poi la band continuò un intensa attività live senza però pubblicare altri dischi. Interrompe questa sorta di silenzio sul finire del 2013 pubblicando “Unchained Live”. La scelta di tornare sulle scene con un live dopo anni di silenzio può sollevare più di qualche dubbio, io speravo in una nuova release, ma così ha deciso la band e dobbiamo prenderne atto. Il live è prodotto dalle sapienti mani di Roy Z ed il risultato è notevole. Un suono che potrei definire cristallino, forse anche troppo curato, tanto che in certi momenti è come se venisse meno quella carica, quel pathos, tipico dei live. Diciamo che ha più un sapore di best of che di vero e proprio disco dal vivo. Nove tracce compongono questo “Unchained Live” più una bonus track, la terremotante strumentale “Black Knight”, una delle mie preferite di sempre. Si pesca a piene mani dallo strepitoso “Street Ready”, ben quattro tracce più la succitata bonus track. La band dimostra di saperci fare e sembra quasi più a suo agio nelle parti più veloci in cui può “picchiare duro”. Olivieri si dimostra in gran forma e regala un ottima prestazione vocale. Da sempre la forza dei Leatherwolf è concentrata nelle chitarre, riffing trascinante ed una solistica “da paura”. La nuova coppia di chitarristi, composta da Rob Math e Greg Erba, riesce nel non facile compito di non far rimpiangere la coppia storica targata Gayer – Howe. Ora che la formazione è nuovamente stabile e l’entusiasmo sembra esser rinato in casa Leatherwolf non rimane che attendere un nuovo full length. Per i fan di vecchia data come il sottoscritto, questo “Unchained Live”, placherà “la sete” per poco tempo…. Chi invece non conoscesse ancora il nome Leatherwolf non si faccia scappare questo live, scoprirà una band il cui nome è sinonimo di leggenda….

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Opinione inserita da Marco Doné    26 Dicembre, 2013
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Arrivano da Genova i DarkUpside e questo “A Taste Of Unknown” è il loro disco di debutto che esce come autoproduzione. La proposta della band è molto ambiziosa, sia per quanto riguarda il lato prettamente musicale, sia per il concept che viene sviluppato nelle dieci tracce che compongono questa prima fatica della band genovese. Il concept tratta un esperienza pre – morte ed ogni capitolo del disco analizza le fasi di quest’ esperienza, un esperienza che modifica l’esistenza di una persona nel suo profondo. Con un concept per nulla banale come questo, ovviamente anche la proposta musicale è un qualcosa che va lontano anni luce dalla banalità. Ed infatti ci troviamo di fronte ad un mix sonoro di prog ed alternative, un mix sonoro che richiede più di qualche ascolto per esser capito ed apprezzato. Le influenze più marcate che troviamo durante i dieci capitoli di questo “A Taste Of Unknown” sono Rush, Procurpine Tree, Fates Warning e Foo Fighters, quattro nomi che credo possano ben rendere l’idea su come vada approcciato questo debut album. Troviamo anche elementi che posson ricondurre ai Dream Theater, in particolare in “Unbearable Noise”, ed in alcune tracce fanno capolino inserti d’elettronica. Difficile riuscir a parlare d’una canzone rispetto ad un altra, il disco ha il pregio d' andare fuori dagli schemi senza però annoiare l’ascoltatore e riuscire invece a catturarlo ascolto dopo ascolto. Le composizioni sono mature ed in esse il terzetto genovese mette in mostra tutto il suo estro, trovando, a mio avviso, l’apice nella strumentale “Come Back”. Una trama intricata che cattura dal primo ascolto grazie a delle affascinanti melodie che rendono più accessibili i vari passaggi. La scelta dei suoni premia la chitarra di Diego Cazzaniga ed il basso di Davide Di Marco, mentre, a mio avviso, poteva esser curato meglio il suono della batteria di Davide Incorvaia. Se i DarkUpside fossero stati americani una parte del mondo metal avrebbe trovato la nuova sensation da seguire, purtroppo per loro i DarkUpside sono italiani e sono obbligati ad uscire con un autoproduzione. A buon intenditor....

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Opinione inserita da Marco Doné    22 Dicembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 22 Dicembre, 2013
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Esce autoprodotto il disco di debutto dei tedeschi Booze Control. Sorprende che un disco di tal fattura non sia riuscito ad attirare l’attenzione di qualche label… Il disco si intitola “Heavy Metal” e già dalla sua copertina capiamo cosa ci dobbiamo aspettare dal quartetto tedesco. Facendo play al lettore veniamo travolti da del puro heavy metal tedesco anni ottanta! Per esser un'autoproduzione il suono è estremamente curato, produzione pulita, chitarre ben presenti, una batteria che suona anni ottanta. Un prodotto che, pur non dicendo nulla di nuovo, offre e fa trasparire nelle dieci tracce che lo compongono qualità, convinzione e passione. Il disco si apre con “The Night Of The Drinking Dead”, canzone dai chiari riferimenti acceptiani ed un testo estremamente ironico, un ironia presente su tutta la durata del disco. Tocca poi a “Thunder Child” in cui questa volta le influenze riportano alla mente i migliori Running Wild. La voce di David Kuri sembra seguire la lezione di Kai Hansen nel periodo Helloween, soprattutto per come usa i falsetti. “Strike The Earth” richiama in causa nuovamente gli Accept ed inserisce qualche fraseggio di chitarra prettamente helloweeniano. Con “Outlaw” i riferimenti ai primi Blind Guardian son d’obbligo. Primi quattro pezzi ed abbiamo citato quattro tra le più importanti bands partorite dal suolo tedesco, può bastare per far capire come suona il disco? Se poi diciamo che in tutto il disco lo spettro di queste quattro band è più vivo che mai, capiamo facilmente che ci troviamo di fronte ad un piccolo gioiellino. Qualcuno potrà dire un gioiellino adatto forse per i nostalgici di certe sonorità, ma io rispondo dicendo che pur sempre gioiellino è!! I quattro tedeschi han ben presente il significato del termine “struttura canzone” e, come detto in precedenza, sebbene nelle varie composizioni sia facile capire quali siano per i Booze Control le influenze ed i riferimenti, restano ugualmente composizioni valide e convincenti. Un disco che sa entusiasmare in tutta la sua durata e, a mio avviso, trova il suo apice in “Swim With The Shark”, il pezzo più evocativo del disco. Peccato per qualche piccola sbavatura nell’arpeggio di chitarra. La traccia resta comunque il degno requiem del platter con un testo impegnato. Non fatevi scappare questo “Heavy Metal”, ottimo debutto marchiato Booze Control.

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Opinione inserita da Marco Doné    03 Dicembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 03 Dicembre, 2013
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“Metodo Paranoico – Critico” è il secondo lavoro degli Another Destiny Project, progetto molto articolato, sia per proposta musicale che per pensiero, del produttore / compositore / chitarrista triestino Peter Pahor. Da dove iniziare a parlare di questo disco? Proverei partendo dalle conclusioni post ascolto. Signori ci troviamo ad aver a che fare con un piccolo capolavoro, un prodotto di una personalità, freschezza, precisione, difficile da sentire e trovare in giro ai giorni nostri. Proviamo ad essere un po' più dettagliati. Come può essere definita la musica scritta dalla penna di Peter Pahor? Come un mix sonoro di prog, symphonic, industrial, goth, electro, ambient, il tutto riletto in chiave heavy metal. Un mix sonoro che affascina dal primo ascolto, un mix sonoro che invita ad attraversare un passaggio dimensionale che ci porta nel mondo di Pahor, passaggio dimensionale pronto a chiudersi dopo esser stato attraversato e farci prigionieri. Il disco, suonato interamente da Pahor, presenta una serie di ospiti e le canzoni sembrano quasi scritte in una versione personalizzata e dedicata al guest che vi partecipa, senza però snaturare il concetto base degli Another Destiny Project. Come se ci trovassimo di fronte ad un romanzo in cui il protagonista narra una serie di avventure attraverso dei racconti brevi, non necessariamente legati l’uno all’altro, ma in cui è facilmente riconoscibile il metodo di narrazione, il mondo ed il protagonista che le ha vissute. E così il disco si apre con la splendida “Insomnia II” in un mix tra metal ed electro, il cui solo si chiude con un richiamo a "Per Elisa" di Beethoven. “The Virus Of Illusion” può essere descritta immaginando d’unire alle sonorità dei Kovenant di “Seti” e “Animatronic” delle marcate aperture prog. E’ poi il momento di “Frozen In Time” in cui troviamo il primo ospite del disco, la cantante spagnola Susana C Marquez. Chitarra e voce in questa traccia, coadiuvate da delle splendide tastiere nel finale, in cui Susana regala una prestazione sentitissima. La troveremo ancora in “Others”, cantata in spagnolo. Canzone che definire geniale e trascinante è dir poco. Dopo un inizio che mi ha riportato alla mente i Lacuna Coil, ha un'articolata evoluzione tramite il sapiente uso delle tastiere. I tempi accelerano sul finale. Altra prestazione notevole di Susana. Ma come non nominare la title track che si apre con delle atmosfere che richiamano Il Segno Del Comando di “Der Golem” per poi esplodere in un'ottima traccia prog metal. Stupendo l’uso delle tastiere, tessono un tappeto sonoro da soundtrack. O la dark ambient “So Close To Heaven” con ospite la bravissima cantante portoghese Ana Axe. Ogni collaborazione diventa una piccola perla. Così la collaborazione con gli ucraini Explosion Technology crea una canzone che definire industrial soundtrack è quasi più facile che scriverne il titolo. Chitarra e tastiere creano atmosfere cupe ed ossessive. Altro pezzo da novanta è la strumentale “New 7” con la partecipazione di un altro “compositore pazzo”, Massimo Ghianda. Anche in questa traccia la componente soundtrack è marcata e fanno capolino echi di Goblin e atmosfere più sinfoniche. Un disco suonato con precisione e trasporto, un disco in cui mi ha esaltato la scelta dei suoni. Ogni strumento viene messo in luce quando lo deve essere. Un disco rivolto a chi ascolta la musica come arte e non si approccia ad essa con paraocchi da cui derivano solo preconcetti o classificazioni di genere. Gran lavoro questo secondo disco degli Another Destiny Project. “Metodo Paranoico – Critico”, per volere di Peter Pahor e per il concetto che sta alla base del progetto, lo potete trovare in free download alla pagina web della band.

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Opinione inserita da Marco Doné    02 Dicembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 02 Dicembre, 2013
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Quando mi è stato assegnato questo disco, la prima cosa che mi son chiesto è stata “ma perché un gruppo deve tagliarsi le gambe con un nome del genere?”. Si perchè la band si chiama Metal e mi sa tanto da autogol clamoroso. Arrivano dall’Australia questi Metal e propongono un heavy / epic metal dalle forti tinte europee in cui fanno capolino richiami ai Manowar. Il disco si presenta bene, copertina da urlo, buoni i suoni (volutamente retrò) così come, salvo qualche piccola sbavatura, la prestazione dei singoli. L’unico a non convincere a pieno è Razor Ray che si dimostra molto più a suo agio come bassista che come cantante. Infatti nelle parti vocali spesso è impreciso con il risultato di far perdere efficacia alle canzoni, come capita in “The Gry Lion”. Canzone che, dopo un intro in cui lo spettro dei primi Iron Maiden è ben presente, ricorda i greci Battleroar, ma viene rovinata da una prestazione vocale non all’altezza. Il disco, salvo la opening track a cui lo skip è quasi d’obbligo, presenta nel complesso dei buoni pezzi a cui però la sensazione del gia sentito è sempre dietro l’angolo. Si potrebbe chiudere un occhio a questo aspetto, “Victory”, “The Bucaneer’s Revenge”, “The Smelting Of Steel”, “Fighting For Metal”, “The Kiss Of Steel”, “Trafalgar”, nonostante la sensazione del gia sentito, son buoni pezzi, peccato ci pensi il buon Razor Ray a rovinare il tutto con una prestazione vocale così così… Da risentire con un cantante di ruolo e magari con un nome diverso, al momento questi defenders australiani non convincono.

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Opinione inserita da Marco Doné    27 Novembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 28 Novembre, 2013
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Arrivano da Grado i Caligo e per la band friulana questa è la prima demo. I Caligo sono dediti ad un heavy metal moderno con qualche piccola influenza riconducibile a Metallica e Megadeth. La demo si presenta composta da una intro e quattro tracce. Le composizioni hanno gia una certa maturità sia per quanto riguarda la struttura, sia per le armonizzazioni vocali. “In The Eyes Of The Death” è puro heavy metal, “Slowly Dying” ricorda i Megadeth di “Countdown To Extinction” e forse è la migliore del lotto. Una struttura ben articolata ed un ottimo ritornello. “The Unbeast” è un'altra bordata heavy metal e si apre con un riff molto Grave Digger. “The Fallen” chiude degnamente questa demo. Anche qui la struttura della canzone è molto interessante e troviamo qualche armonizzazione debitrice agli Iron Maiden. Messa così questa demo sembrerebbe una bomba ma purtroppo ci son due aspetti che non la rendon tale. Il primo è il suono. Con una concorrenza spietata come quella che possiamo riscontrare in questi ultimi anni, oltre alla musica, va analizzata anche la qualità della registrazione. La voce è messa in primo piano e sovrasta gli altri strumenti. Le chitarre son le più penalizzate, a volte è difficile capirne le armonizzazioni. In alcuni momenti addirittura è il basso a sovrastarle. Il secondo aspetto è la voce di Francesco. Belle le linee vocali, belle le armonizzazioni, ma spesso è impreciso, non sempre le note son prese con precisione e pienezza. Penalizzato forse dalla registrazione, messo così in primo piano, ogni minima sbavatura è subito ravvisabile. La pecca di questa prima demo dei Caligo è tutta qui, peccato, i pezzi ci sono… Superate queste due sbavature i Caligo potranno dire la loro.

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Opinione inserita da Marco Doné    23 Novembre, 2013
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Arrivano da Genova gli Ashes To Ashes e questo debutto, intitolato “Borderline” e registrato ai Westfall Recording Company di New York, mette in evidenza una band dall’indiscusso valore. L’ennesima band di valore partorita dall’Italia. La proposta è molto articolata, la possiamo definire una sorta di melodic / alternative metal in cui possiamo trovare elementi pop, rock, melodic metal fino ad arrivare a trovare passaggi appartenenti al metalcore. Un mix sonoro veramente ben strutturato, composizioni mai banali e sempre pronte a catturare l’attenzione dell’ascoltatore. Da segnalare le ottime prestazioni di Paolo Schiavi alla chitarra e di Paolo Di Lorenzo alla batteria. Il disco si apre sulle note della splendida “Alice’s Song”, una delle canzoni più convincenti del disco per cui è stato girato un videoclip. Inizia con un intro chitarristico per poi aprirsi in una stupenda melodic metal song dalle sfumature decadenti. Va fatta subito una piccola puntualizzazione su un aspetto che troveremo ricorrente su tutta la durata del disco, la voce di Marta Vassallo. La sua voce è delicata, leggera, al primo impatto spiazza e fa storcere il naso ma dopo qualche ascolto, a detta di chi scrive, diventa uno degli elementi portanti del disco. Va inoltre detto che le linee vocali che Marta traccerà in ogni singola canzone di questo “Borderline” sono estremamente convincenti ed entrano subito in testa. Un fattore che contribuisce sicuramente a cambiare giudizio sulla voce della bionda singer. Il disco prosegue con la stupenda “Ballad Of The Wolves”, inizio con arpeggio di chitarra e voce per poi evolvere in un ottimo connubio di energia e melodia. Ottimo l’uso delle tastiere (è sempre Marta ad occuparsene). In questa canzone fanno capolino le influenze alternative rock, sia nella struttura della song, sia nelle linee vocali. Prime due tracce da urlo. Si prosegue con la titletrack uno dei pezzi più violenti del disco. Ottimo l’utilizzo del growl che si alterna, in una sorta di botta e risposta, alle clean vocals. Impressiona il fatto che Marta sia tanto delicata nel clean, quanto aggressiva nel growl… Altra ottima canzone è “Sleep”. La struttura è molto articolata e si passa dal ritornello alternative metal, con delle clean vocals oniriche, a stacchi estremamente curati che posson esser riconducibili agli ultimi Dark Tranquillity. Ottima la prestazione vocale di Marta. Il disco continua a svilupparsi in questa commistione di generi riuscendo ad alternare canzoni dalle atmosfere più decadenti a canzoni più energiche ed aggressive. Canzoni in cui melodia e buon gusto negli arrangiamenti non mancano come possiamo ascoltare in “Hydra”. Da segnalare anche “Change” in cui, oltre al buon gusto, troviamo passaggi estremamente tecnici. Ottimo l’utilizzo delle tastiere che, mai invadenti e perfettamente integrate nella struttura della song, aggiungono valore alla canzone. “Fire Of Desire” mi ha riportato alla mente gli Amaranthe e “Vain” è un'altra traccia riuscitissima dalla struttura molto articolata. Partendo da un tipico inizio alternative rock con chitarra in arpeggio e voce (da segnalare ancora una volta le deliziose linee vocali), la canzone si sviluppa in un crescendo che, attraverso una pregevole trama chitarristica, esplode in un passaggio carico di rabbia nel finale della traccia. Il disco si chiude con l’ onirica “Home” in cui, su un ottimo arpeggio di chitarra, Marta ci delizia ancora una volta con delle linee vocali ammalianti. Forse l’unica canzone che non convince appieno è “Empty Bottles And Tears”, uno scalino sotto le altre composizioni, sia per originalità che per struttura. Cos’altro dire? Sicuramente che questo “Borderline” è un disco molto ben riuscito, suonato bene, canzoni mai banali. Per non parlare dei suoni che risultano estremamente curati. Un debutto così non è da tutti. Ora non rimane che attendere di vederli in azione on stage.

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Opinione inserita da Marco Doné    21 Novembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 24 Novembre, 2013
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Il Nord America in generale, ed il Canada in particolare, si sta rivelando la fucina della rinascita dell’heavy metal più puro. Si potrebbe iniziare a tessere un elenco di nomi uno più interessante dell’altro. Proprio dal Canada arrivano gli Iron Kingdom e con questo “Gates Of Eternity” realizzano il loro secondo disco. La cosa più difficile nell’affrontare il loro secondo lavoro è sopravvivere alla pessima copertina… Se ci riuscite, ed iniziate l’ascolto del disco, potreste trovare del materiale interessante! Il sound proposto dagli Iron Kingdom è puro heavy metal ottantiano con forti influenze epiche. La scelta dei suoni e la produzione del disco accentua questa direzione musicale, le chitarre son tutt’altro che “grosse” e “compresse” come va di moda ai giorni nostri ma bensì, con un che di nostalgico, sono “leggere”, “pulite”. Anche la scelta dei suoni di batteria e basso proseguono in questo sentiero. Il sound della band ha una piccola particolarità, riesce a mettere insieme le influenze heavy ottantiane sia della scuola inglese che di quella americana con qualche piccolo riferimento, nella solistica, alla lezione impartita dalla scuola tedesca. I singoli mettono in mostra ottime capacità tecniche e le composizioni, sebbene non dicano nulla di nuovo, si lasciano ascoltare con piacere. Ovviamente non tutto gira alla perfezione e qualche passaggio forzato riduce la qualità delle canzoni. Un esempio di questo è la suite “Egypt (The End Is Near)” in cui le interessanti soluzioni della band non sempre filano lisce come dovrebbe essere. Altro punto negativo del disco è la presenza di qualche soluzione un po troppo "pacchiana", come ad esempio l’inizio della opening track “At The Gates” che ne riduce, e non di poco, la resa. Ma gli Iron Kingdom, nella loro fede imperitura alla causa dell’heavy metal, regalano anche delle canzoni molto interessanti. “Guardian Angel” è una delle migliori del lotto, forse quella che presenta un maggior riferimento alla scena americana. E vuoi per la timbrica di Chris Osterman che in alcuni frangenti ricorda addirittura un certo John Arch, la canzone ha un che di Fates Warning prima era. Ascoltate il ritornello e poi mi direte. Abbiamo nominato Chris Osterman, il suo cantato è veramente debitore agli anni ottanta, le linee vocali da lui tracciate sono facilmente ricoduncibili a nomi come Rob Halford e James Neal. Notevole è anche la sua prestazione alla sei corde, solistica impeccabile, estrema pulizia d’esecuzione. Altra canzone molto interessante è la strumentale “Candeloro”. Ottime le atmosfere ottenute dalla combinazione di piano e tastiere, ottima la solistica di Osterman. La canzone è molto evocativa e per certi versi ricorda la musica da camera. Da segnalare anche “At Home In The Dark” dalle chiare influenze inglesi e, sebbene abbia qualche passaggio a vuoto, va segnalata anche “Crowned In Iron” in cui lo spettro degli Iron Maiden è ben presente. “Chains Of Solitude” e “Demon Of Deception” sono canzoni che faranno la gioia dei defender più puri e “Shadow Of Death”, una sorta di requiem, chiude degnamente il disco. Detto questo, credo sia facile capire da chi potrà esser apprezzato questo lavoro… Non inventeranno nulla di nuovo, non saranno i primi della classe ma l’uderground ha bisogno di band come gli Iron Kingdom.

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Opinione inserita da Marco Doné    12 Novembre, 2013
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Jack Starr non ha certo bisogno di presentazioni, due dischi, i seminali “Virgin Steele” e “Guardians Of The Flame”, con i Virgin Steele; i leggendari Burning Starr senza ovviamente dimenticare il suo solo project, Jack Starr. Ed è proprio il primo capitolo del suo solo project che mi accingo a recensire, mi sto naturalmente riferendo a quel gioiellino intitolato “Out Of The Darkness” ristampato in una nuova veste dalla Limb Music. Siamo nel 1984 e Starr, appena uscito dai Virgin Steele, si mette subito al lavoro per realizzare il suo primo solo album. Ad accompagnarlo ci sono la sessione ritmica dei The Rods, Carl Canedy alla batteria e Garry Bordonaro al basso. Manca solo un cantante che possa impersonificare al meglio la sua idea di heavy metal. Starr ha le idee chiare e appena saputo che un certo Rhett Forrester (tristemente deceduto il 22.01.1994) è uscito dai Riot (certo che elencare tutti questi nomi altisonanti in un'unica recensione fa venire i brividi…) non si fa scappare l’occasione. Lineup completata ed il disco vede finalmente la luce! Il risultato? Un disco che può essere annoverato tra i classici dell’heavy metal! Lo stile è il tipico heavy metal americano di quegli anni e, vuoi per la voce di Forrester, possiamo dire che suona un po come una versione meno aggressiva ma più melodica dei Riot. Il disco si apre con “Concrete Warrior”, heavy metal all’ennesima potenza. Starr è ispiratissimo e con la sua sei corde sfodera degli assoli di gran classe. Inoltre è sapiente nel tracciare le ritmiche che permettono a Forrester d’aver libera espressione. Gran lavoro di Bordonaro al basso che si metterà in evidenza su tutto il disco. Segue poi un altro capolavoro dell’heavy metal, “False Messaiah”. Canzone maestosa nel suo incedere con un Forrester che fa la differenza. Questi primi due pezzi valgon il disco!! Se poi a queste due gemme sommiamo canzoni del calibro di “Wild In The Streets”, la strepitosa ballad “I Can’t Let You Walk Away” in cui Starr e Forrester fanno il bello e cattivo tempo, la fast song “Chains Of Love” ai limiti con lo speed dell’epoca, possiamo capire perché questo disco sia in tutto e per tutto un classico. Starr si dimostra molto intelligente e, sebbene sia il suo primo disco solista, anziché puntare tutto sulla sua chitarra, compone canzoni dalle ritmiche mai banali che permotton a Forrester di metter in mostra le sue doti. Starr attende pazientemente il suo turno e, quando arriva, ogni assolo è una bordata di puro heavy metal. Decide di dare spazio al suo estro con tre strumentali, di cui due esclusivamente chitarristiche. L’oscura e coinvolgente “The Scorcher” e la stupenda “Amazing Grace”, mai titolo rappresentò meglio una canzone. Capitolo a parte merita “Odile”, una ballad strumentale in cui Starr trasmette tutta la sua passione. La traccia è veramente coinvolgente ed emozionante, il tocco di Starr è superbo, caldo. La sua chitarra sembra “cantare” con una prestazione che possiamo definire sentita. Altra gran traccia è “Let’s Get Crazy Again”, forse capitolo a sé, dal flavour rockeggiante, a tratti debitrice ad Alice Cooper, che mette in mostra un'altra gran prestazione di Forrester dietro al microfono. Questa ristampa ad opera della Limb Music è inoltre arricchita da alcune bouns track, tra cui l’inedita strumentale “Blue Tears Falling” e cinque pezzi strumentali tratti dal disco “A Minor Disturbance” che metton in evidenza una volta in più la classe di Starr, un chitarrista, a mio avviso, sottovalutato nonostante fosse uno dei più interessanti axeman del suo tempo. Un disco che dovrebbe esser presente nella collezione di ogni metalhead che si rispetti.

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