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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    09 Aprile, 2016
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Mi ero già imbattuto negli inglesi Neverworld due anni fa all’epoca del debut album “Visions of another world”, album potenzialmente decente, se non fosse stato per la prolissità eccessiva delle varie composizioni e per la voce indegna del singer Ben Colton; anche l’assoluta mancanza di originalità ed il brutto artwork contribuirono in quel caso alla mia stroncatura. Dopo aver visto la piacevole copertina di questo loro secondo album “Dreamsnatcher”, mi sono dedicato all’ascolto dei 10 pezzi dell’album, curioso di scoprire se i difetti che avevo riscontrato nel precedente lavoro fossero spariti, ma... ahimé ho dovuto ascoltare (e, come mia consuetudine, anche più di una sola volta) circa 50 minuti di musica che spesso rasenta la noia e, soprattutto, ancora l’infelice ugola di Ben Colton a distruggere anche quel po’ di decente che gli altri musicisti riescono a combinare! Già, perché, almeno a livello strumentale i Neverworld non sarebbero poi così malaccio, se non fossero alquanto scontati e spesso eccessivamente prolissi (due brani che rasentano i 10 minuti vi assicuro che sembrano un’infinità!), le trame di chitarra e tastiera si ascoltano gradevolmente, basso e batteria riescono anche ad essere frizzanti in alcuni passaggi, ma c’è un notevole bisogno di fare attenzione alla struttura del brano, in modo da renderlo scorrevole e maggiormente easy-listening, soprattutto considerando che lo stile musicale è un heavy/power che vorrebbe essere anche orecchiabile. Naturalmente tutto questo a patto che ci fosse un cantante differente! Rispetto al precedente lavoro, non c’è nemmeno l’ospite femminile a salvare le sorti di qualche brano, ma sempre Ben Colton che dovrebbe mettersi in testa di limitarsi a fare il chitarrista e cercare un cantante degno di tal nome. Non tutti possono essere Bruce Dickinson, mi sembra chiaro, ma così proprio non ci siamo e si fa una fatica immane ad ascoltare. Mi dispiace ma, andando avanti a questa maniera, i Neverworld non hanno alcuna possibilità di farsi notare in positivo ed anche questo “Dreamsnatcher” si prende la sua sonora stroncatura.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    07 Aprile, 2016
Ultimo aggiornamento: 07 Aprile, 2016
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I Rampart sono una band bulgara attiva sin dal 2006 e con alle spalle già 3 albums ed un EP; non avevo mai sentito parlare di questo gruppo fondato dalla singer Maria "Diese" Doychinova, così con una certa curiosità mi sono messo all’ascolto del loro quarto album “Codex metalum”, edito da Iron Shield Records, una label che fa parte dell’universo Pure Steel Records. L’artwork non è dei più ispirati, con i soliti cliché di guerrieri medievali alle spalle di un metallaro tatuato a torso nudo, ma quello che conta è la musica ed effettivamente ascoltare nel 2016 un heavy metal così classico e dal flavour old-style non è purtroppo così frequente, oltretutto anche la registrazione è fatta davvero bene e permette di apprezzare come si deve il sound della band. A voler essere pignoli, la voce della bionda leader della band non è il massimo della vita (a volte risulta un po’ stridula o nasale) e probabilmente ci sarebbe stato meglio un’ugola maschile, ma i Rampart sono Maria e vanno presi per quello che sono. Tornando alla musica, ho ascoltato un heavy che mi ha riportato magicamente agli anni della mia gioventù, indietro di 20/30 anni, quell’heavy che sa di borchie, pelle e sudore, di cantine e passione, di birra ghiacciata e sano headbanging! Il disco, composto da nove brani (finalmente un disco senza inutili intro!), è pieno zeppo di ottime parti musicali, con le due chitarre soliste in grande evidenza, ma anche con il basso pulsante dell’ottimo Alexandar Spiridonov che si ritaglia parti da protagonista (come in “Into the rocks”), sempre sorretti alla grande dalla batteria di Jivodar Dimitrov (da precisare che sul sito della band compare come batterista tale Velislav Kazakov, ma mi attengo a quanto comunicato nella bio della label). Da segnalare, in chiusura, anche la cover della splendida “Majesty” dei Blind Guardian, pezzo tratto dal debut album dei bardi tedeschi che adoro da sempre, brano che, ad essere sinceri, in questa versione perde un po’ di energia (Maria non è Hansi Kursch!). Se insomma siete affezionati al buon vecchio heavy metal della NWOBHM, ma anche a bands come Crystal Viper, Battle Beast e White Skull, credo dobbiate fare un pensierino a questi Rampart ed al loro “Codex metalum”, perché non ve ne pentirete!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    29 Marzo, 2016
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Avevo conosciuto gli americani Destructor parecchi anni fa con la ristampa del loro debut “Maximum destruction” (originariamente uscito nel 1985) che però non mi aveva esaltato più di tanto; li ritrovo adesso a distanza di 30 anni dal loro primo full-lenght ufficiale con un nuovo album, il quarto della loro carriera, intitolato “Back in bondage”. Ammetto che molta della mia curiosità è stata suscitata dalla donnina in abiti succinti ritratta in copertina... ma veniamo alla musica. I Destructor sembrano teletrasportati direttamente dagli anni ’80: il loro sound, così come la registrazione stessa, infatti, è estremamente old-fashioned, così tanto che viene spontaneo chiedersi se nel 2016 abbia ancora senso suonare e registrare a questa maniera lo speed metal. Con tante bands che hanno reso moderno questo genere musicale, rendendolo semplicemente irresistibile, questo quartetto americano dai nomi “fantasiosi” (Overkill, Annihilator, Hammer e Flammable... OMG!) ha deciso di essere contro-corrente, continuando a suonare come fossimo nel 1985. Il risultato è alquanto deludente, specie se poi si tiene presente che tutti i brani hanno durate eccessive per un genere come lo speed metal (la sola “Tornado” dura meno di 5 minuti), risultando spesso prolissi e decisamente poco godibili. A nulla servono gli sforzi delle chitarre soliste che comunque si ritagliano spazio ed evidenza con discrete parti soliste. La voce di Dave Overkill, poi, pur non essendo così male, non apporta nulla di particolare alla causa di questo disco, rischiando a volte di risultare monotona. Ma i Destructor sono fatti a questa maniera, prendere o lasciare; personalmente, preferisco lasciare ed ascoltare dischi di speed metal molto migliori di questo “Back in bondage”....

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Marzo, 2016
Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 2016
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Storicamente pochissime bands si sono cimentate in quella sezione del thrash conosciuta come “technical thrash”, miscelandola con elementi progressive; i maestri di questo genere sono in maniera indiscussa i tedeschi Mekong Delta, ma un notevole contributo lo hanno dato nel corso degli anni ‘90 anche i tedeschi Despair e gli americani Anacrusis. Adesso dal Canada arrivano questi Droid, fautori di un prog/thrash molto interessante e complesso, con un concept fantascientifico che sarebbe stato tanto caro ai loro connazionali D.B.C. (Dead Brain Cells). “Disconnected” è un EP uscito originariamente nel 2015 solamente in vinile e ripresentato nel 2016 in cd dalla Nightbreaker Productions, dopo un lavoro di re-mixaggio e ri-mastering che, comunque, ha mantenuto intatto il sound old-fashioned di questa band. Personalmente ho adorato questo genere di thrash sin dai suoi albori e mi fa un enorme piacere scoprire che anche oggi c’è chi si impegna a suonarlo. Il risultato conseguito dai Droid sarebbe sicuramente positivo, se non fosse per un cantante semplicemente inadeguato al ruolo; l’ugola abrasiva e lo stile sempre in screaming ossessivo potrebbe andare bene per altro genere di thrash o per qualcosa al limite dell’hardcore, ma di sicuro è inadatto al sound dei Droid, per il quale c’è bisogno di un singer più potente, che canta e non urla in continuazione, ma soprattutto che conosca il significato di parole come “espressività” e “pulizia”. Jacob Montgomery farebbe bene a concentrarsi solamente sulla chitarra, i cui risultati sono sicuramente molto interessanti, lasciando il ruolo di vocalist ad un cantante degno di tal nome. Mi dispiace essere così esplicito, ma la musica dei Droid è davvero valida e piacevole, ma è molto complicato poterla ascoltare e gustare come merita, con uno screamer talmente inadeguato. Spero che in futuro la band possa proseguire su questa strada e, trovando un nuovo cantante, sappia regalarci ancora altro thrash così complesso e di indubbio valore; per adesso non posso andare oltre una sufficienza di stima ed incoraggiamento.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Marzo, 2016
Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 2016
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Dopo praticamente 20 anni di carriera, arriva il momento del live-dvd anche per i tedeschi Orden Ogan, con questo “The book of Ogan”, dotato di una bellissima copertina. Il lavoro del quartetto dell’ordine della paura (questo il significato di Orden Ogan) è estremamente ricco: ci sono ben 2 dvd ed altrettanti cd. Partiamo dai dvd, di cui la AFM Records ci ha messo a disposizione i contenuti (cosa graditissima!), il primo è una sorta di storia della band, sin dagli albori del 1996, cui si aggiungono tutti i video ufficiali realizzati in questi anni e del materiale bonus con making of vari e report di tour. Il secondo dvd presenta la parte live con le registrazioni delle esibizioni al Rock Harz Open Air ed alla Brose Arena Bamberg, entrambe nel 2015, cui si va ad aggiungere un ricco materiale bonus (interviste, altri pezzi live, ecc.). Le registrazioni dei live sono estremamente professionali e realistiche, tanto che mettono in luce sia le grandi qualità di questa band (spettacolare la cam montanta sul batterista Dirk Meyer-Berhorn!), come anche i propri limiti (la voce di Seeb Levermann obiettivamente non è sempre impeccabile). I due cd, invece, non hanno nulla di live. Il primo è un best-of di pezzi estratti dagli album della band a partire da “Vale” del 2008, fino all’ultimo “Ravenhead” dello scorso anno. Non c’è alcuna differenza tra i pezzi inseriti in questo best-of e quelli che si trovano sui vari album, ragion per cui, per chi come me ha tutti i dischi della band, è un’opera sostanzialmente inutile. La vera chicca è il secondo cd con la riedizione del debut album “Testimonium A.D.”, uscito nel 2004 come autoproduzione e praticamente introvabile. La label lo considera un demo (come trovate indicato nella tracklist), personalmente, come tanti altri (Encyclopaedia Metallum docet!), preferisco ritenerlo il debut album degli Orden Ogan. E’ la prima volta che ascolto questi 7 pezzi, rimasti invariati immagino rispetto alla registrazione originale (non mi sembra ci sia alcun lavoro su di essa), e devo constatare che la band è alquanto differente da quanto ha poi realizzato 4 anni dopo con “Vale” (del resto, di quella formazione, rimane tuttora solo il leader Seeb Levermann). C’è sempre un power metal gradevole ed epico, ma c’è anche la presenza di strumenti come il pianoforte e soprattutto flauto e violino che danno un tocco di folk. Si vede già la qualità che esploderà in “Vale” e nei successivi lavori, ma siamo comunque un gradino al di sotto di quanto verrà successivamente. Ciò nonostante, ci sono brani molto validi, come quella “Angels war”, che ogni tanto la band ripropone anche in sede live, e la conclusiva “The step away”, molto dolce. Forse il difetto di questo lavoro sta nella lunghezza dei pezzi, leggermente eccessiva ma, tutto sommato, si lascia ascoltare comunque molto piacevolmente. Tirando le somme, questo “The book of Ogan” è quindi una vera e propria testimonianza di cosa sono gli Orden Ogan ed è indubbiamente un prodotto interessante per i fans del power metal, nonché un ottimo modo per approcciarsi ad una band, qualora ancora non la conosciate (grave pecca!), che ha indubbiamente scritto pagine memorabili del power made in Germany.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Marzo, 2016
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I Final Chapter sono stati fondati addirittura nel 1998 da Andreas M. Wimmer (tuttora nella band come bassista, tastierista e chitarrista ritmico) assieme ad Achim Sinzinger che ha in seguito abbandonato; all’attivo hanno solamente un album (a me sconosciuto) uscito nel 2004 ed intitolato “The wizardqueen”. Dopo 12 anni di silenzio, tornano con un nuovo lavoro, uscito per Underground Symphony, dal titolo “Legions of the sun”, dotato di una piacevole copertina. Il sound è un gradevole power metal, molto veloce e ritmato, con due voci, la maschile del singer ufficiale Oliver Strasser, a cui si affianca la “queen” Ulrike Esch (già presente nel precedente disco ed, ormai, forse da considerare a tutti gli effetti il quinto membro della band), per piacevoli duetti tra l’ugola aggressiva di Strasser e quella più eterea della Esch. L’album è composto da 8 pezzi per oltre 52 minuti di musica che scorre via senza annoiare, nonostante una lunghezza di fondo dei vari brani forse, in alcuni casi, leggermente eccessiva. A volte nel mondo della musica, ci sono canzoni che da sole valgono l’acquisto dell’intero lavoro, nel caso dei Final Chaper si tratta della suite finale “The battle”, oltre 11 minuti da ascoltare in religioso silenzio, per farsi conquistare dalle molteplici atmosfere che la contraddistinguono, in un ensemble decisamente indovinato, con melodie di gran gusto e parti soliste davvero piacevoli. E’, comunque, l’intero album ad essere convincente, nel quale è doveroso segnalare la presenza di numerosi vocalist ospiti, come Stefan Ferrara (Mind Guard), Anne Gehlen (Nanny Goat), Barbara Barth, Kathrin Hoffmann e Chitral Somapala (Civilization One, Red Circuit ed ex di tante band). In conclusione resta da dire che “Legions of the sun” dei Final Chapter è un bel disco che potrà sicuramente conquistare i favori dei fans del power metal; personalmente spero solo di non dover aspettare altri 12 anni per ascoltare un loro nuovo album!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Marzo, 2016
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Gli Eternity's End sono una creazione del talentuoso chitarrista tedesco Christian Muenzner, già noto come membro di bands come Alkaloid, Necrophagist, Obscura e Paradox. Accanto a sé, ha chiamato il bassista Linus Klausenitzer (Obscura, Alkaloid), il batterista Hannes Grossmann (Alkaloid, Blotted Science, ex Necrophagist, ex Obscura), ed il virtuoso tastierista Jimmy Pitts (The Fractured Dimension, Spastic Ink). Il singer giusto è stato trovato circa un anno fa, con Ian Parry, poliedrico vocalist che ha fatto parte o anche solo collaborato con una marea di bands (Elegy, Ayreon, Consortium Project, Mob Rules, Royal Hunt, tra le tante). Il sound della band è un power di matrice teutonica, con influssi neo-classici grazie alle splendide parti di chitarra solista, molto ritmato e con un notevole gusto per le melodie, come il genere impone. A voler essere obiettivi, nulla di particolarmente originale che non abbiano già realizzato altri in passato (alcuni dei quali, proprio con Ian Parry come cantante); sta di fatto che questo debut album “The fire within”, dotato di una piacevole copertina realizzata dall’artista Caio Caldas, si ascolta che è un piacere per quasi tutta la sua durata e sono davvero pochi i pezzi che non funzionano a dovere (mi viene in mente la sola “The dark tower”, troppo lunga e ripetitiva, con un ritmo alquanto monotono). Se quindi, siete fans di questo particolare genere di power metal, troverete pane per i vostri denti in brani come l a title-track posta in apertura “The fire within” (che mette subito in chiaro cosa aspettarci da questo disco: ritmo, energia, melodie, cori epici ed assoli in quantità), le telluriche “Eagle divine”, “Twilight warrior” e “Chains of the earth”, come anche l’ottima conclusiva “The fall of the hous of Usher” (chiaramente ispirata all’omonimo racconto di Edgar Allan Poe). Gli Eternity’s End hanno realizzato un buon disco con questo “The fire within”, come del resto era obbligatorio attendersi quando sono coinvolti musicisti di tale calibro, un album che andrà incontro ai fans del power neo-classico made in Germany.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    14 Marzo, 2016
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Gli Shivers Addiction arrivano da Saronno in Lombardia e sono attivi sin dal 2004, pur avendo finora all’attivo solamente l’album “Nobody’s land”, uscito nel 2010 (a me purtroppo sconosciuto); grazie alla sempre attenta Revalve Records a febbraio 2016 è uscito il loro secondo full-lenght intitolato “Choose your prison” (registrato nel 2015), composto da 10 brani cui si aggiunge una bonus track presente sulla versione cd. Il sound della band è un roccioso heavy metal con qualche influsso thrash, molto piacevole da ascoltare e ricco di energia; i files che ho avuto a disposizione hanno un suono un po’ claustrofobico e spero vivamente che su cd questo difetto sparisca, per poter assaporare al meglio la musica della band. A fare la parte da protagonista ci sono le due chitarre di Gino Pecoraro e Marco D. Panizzo (fondatore della band), ma anche il batterista Angelo De Polignol (altro membro fondatore) si dimostra molto abile e poliedrico; purtroppo il predetto difetto non mi ha fatto assaporare al meglio il basso di Fabio Cova che ho trovato un po’ sacrificato in sottofondo. Sulla voce di Marco Cantoni bisogna fare un discorso a parte; probabilmente qualcuno già lo conosce per la sua militanza nei progsters Cyrax (autori di due albums molto interessanti negli scorsi anni), ma per me era la prima volta ed immediatamente il mio pensiero è corso al grande (ma mai valorizzato come avrebbe meritato) Alessio Taiti, aggressivo singer dei disciolti Frozen Tears ed attualmente nei Fake Healer. Lo stile dei due vocalists si assomiglia parecchio: bello tosto e ruvido, espressivo, ricco di energia, ma mai esagerato e sempre costantemente “sul pezzo”. Indubbiamente, quando si ha in formazione un simile cantante, sarebbe un peccato non sfruttarne le capacità. Sono parecchi i pezzi interessanti in questo lavoro, dalla tirata opener “Eternal damnation”, passando per l’altrettanto dura “Freedom”, oppure per l’orecchiabile e più morbida “We live on a lie” (qui davvero il parallelismo con i Frozen Tears calza a pennello!), ma anche per la veloce “The king and the guillotine”, fino ad arrivare al capolavoro del disco intitolato “Painted arrow”, brano di oltre sette minuti che si ascoltano tutto d’un fiato che è un piacere, fra parti di chitarra molto teatrali ed epiche ed un cantato molto espressivo. Fortunatamente ho avuto a disposizione anche la bonus track che è una versione praticamente identica di “Painted arrow”, con l’aggiunta di backing vocals femminili dell’ospite Evelyn (credo individuabile in Evelyn Iuliano dai Cyrax). “Choose your prison” è un gran disco, molto ma molto bello, in cui gli Shivers Addiction dimostrano come sia possibile realizzare ancora ottimi lavori suonando del buon vecchio e true heavy metal. Ed ora scusate, ma il tasto “play” necessita di essere pigiato ancora una volta....

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    13 Marzo, 2016
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Uscito originariamente nel 2014, viene ristampato in questo periodo il debut album degli olandesi Seven Steps Of Denial, intitolato “From ashes”, composto da ben 14 pezzi. Il sound è un classico e roccioso heavy metal contaminato da un leggero tocco di thrash, con il vocione ruvido ed aggressivo di Marcel Paardekooper che, pur non essendo eccezionale, né particolarmente espressivo, si sposa decentemente con lo stile duro della band. Protagoniste nell’economia del brano sono le chitarre di Dennis Mes ed Edwin de Boer che regalano muri di riff ed interessanti assoli. Peccato per la registrazione che penalizza fortemente il basso di Yick Jun Fung (troppo relegato in sottofondo) e che non rende merito al valido batterista Laurens Justin Kreeft, facendo sembrare troppo freddo il suono dello strumento, specie per quanto riguarda il rullante, a cui viene dato quel pessimo effetto da “fustino del detersivo”.... Mi auguro che su cd tutti questi difetti spariscano e che derivino solo dalla scarsa qualità dei files avuti a disposizione per questa recensione; mi rendo conto che non si può pretendere la luna nel pozzo da una produzione indipendente con un debut album, ma la pulizia del suono nell’heavy metal è fondamentale. Ho ascoltato diverse volte la musica dei Seven Steps Of Denial (oltre un’ora di durata) e forse sarebbe stato meglio “non mettere troppa carne al fuoco”, limitando la tracklist ad una decina di pezzi, eliminando quei tre o quattro brani che proprio non sono dei capolavori (“Die before darkness”, “Broken promise” ed in un certo senso anche “Gemini”, ad esempio, non mi hanno entusiasmato particolarmente), così da rendere anche più scorrevole e più breve l’ascolto, riservando magari i pezzi esclusi ad un futuro EP. Tirando le somme, questo “From ashes”, debut album dei Seven Steps Of Denial è un lavoro discreto, non eccezionale (sarebbe servito un cantante migliore e soprattutto una registrazione più professionale), né tanto meno originale, ma che potrà anche raccogliere favori tra i metallers più old-fashioned.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    12 Marzo, 2016
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Non perdiamo tempo in inutili giri di parole: è indubbio che i Metatrone rappresentino la punta di diamante del Christian metal italiano e questo loro terzo album (considerando come un’unica cosa la doppia versione italiana ed inglese del debut album “La mano potente”/”The powerful hand”), intitolato “Eucharismetal”, dotato di una bella copertina, ne è la conferma. Ho avuto la fortuna di ascoltare un disco che è semplicemente strepitoso: cantato magnificamente dal grandissimo Jo Lombardo, suonato magistralmente da quattro musicisti meravigliosi. Ogni strumento ha la sua parte esaltante: il basso del maestro Dino Fiorenza si sente spesso come splendido protagonista; la batteria di Salvo Grasso è estremamente poliedrica e potente, mai in secondo piano, ma anche mai esagerata; le tastiere di Don Davide Bruno (anche sorprendente nelle backing vocals con il suo growling) tessono melodie sempre piacevoli, dividendo gli assoli in incantevoli duetti con la chitarra del grandissimo Stefano Calvagno, vera e propria garanzia di qualità e gran gusto. Una ricetta veramente esplosiva, che miscela con abilità il cantato in inglese con quello in italiano, per un power metal sopraffino che si ascolta e riascolta e riascolta ancora senza mai stancare, ma con la rara dote di sorprendere e coinvolgere sempre di più, rischiando di creare dipendenza come una potente sostanza stupefacente. Qui non manca nulla, potenza, gusto per le melodie, orecchiabilità, energia, tecnica, velocità.... il tutto in un connubio pressoché perfetto a cui diventa arduo trovare anche un seppur minimo difetto. Certo, bisogna sempre tenere presente che ci troviamo davanti ad un gruppo che fa dei testi a sfondo religioso il proprio trademark imprescindibile; di conseguenza, chi non ha un buon rapporto con il cattolicesimo potrà forse non apprezzare particolarmente (“Regina Coeli” è una vera e propria preghiera in musica), ma i Metatrone sono questi, prendere o lasciare. Questo disco è pieno zeppo di brani eccellenti, dall’opener “Alef dalet mem” (espressione ebraica), presente anche nella versione con testo in italiano, passando per la splendida “Molokai” (per me la canzone migliore), la strumentale Mozart’s Nightmare (lezioni di tecnica musicale), o anche per “Latest news from light” (utilizzata per la realizzazione di un video, che sembra ripercorrere la famosa parabola del figliol prodigo), fino alla lunga (ma non per questo meno affascinante) “Una parte di me”, o alla conclusiva “Lascia che sia” (in cui Jo Lombardo canta in maniera molto espressiva e calda). Come avrete capito, rischierei di citare l’intera tracklist, dato che qui non c’è nemmeno un brano che non sia di livello qualitativo molto sopra la media. “Eucharismetal” è un disco chiaramente straordinario (o “divino” correndo il rischio di mischiare sacro e profano) che, per quanto mi riguarda, ritengo finirà sul mio personale podio dei migliori del 2016; credo proprio che per i Metatrone sia giunta l’ora della consacrazione nel mondo del power metal!

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