Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli
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Ultimo aggiornamento: 08 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Spengono le 15 candeline i Deserted Fear, trio tedesco che ha saputo ritagliarsi una fetta più o meno grande del panorama Death europeo. Una carriera densa di uscite che culmina in questo "Doomsday", quinto capitolo per i Nostri nuovamente licenziato dal colosso Century Media Records e, finalmente osiamo dire, il primo disco veramente degno di nota. Come è stato fatto presente anche nelle scorse recensioni, ma anche dalla maggior parte della critica, i Deserted Fear sono la classica band che - riprendiamo le parole di un nostro vecchio commento - si è trovata nel posto giusto al momento giusto, ossia una realtà che si è sempre assestata su un livello medio con buone produzioni ma nulla di più. Un trio affiatatissimo che in live riesce sempre a fare la sua gran figura con pezzi che funzionano alla grande ma, lo ripetiamo, senza infamia e senza lode. Tuttavia, come accennato poc'anzi, la musica è - finalmente, ripetiamolo - cambiata, in tutti i sensi. Dal Death ispirato alla scuola Bolt Thrower e Benediction costantemente tinteggiato dalla vena Dark Tranquillity ad un Death molto più groovy e vicino agli Amon Amarth con costanti giri ed aperture stilistiche verso lidi più melodici. Possiamo quindi dire che i Deserted Fear abbiano semplicemente aggiustato il tiro o semplicemente voluto osare di più. In ogni caso è innegabile che il gruppo sia riuscito perfettamente nell'intento di darci in pasto un album che non ti fa esclamare soltanto "ah sì, carino", ma un vero e proprio "wow!". Se da una parte le scorse produzioni risultavano magari più dirette per via di un songwriting più asciutto e "scolastico", qui bisogna darsi un po' più di tempo per apprezzare la musica dei Nostri. Chiaro, lo stile è quello, consolidato ed inconfondibile, soprattutto la produzione bella gonfia e ovattata e le chitarre "zanzarose". Tuttavia è nella struttura dei brani che "Doomsday" riesce a salire di livello: la sensazione è dunque quella di un disco pensato e suonato con pochissimi freni inibitori, quasi a voler essere permeabili anche ad altre influenze; cosa peraltro vera dato che il Death è, a volte, relegato a dei passaggi di contorno. Di una cosa siamo sicuro: in sede live il disco spaccherà e non poco, grazie ad episodi degni di nota come "Idols Of Triumph" o la mia preferita "Follow The Light That Blinds".
Ultimo aggiornamento: 04 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Candida, leggiadra, dolce, pungente, fredda come l'acqua che sgorga da una sorgente incontaminata, immacolata come una fragile creatura... Non penso si possa trascrivere a parole la musica di Sylvaine, polistrumentista norvegese che risponde a nome di Kathrine Shepard. Tutto nelle sue opere parla di sé, in un meraviglioso immaginario fatato ed etereo sperduto in chissà quale foresta incantata del quale ella è la splendida e bianca regina elfica. Insomma, Sylvaine è la delicatezza fatta musica, una carezza più leggera del velluto sulla faccia, ma allo stesso tempo un qualcosa di sfuggente, lontano anni luce. Non sorprende, dunque, se questo "Nova", quarto album della ragazza e terzo licenziato dalla sempre garanzia Season Of Mist, sia un capolavoro di Post-Metal/Shoegaze degno dei migliori lavori degli Alcest. E non è un caso se li abbiamo appena nominati essendo Kathrine fortemente legata ad essi: in primis per l'amicizia con Neige, con il quale ci sono state parecchie collaborazioni - l'artista francese è stato anche live drummer dei Sylvaine -. In secondo luogo perché Sylvaine, così come gli Alcest, punta tantissimo sulle melodie eteree, ridondanti e tinteggiate da richiami al Black Metal lungo le quali la voce si scioglie come neve al sole in un continuo ossimoro tra clean vocals e scream. Per forza di cose, dunque, le due realtà sono punti cardine di questo modo di intendere il Post-Metal. Ma veniamo a noi con "Nova", il disco forse più completo e stilisticamente maturo della discografia di Kathrine, che questa volta ci ha regalato un'esperienza sensoriale molto più convincente e decisa rispetto ai precedenti capitoli. Se questi alla lunga potevano risultare stucchevoli per via di un mood eccessivamente sfumato e sognante, adesso gli equilibri sono stati ridefiniti: è certamente un album che sa di Sylvaine, ma questa volta l'andamento delle tracce segue dei percorsi meno scontati e maggiormente improntati ad un ossimoro tra la durezza tagliente del Black e la delicatezza quasi intangibile tipicamente Post-Metal/Shoeggaze. In questo oscillare l'artista si inserisce a meraviglia con la sua voce che riesce a sciogliersi nella melodia o a gelare con uno scream deciso. Basta solamente l'opener "Mono No Aware" a darci immediatamente l'esempio perfetto della dicotomia appena descritta: sembra di ascoltare un lavoro dei primissimi Alcest, con la differenza che il tono più deciso ed il riffing meno "sdolcinato" ci regalano 50 minuti di puro godimento per i sensi. Traccia dopo traccia si assaporano le più disparate emozioni, dalla rabbia alla malinconia, dalla gioia spensierata di un bambino che gioca o del primo bacio dato alla persona amata alla tristezza più cupa per la perdita di tutto ciò che si ha intorno. Ecco, la potenza evocativa di "Nova" non conosce limiti superando perfino le parole con cui stiamo cercando di darvi un'idea dell'opera, semplicemente perché ognuno dà alla stessa il suo significato. Di una cosa siamo certi: avrete la pelle d'oca per quasi un'ora.
Ultimo aggiornamento: 02 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Capolavoro. Non ci sono altri modi per definire questo (ennesimo) gran disco degli statunitensi Allegaeon intitolato "Damnum", che di nuovo ci mostra il quintetto del Colorado in uno stato più che di grazia. Non c'è da stupirsi, dunque, se la band sieda di diritto sull'Olimpo delle migliori band Melodic Death americane assieme a The Black Dahlia Murder, Arsis e Inferi; così come non c'è da stupirsi se con loro il genere possa essere pienamente definito una costola del tutto autonoma del filone svedese principale. È grazie ai gruppi appena nominati se gli USA ora possono vantare una scuola tutta loro, in cui il Melodic Death ha attecchito in una sua versione più moderna, esasperata e iper tecnica. I risultati di tutto questo processo sono dischi colossali e perfetti sotto ogni aspetto, come questo "Damnum" che consacra il quattordicesimo anno di vita degli Allegaeon.
Giunto a soli tre anni di distanza dal precedente e colossale "Apoptosis", la sesta opera di Riley McShane e soci eredita completamente il retaggio del suo predecessore, ma lo fa con una classe e maestria senza eguali. Se da un lato è palese - e ci mancherebbe - che "Damnum" riprende la strada del fratello maggiore, dall'altro il disco allarga ancora di più lo spettro compositivo calcando ulteriormente la mano. Stessa cosa per la voce di McShane, che qui tocca il suo punto più alto: dal growl mastodontico alla voce in clean molto più accentuata e presente che ricorda da vicino Phil Bozeman dei Whitechapel. Da un punto di vista prettamente compositivo, dicevamo, "Damnum" può vantare un comparto molto più vario ed esteso; segno che i Nostri hanno ben capito il territorio in cui si muovono potendosi permettere di esplorarlo fino in fondo senza risultare prolissi o poco convincenti. E forse tutta la maestria della band risiede proprio in questa innaturale confidenza e scioltezza con cui si addentra nel Melodic Death più tecnico e prolisso. Nulla da togliere ai mostri sacri TBDM, ma è innegabile come gli Allegaeon riescano a spingersi un po' più in là coniugando PERFETTAMENTE ferocia e violenza con melodie strappalacrime e sentitissime. L'esempio migliore si ravvisa proprio nelle due parti di "The Dopamine Void": una ballad meravigliosa la prima, una bomba atomica di Melodic Death americano come dio comanda dall'altro. In mezzo a tutto ciò si staglia la voce di Riley che riesce ad incastrarsi sempre e comunque alla perfezione. E non dimentichiamoci, ovviamente, di tutto il comparto tecnico, dall'ormai consolidato duo Stancel/Burgess alle asce al nuovissimo batterista Jeff Saltzman, con l'ingrato compito di sostituire Brandon Park. Impresa riuscita con il massimo dei voti. Anzi, ci permettiamo di dire che il mood più eterogeneo del disco ha permesso ai membri consolidati di dare una ulteriore spinta alla creatività, e alla new entry di cimentarsi in una prova molto più complessa di quella del precedente disco. Ecco perché, a detta di chi scrive, con "Damnum" il quintetto - sorprendentemente - si è ulteriormente superato. Non dimenticando che qui stiamo parlando di un genere, lo US Melodic Death, ipertecnico, tiratissimo ed esasperato: il rischio di buttarla in caciara e di mettere la proverbiale troppa carne sul fuoco è altissimo. Ma no, gli Allegaeon dimostrano invece come per loro sia un gioco da ragazzi offrire un prodotto tecnicamente inarrivabile ma al contempo di facile ascolto. Tradotto: ogni traccia, per tutta l'ora di durata del disco, ti resta in mente e non se ne va più, lasciandoti dentro un'infinità di sensazioni ed emozioni che solo con un altro ascolto - e poi un altro, e un altro, e così via - riesci a metabolizzare. CAPOLAVORO!
Ultimo aggiornamento: 02 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
New entry in casa Unique Leader Records: il trio statunitense Embryonic Devourment giunto alla sua quarta fatica intitolata "Heresy of the Highest Order". Un'opera, questa, che va di pari passo con l'ingresso nella label, poiché a detta nostra si tratta del disco più completo e convincente dell'act californiano. Ora, posto che i Nostri da sempre soffrono di una scarsa personalità, è interessante notare come questo fattore si sia assottigliato parecchio, il che ha permesso alla band di confezionare un prodotto più che riuscito, seppur non si possa affatto gridare al miracolo.
Comunque sia, le coordinate stilistiche nelle quali collocare l'album sono a metà tra un Death Metal classico di stampo Morbid Angel e i filoni più brutali del genere che richiamano gente come Deeds of Flesh, Gorguts e Decrepit Birth, tanto per nominarne qualcuno. Da qui si intravede già come l'intento degli Embryonic Devourment sia quello di omaggiare la vecchia guardia all'interno di una struttura fortemente dissonante e caustica: ciò lo si ravvisa soprattutto nella maggior durata dei pezzi che viaggiano sulla media dei 4 minuti abbondanti. Il che da una parte ci permette di ammirare tutto il potenziale del trio, ma dall'altro riporta in luce, seppur in maniera contenuta, una personalità dei brani non sempre al top. Ora, non si intende dire che la struttura dei pezzi sia scolastica o standard; tuttavia è da notare come spesso ci si scorda del pezzo appena ascoltato, fatta eccezione di alcuni momenti veramente interessanti che toccano il Death più sperimentale (in "High Clearance Code Acces" e "Never Ending Human Misery" soprattutto). Per chi conosce già il gruppo certamente troverà nel nuovo album un modus operandi sì familiare ma questa volta più grintoso; se, invece, vi state approcciando alla band, sicuramente questo è il miglior disco da cui partire essendo il più completo. Da parte nostra gli Embryonic Devourment portano a casa una sufficienza onestissima.
Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti -
C'è poco da fare: il talento e l'attitudine li riconosci immediatamente; bastano pochissime note della prima traccia di un disco per rendertene conto. Questo è il caso dei belgi Schizophrenia, quartetto nato solamente nel 2016 ma che ha già attirato su di sé una certa attenzione da parte della community: che si tratti di webzines o semplici ascoltatori, tutti stanno volgendo il loro sguardo verso questa giovane realtà fiamminga che già nel 2020 lasciò ben sperare con un EP clamoroso. Ora, dopo aver ascoltato questo "Recollections of the Insane", album di debutto per Ricky Mandozzi e soci, possiamo dirlo: gli Schizophrenia sono i degni eredi dei Demolition Hammer; fierissimi portavoce di un Death/Thrash violento e feroce come poche cose nella vita che trasuda old school da tutti i pori. Ma per giustificare un'affermazione così importante, ovviamente, non basta certo elogiare il sound proposto che, per inciso, è spettacolare. Ciò che rende il quartetto di Anversa degno di nota è l'insolita quanto inaspettata vena moderna che permea ogni singola traccia. Esattamente come il Death classico sta rivivendo una seconda vita - vedasi i francesi Corrupter di cui vi invitiamo a leggere la nostra recensione -, lo stesso può dirsi per il Death/Thrash. Immaginate di prendere il sound della vecchia scuola Death e Thrash, in particolare Demolition Hammer, Slayer, Morbid Angel e Obituary e poi di rivisitare, o meglio, riproporre il tutto in chiave moderna con un sound fresco, passaggi più articolati - ma MAI pomposi - che di tanto in tanto toccano i lidi del Black Melodico dei Dissection. Infine, ciliegina sulla torta, immaginate tutto questo suonato con un'insolita ed innaturale maestria tecnico-compositiva. Et voilà, il disco capolavoro è servito, pronto a segnare un'importantissima tappa musicale da un lato ed un inizio carriera gloriosissimo dall'altro. E stiamo parlando di gente che non supera i trent'anni di età!
"Recollections of the Insane" è un'opera che non presenta nemmeno una singola pagliuzza di indecisione riuscendo a spaziare a meraviglia senza per questo perdersi in eccessivi orpelli che farebbero scemare l'attenzione. Cosa affatto scontata in un disco Death/Thrash che notoriamente si rifà ad un modo di intendere il Metal piuttosto standard o comunque diretto. Qui invece avviene l'esatto contrario, pur rimanendo al 100% un prodotto che sprizza vecchia scuola da tutti i pori, e ancora non riusciamo a spiegarci come gli Schizophrenia siano riusciti in questa impresa. Se ci avessero fatto ascoltare l'album senza dirci nulla avremmo sicuramente detto che si tratta del nuovo disco dei Demolition Hammer. Ma ciò non è da intendersi come un copia/incolla dei grandi nomi del genere: piuttosto si tratta del proverbiale allievo che supera il maestro; un concentrato di ferocia e violenza pregno di tutti gli insegnamenti dei predecessori ma che alla fine riesce ad emergere con un'identità tutta sua. E ricordiamo ancora che si tratta solo del debutto a fronte di un singolo EP e nient'altro. Tolto il batterista Lorenzo Vissol che milita anche nei Bütcher - realtà comunque giovane con soli due full-length alle spalle - il quartetto è composto da ragazzi praticamente sconosciuti ed alle prime armi. Da qui anche il nostro voto che vuole incoraggiare i Nostri a procedere lungo questa strada appena battuta. Chissà, siamo di fronte a i nuovi portavoce del Death/Thrash di seconda generazione?
Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti -
Satanismo, guerra e anticristianesimo: direi che i temi per un album votato alla ferocia più brutale ci siano tutti. Ed è esattamente così con questo macabro e violentissimo "Purifying Blade", seconda prova del duo statunitense Antichrist Siege Machine, licenziata dalla sempre garanzia Profound Lore Records. Grazie ad una produzione colossale, accordature ancora più basse e tutta la psicopatia che si ha in corpo, i Nostri hanno confezionato un disco che definire assassino sarebbe un eufemismo. Tanto per intenderci: si parla di dieci tracce (più un'intro) per un totale di nemmeno mezz'ora di durata in cui il duo entra nei territori Death/Black più feroci e brutali di sempre, ricalcando l'esperienza di gente navigata come Revenge e Diocletian. Insomma, War Metal nella sua forma più ferina e oltranzista; la messa in musica dell'annichilamento che va di pari passo con il sound di un vero e proprio massacro senza superstiti. E già qui possiamo notare uno dei migliori punti di forza del disco: la personalità. Se da un lato è vero che il Black/Death è un genere poco avvezzo alle innovazioni - tradotto: più è diretto e feroce, meglio è -, dall'altro c'è da dire come la coppia S.B./R.Z abbia sfruttato maggiormente la componente Death. Ciò ha permesso di poter inserire nel proprio repertorio tutte le formule del genere imbastendo quindi un'opera mastodontica e violenta in cui una batteria frenetica fa da base ad un riffing denso e nero come la pece che sfocia quasi nel rumore più totale. Quindi, a conti fatti, abbiamo la violenza e ferocia del Death che si sposa con l'aura maligna e priva di compassione del Black. Minuto dopo minuto si capisce perfettamente quale sia l'intento dell'album: pestare a sangue, massacrare e distruggere tutto ciò che gli si para davanti. Compito perfettamente riuscito devo dire, perché al di là dell'indiscutibile ferocia che i Nostri ci buttano addosso, è da riconoscere comunque una certa maestria che regge tutto il carrozzone. Non si tratta, dunque, di una vagonata di riff a caso e suonati tanto per alzare i decibel; qui c'è stato un gran lavoro dietro: una violenza, ci verrebbe da dire, ben congeniata in ogni singolo punto. Da qui si capisce come gli Antichrist Siege Machine possano essere considerati ora un punto di riferimento del genere. Una tortura studiata in ogni singolo punto in grado di fare a brandelli sia che si tratti di brani serrati e caustici, sia in quelli più cadenzati in cui i riffoni pesanti la fanno da padrone. In poche parole: tra le migliori uscite del genere in assoluto ed un vivido esempio di come la nuova guardia sia ancora in grado di stupire l'ascoltatore. Da ascoltare a tutti i costi!
Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti -
Nato dalle menti di Patrick Hills e Karl Cordtz, già attivi nel panorama Black/Sludge americano, il progetto Feral Season vede la sua genesi durante la pandemia. Live sospesi, quarantene e tutte le rotture che ci siamo sorbiti in quel periodo. Fortunatamente dal punto di vista musicale ciò ha avuto un contraccolpo positivo spingendo parecchi artisti a lanciarsi in nuove esperienze. Ecco, il duo è venuto incontro proprio a questa tendenza con "Rotting Body in the Range of Light", album di debutto dei Feral Season licenziato da Profound Lore Records, la stessa che produce i Portal o i Suffering Hour per intenderci. E come avrete subito inteso appena ho nominato questi ultimi, siamo in territorio Black Metal; Black atmosferico a dirla tutta, tinteggiato qua e là da richiami ben percepibili alla seconda ondata norvegese. Sulla carta, dunque, il duo americano si presenta con una formula più che conosciuta ma che, nel bene e nel male, riesce sempre a fare la sua figura. Il disco si presenta esattamente per quello che è, con un riffing freddissimo, frenetico, caustico e mortifero, sorretto da una batteria che, al netto di alcuni passaggi più scolastici, si cimenta in una prova piuttosto interessante. Sembra quindi che i Feral Season non siano soltanto un passatempo per non annoiarsi, quanto invece una band con un'identità tutta sua, in grado di interessare l'ascoltatore. Così è, o almeno l'intenzione è quella. In generale questo "Rotting Body in the Range of Light" ha dei punti forti dalla sua: in primis il fatto che spesso divaga all'interno di territori più sperimentali e vacui, quasi a voler richiamare il Black Atmosferico europeo o addirittura il Funeral Doom. Quindi sembra davvero di ascoltare un prodotto a metà tra lo stampo norvegese classico e le influenze più moderne ed introspettive. Tuttavia ad uno sguardo di insieme siamo ben lungi da un album con gli attributi; al contrario l'opera sembra esattamente quella che è: un progetto parallelo e basta. Tutto infatti sembra semplicemente cucito tanto per non scadere nel banale. Cambia l'ordine delle parti, allunga qualche sezione atmosferica, inverti le blastate frenetiche e i momenti più tranquilli... Insomma, comunque lo si voglia girare, è indubbio che c'è un'evidente lacuna dal punto di vista dell'originalità. Un peccato visto che in alcuni momenti i nostri sembrano volersi addentare in territori interessanti, salvo poi fare marcia indietro e tornare ad assestarsi su un livello perfettamente medio, senza infamia e senza lode. A meno che non siate fan sfegatati del genere potete tranquillamente saltare in maniera del tutto indolore.
Ultimo aggiornamento: 08 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti -
Se vi dico, in ordine, Svezia, Uppsala e Stoccolma, al 99,99% cosa mi rispondete? Ovviamente con una sola parola: Swedish Death Metal. E non vi posso biasimare essendo le due città, la seconda soprattutto, di seminale importanza per la nascita e la diffusione del genere. Figuriamoci se qualcuno possa solo lontanamente associare ai sopracitati luoghi il Black Metal, che si sa provenire dai vicini di casa norvegesi. Eppure oggi parleremo di una realtà Black Metal che proviene proprio da Stoccolma e Uppsala: i Det Eviga Leendet ("Il sorriso eterno" in svedese) ed il loro secondo album "Reverence"; forse, lo dico subito, tra i dischi Black più freddi e caustici che abbia mai ascoltato in anni di Metal. Ma andiamo con ordine, perché è doveroso farvi alcune premesse. In primo luogo: non si sa una ceppa riguardo l'anno di nascita del progetto, né, tantomeno, sui membri che compongono la band, di cui figurano solo le iniziali. Qualche nome completo si trova su internet, ma nulla più. Addirittura non ci è dato sapere nemmeno chi suona gli strumenti. Insomma: più TrVe di così non si può. Però c'è un "però", un dettaglio fondamentale che cambia completamente le carte in tavola: dei sei membri presenti, solo di uno sappiamo il nome ed il ruolo che ricopre, ossia Jacob Buczarski del progetto solista statunitense Mare Cognitum alla voce. Ora, per chi non lo sapesse, la one man band appena citata è reduce da un album a dir poco colossale, un capolavoro di Black Metal atmosferico che ti strappa letteralmente l'anima dal petto. In effetti ancor prima di andare a controllare la line-up sentivo qualcosa di familiare nella voce; dubbio che poi si è dissipato non appena ho letto il nome. Detto ciò non ci è comunque dato sapere se il buon Jacob è presente sin dall'inizio del progetto, né, di conseguenza, se cantava anche nel primo disco. In sintesi: non sappiamo se i Det Eviga Leendet siano un suo side project o una band in cui egli milita. Sono comunque indubbie alcune analogie con i Mare Cognitum. Ma comunque, vediamo più da vicino di cosa si tratta.
All'inizio questo "Reverence" potrebbe trarre in inganno dato dai primi secondi in low-fi seguiti da un Black Metal che a tratti potrebbe ricordare i Darkthrone in "Panzerfaust" - la prima traccia, "Blossom", mi ha ricordato "En vind av sorg"- o comunque il Black feroce norvegese dei primi anni '90. Eppure non è così. O meglio, delle analogie con quel modo di intendere il genere ci sono, soprattutto per quanto riguarda la crudezza dei riff, la totale mancanza di un barlume di luce nell'atmosfera che viene a crearsi e la velocità della sezione ritmica, che definire tirata e caustica sarebbe un eufemismo. Tuttavia queste sono solo le prime sensazioni, perché "Reverence" nasconde in sé molto di più di quello che un ascolto distratto potrebbe far percepire. Da qui le analogie con i Mare Cognitum di Mr. Buczarski. Posto che tra le due band c'è un'enorme differenza, in quanto i Mare Cognitum sono molto più melodici e sostanzialmente improntati su una linea compositiva più complessa, nei Det Eviga Leendet si nota comunque una grossa componente atmosferica che emerge dopo un paio di tracce. Direi più che si tratta di un retrogusto, uno sfondo nero come la pece che si nota e si lascia notare se si assapora l'opera in un certo modo. La sensazione è quella di un fiore che sboccia: se ci si ferma a metà non si riesce a cogliere tutta la bellezza che altrimenti si percepirebbe dando il tempo al fiore di schiudersi completamente. Ecco, "Reverence" è esattamente così: mortale, caustico, freddo, mortifero... un turbinio di terrore che tormenta l'anima dell'ascoltatore minuto dopo minuto. Ma allo stesso tempo ha quella nota agrodolce in sottofondo che ti lascia a bocca aperta, quasi che riesca a commuoverti dopo averti fatto a brandelli. A conti fatti, dunque siamo a metà tra i Mare Cognitum e gli islandesi Auðn, passando per qualche richiamo (e non più una pesante influenza) alla scuola norvegese. Capolavoro!
Ultimo aggiornamento: 08 Febbraio, 2022
Top 10 opinionisti -
Sono loro o non sono loro? Certo che sono loro. I nostrani Reapter tornano finalmente in pista dopo sei anni da quell'ottimo "Cymatics", album che fu uno dei primissimi che recensii su questo portale. Perciò trovarmi di nuovo faccia a faccia con una band di cui parlai quando ero alle prime armi fa un certo effetto. Ma fortunatamente è una sensazione più che positiva, perché la band capitolina non ci ha pensato minimamente ad abbassare il tiro; anzi, possiamo dire che il qui presente "Blasted", terza fatica dei Nostri, è un vero e proprio punto di rottura con il passato. Se prima ci trovavamo in pieni territori Thrash con pesanti sferzate Prog che davano a tutto il carrozzone una certa eterogeneità dei pezzi, ora la musica è cambiata; in tutti i sensi. Sei anni dopo per Claudio Arduini e soci è arrivato il tempo di scontrarsi con sonorità molto più pesanti ed incazzate che lisciano costantemente il pelo al Death Metal ed al Melodic Death senza tuttavia volerne richiamare a pieno gli stilemi. Il risultato è dunque un disco che preclude ogni raffronto con il passato ma suona comunque Reapter al 100%. Punto di forza, come del resto ogni produzione del quintetto, è l'appena citata eterogeneità: non c'è un singolo pezzo che risulti simile ad un altro. Potremmo quindi dire che la formula del gruppo è semplice quanto complessa: il Thrash - a volte troppo scolastico - ricorda verosimilmente quello dei tedeschi Bonded, passando tranquillamente per qualche vena Groove per poi ritornare sui suoi passi con una solidissima base Death. Il tutto condito da una sempre ben presente vena melodica. A conti fatti i Reapter hanno confezionato un prodotto riuscitissimo che non annoia mai e che anzi riesce costantemente a puntare in alto. Nel momento in cui ti aspetti un'impennata di ritmo ecco che quell'impennata arriva. Così per tutte le otto tracce che compongono "Blasted". Al netto di una certa prolissità che a volte si ravvisa in qualche passaggio, è interessante notare come i sei anni che intercorrono tra il questo disco ed il precedente si sentano tutti: non un semplice silenzio, ma un vero e proprio periodo in cui i Nostri hanno deciso di stravolgere del tutto la loro proposta, senza nemmeno prepararci con un EP. Niente di niente se non lo sberlone sulla faccia che è piombato come un fulmine a ciel sereno. Ben tornati ragazzi!
Ultimo aggiornamento: 27 Gennaio, 2022
Top 10 opinionisti -
Se vi dico "Finlandia", il 99,9% dei metallari risponderà nominando un gruppo in particolare: gli Insomnium. E ci sta, trattandosi di una band che ha stravolto completamente i canoni svedesi per adattarli ad un sound del tutto nuovo: non a caso si parla di una vera e propria scuola finlandese. È normale, dunque, che la maggior parte dei gruppi lapponi e non che vogliono approcciarsi a quello stile guardino agli Insomnium. Insomma, chi di più, chi di meno, l'influenza del quintetto è sempre ben percepibile. Poi, invece, c'è una piccola fetta di gente che cerca di tenere a bada questo influsso, come nel caso dei Wolftopia. Anche loro finlandesi, nati solamente nel 2017 e con un solo EP alle spalle nel 2019 e lanciati nel panorama europeo da Inverse Records, che ha licenziato l'album di debutto, "Ways of the Pack".
Dicevamo come il quartetto appartenga a quella piccola fetta di realtà che cerca di scrollarsi di dosso - non del tutto - l'influsso degli Insomnium in favore di un approccio che potremmo definire a metà tra la Finlandia e la Svezia. Tradotto: riffoni incazzati, taglienti e secchi intervallati dalle sonorità più liquide delle tastiere. Un connubio abbastanza inusuale che di fatto rende il debutto del quartetto molto interessante e per certi versi inaspettato. Per intenderci, i Dark Tranquillity sono i maestri indiscussi del Melodeath ed anche loro usano le tastiere. Tuttavia il sound di Stanne e soci è totalmente svedese perché risponde a determinati stilemi ben radicati e riconoscibili. I Wolftopia invece sembrano la fusione tra i DT e gli Insomnium, ponendosi di fatto a metà tra le due band, ma non per questo da intendersi come un mero copia/incolla di entrambe le realtà. Prendiamo come esempio le ultime due tracce di questo "Ways of the Pack", ossia "The Alpha" e "I Am The Storm": ritmicamente e a livello di riffing siamo in piena scuola svedese di fine anni '90 e inizio 2000, ma melodicamente parlando - inteso proprio come sinfonia di sottofondo - è totalmente territorio finlandese. Immaginate una "Monochromatic Stains" in "Damage Done" del 2002 suonata in salsa "The Gate" in "Above The Weeping World" del 2006. Ecco, più o meno avete capito le coordinate stilistiche entro cui collocare i Wolftopia. Fattore, questo, che mi lascia sbalordito poiché dimostra un'enorme maturità musicale che raramente ho visto in gruppi così giovani: al netto di alcuni passaggi ancora troppo scolastici, il quartetto centra pienamente l'obiettivo con un lavoro che trasuda personalità, competenza e carattere da tutti i pori. E fidatevi, trovare al giorno d'oggi queste qualità in un disco di debutto è cosa più unica che rara. Tendenzialmente si inizia in un modo e con il tempo si aggiusta il tiro. Qui al contrario Aleksander Okhotnikov e soci risultano già lanciati a bomba e pienamente consapevoli della direzione che vogliono prendere. Quindi, se cercate un album di Melodic Death suonato a mestiere, bello e per certi aspetti innovativo, allora qui troverete ben più di un ascolto occasionale. Tenete d'occhio i Wolftopia, potrebbero rivelarsi una giovane e talentuosa promessa.
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