Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli
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Ultimo aggiornamento: 29 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Iniziamo questa recensione scusandoci per l'enorme ritardo con cui arriva: tanto materiale e poco tempo a disposizione. Detto ciò, tuffiamoci immediatamente nel primissimo disco targato Deathcraeft: "On Human Devolution", che segna l'ingresso dell'act greco nel panorama Death/Thrash. Della band non si hanno altre notizie trattandosi di una realtà giovanissima attiva da soli cinque anni - tre se consideriamo la data di uscita del disco -. Tuttavia i Nostri hanno dimostrato fin da subito una certa confidenza e personalità confezionando un'opera tutt'altro che banale come erroneamente potrebbe suggerire il genere proposto. Possiamo dire che i Deathcraeft abbiano preso i maggiori stilemi delle due componenti sopracitate per poi unirle e tirarne fuori un prodotto che, spesso, non è riconducibile all'una o all'altra. Innanzitutto vorrei complimentarmi per il tema trattato che vede come protagonista il "Solitario di Providence", ossia HP Lovecraft. Come è facile intuire, dunque, la musica che il gruppo ci propone tende ad essere quasi spirituale, costantemente tinteggiata di musicalità, orchestrazioni e dissonanze che richiamano in un certo qual modo i sogni onirici; il tutto condito da un continuo e martellante songwriting che fa di Exodus, Sepultura e Morbid Angel le sue coordinate principali. Tuttavia, grazie anche ad un buonissimo lavoro dietro le pelli di Mr. Giannis Chionidis, i Deathcraeft inseriscono nel loro repertorio costanti richiami al Progressive Death tinteggiando qua e là i riff con sezioni atmosferiche. Da qui, però, segue inevitabilmente un rischio che i Nostri forse non avevano tenuto in considerazione, ossia quello di perdere un po' il filo conduttore. Mi spiego. È indubbio come l'act greco sia riuscito nell'insieme a confezionare un prodotto che porta la sua firma; ma se si ascolta con più attenzione è possibile incappare in alcuni punti in cui la musica sembra voler osare troppo andandosi a perdere in eccessivi giri e ghirigori. Ciò è testimoniato anche da una durata abbastanza importante: quasi 50 minuti per otto tracce, ossia 5 minuti e mezzo di media a brano. Se nella prima metà i Nostri sembrano maggiormente amalgamati e decisi, ecco che da "Survival" in poi "On Human Devolution" inizia a mostrare dei segni di cedimento che si traducono in passaggi un po' macchinosi e tendenti più alla ripetizione. Fortunatamente è con la finale "Free into the Void" che l'asticella risale un po', ma in generale un buon 50% dell'intera proposta tende a perdere in personalità e grinta. Comunque sia, un paio di ascolti ve li consigliamo tranquillamente, perché ci sono parecchi spunti interessanti. Buona fortuna per il futuro!
Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Dal vocabolario Treccani: "Terrore: sentimento e stato psichico di forte paura o di vivo sgomento, in genere più intenso e di maggiore durata che lo spavento". Ora immaginate una musica che riesca esattamente a suscitarvi questa sensazione; anzi, per essere più precisi tiriamo in ballo il terrore cosmico di Lovecraft: quella paura incontrollabile, irrazionale ed inspiegabile per l'ignoto che scaturisce da dentro per un non ben definito "qualcosa" e che poi si tramuta in follia. Dicevamo. Provate a trasporre queste sensazioni in musica, magari immaginandovi da soli, al buio, con il solo vagare dei vostri pensieri come unica compagnia. Ecco, tutto ciò possiamo chiamarlo con un nome: Deathspell Omega, il trio francese espressione massima del Black Metal avanguardistico. Giunti al loro ventiquattresimo anno di vita, i Nostri si preparano ad entrare in una nuova fase compositiva con questo "The Long Defeat": settima inquietante creatura che ridefinisce ancora una volta il concetto di "Avant-garde". Ma andiamo con ordine.
Il disco è stato annunciato solamente una settimana prima del rilascio, a soli tre anni di distanza dal precedente ed ottimo "The Furnaces of Palingenesia". Nessuno, ovviamente, si aspettava un nuovo lavoro in casa Deathspell Omega, soprattutto per l'ormai famoso alone di mistero che aleggia attorno al progetto di cui si sa molto poco oltre i nomi dei componenti. Comunque, chi si aspettava un disco che riprendesse le redini degli scorsi capitoli resterà esterrefatto nel constatare quanto il trio abbia totalmente cambiato modus operandi in fase compositiva. Innanzitutto le registrazioni in presa diretta per un sound più vero e genuino. A seguire, poi, un songwriting diverso che, come dichiarato anche dalla band, inaugura una nuova fase. Sia chiaro, la firma dei Deathspell Omega è sempre quella: musica oscura, penetrante, glaciale e folle. Tuttavia nel piatto i Nostri hanno messo molto altro, alzando esponenzialmente il livello dell'evoluzione musicale. Il Black che ne scaturisce tocca lidi mai sfiorati prima: il sound è più corposo, disturbante, folle ed impossibile da catalogare in uno o più filoni. Quaranta minuti di tortura che richiamano costantemente gli ultimi Ulcerate per poi abbracciare la magnificenza lovecraftiana dei The Great Old Ones, la malattia mentale dei Portal e i giri impossibili ed ipnotici dei connazionali Esoctrilihum. Ma la maestria di Mikko Aspa e soci non finisce qui, altrimenti i Deathspell Omega non sarebbero più unici che rari. La sua stessa voce è parte integrante della proposta: senza di essa quella vena caustica e malata che ti trasporta in dimensioni astrali ignote verrebbe meno. Merito anche del leggendario Mortuus dei Marduk come ospite, il cui contributo ha dato la lode all'intera sezione vocale. In secondo luogo, poi, ciò che rende "The Long Defeat" un capitolo completamente diverso e superiore ai suoi predecessori è la vena progressive e soprattutto melodica ancora più calcata. Di fatto ci troviamo davanti ad un'opera che fa dell'imprevedibilità uno dei suoi cavalli di battaglia; in pratica non sai mai cosa c'è dietro l'angolo: rallentamenti improvvisi, blast beat frenetici, giri impossibili di chitarra tra arpeggi, ghirigori o sezioni Black classiche - per quanto si possa parlare di "classico" in un lavoro dei Deathspell Omega -. Ed anche qui abbiamo il preziosissimo contributo di un colosso della scena Black: M. dei polacchi Mgła. Questi ultimi noti per due fattori principali: la potenza evocativa e la ripetizione spasmodica ed ipnotica dei riff. Immaginate quindi quanto la sua presenza sia stata importante.
Senza andare troppo per le lunghe, siamo in presenza di qualcosa di totalmente sfuggente a qualsiasi comprensione razionale, figuratevi una recensione! Con molta probabilità questo sarà l'album dell'anno, e non tanto per il lodevole ed inarrivabile lavoro di scrittura. O meglio, non è solo questo che rende i Deathspell Omega una realtà - come gli Ulcerate del resto - più unica che rara. Oltre a segnare uno spartiacque totale nella loro carriera, "The Long Defeat" porta con sé una carica emotiva ed una personalità monolitica mai viste prima d'ora: dalla spiccata eleganza e austerità di ogni singolo minuto sino al terrore puro che si prova durante l'ascolto. In una parola: capolavoro!
Ultimo aggiornamento: 25 Marzo, 2022
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Divertente, simpatico e non si prende mai sul serio: Abbath lo si ama sin dai tempi dei leggendari Immortal. L'artista norvegese riesce sempre a far parlare di sé, spesso anche per le cadute di stile - e non solo - che in questi ultimi anni sono state parecchie a causa di una forma non propriamente smagliante. Ma, al di là di tutto, il buon Abbath non si è mai tirato indietro, soprattutto nel suo progetto solista con il quale giunge al terzo episodio licenziato da Season Of Mist: "Dread Reaver". Disco che arriva a soli tre anni di distanza da "Outsider" e che fondamentalmente ne prosegue gli stilemi andando a cementare ulteriormente lo stile compositivo. Tuttavia sarebbe ingiusto affermare che questo "Dread Reaver" sia una sorta di copia/incolla del fratello maggiore: se da un lato è indubbio come la musica di Abbath abbia quell'inconfondibile firma - stiamo pur sempre parlando di un compositore con i cosiddetti -, dall'altro è interessante notare come l'artista si sia maggiormente aperto ad altre influenze. In questi 40 minuti il disco sembra volersi scrollare di dosso gli ultimi sentori del glorioso passato del vocalist e chitarrista, quasi a mettere una pietra sopra ad un capitolo chiuso. La sensazione che possano esserci degli sprazzi à la Immortal è da ricondursi ad uno stile piuttosto cupo ed austero, ma siamo ben lontani da quelle sonorità così fredde e nordiche a cui siamo abituati. Quindi, tanto per sintetizzare: degli Immortal non c'è più niente qui. Ciò che resta è però una musica che fa dell'epicità e della ferocia i suoi bastioni: il Black proposto riesce a toccare dei momenti veramente concitati e battaglieri, con costanti richiami alla NWOBHW. Quest'ultima in particolare la si percepisce nel sound molto grezzo e in alcuni passaggi che sprizzano Mötorhead da tutti i pori, compresa anche una graditissima cover di "Trapped Under Ice" dei Metallica a ricordarci quanto il disco sia costantemente impregnato di anni '80. "Dread Reaver" è quindi la classica opera che ti aspetteresti da uno come Abbath, né più né meno. Un disco onesto che non vuole andare oltre determinati schemi ma che tuttavia non scade in soluzioni semplici, noiose o poco appetibili. Semplicemente va a consolidare - e a dirla tutta, a volte a migliorare - una linea compositiva nella quale Abbath riesce a muoversi benissimo; merito, ovviamente, anche della consolidata line-up rimasta immutata dal precedente disco nella quale figura la nostra connazionale Mia Wallace, già bassista della Thrash Metal band Nervosa. A conti fatti il nuovo episodio in casa Abbath è ben lungi dal mostrarci un artista in declino, motivo per il quale ci sentiamo di consigliarvelo ad occhi chiusi: saprà regalarvi dei gustosissimi momenti concitati e, perché no, da pogo selvaggio.
Ultimo aggiornamento: 24 Marzo, 2022
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Fino a qualche minuto fa non sapevo dell'esistenza del quintetto finlandese Mortyfear; e magari fosse ancora così dato che ho appena perso circa 40 minuti della mia vita ascoltando questo "My Dystopia", secondo album della band licenziato da Inverse Records. Forse uno dei dischi più brutti ed inascoltabili che mi siano mai capitati tra le mani, e ancora fatico a credere come una label così importante abbia solo lontanamente pensato di produrre un lavoro del genere. E, ironia della sorte, l'unica cosa che si salva qui è la produzione; il resto è abominevole. Un'accozzaglia impietosa di roba elettronica, suoni a ca**o di cane buttati qua e là, growl alternato a clean vocals e urli simil-gallina sgozzata che non ci azzecca nulla, ritmiche che copiano impietosamente i Fear Factory... Insomma, qualcosa che nemmeno ho avuto il coraggio di sentire dall'inizio alla fine. Sinceramente dopo la prima traccia "Circus Called Life" pensavo il disco avesse preso qualche vena strana ed interessante; perché se ci fosse stato qualcun altro al posto di chi vi scrive, penso avrebbe immediatamente cestinato il file. Il sottoscritto ha invece deciso - che io sia dannato - di dare fiducia alla band, scoprendo solo in seguito che "My Dystopia" va solamente peggiorando minuto dopo minuto in un turbinio di suoni buttati dentro senza la minima logica. E badate bene, chi vi scrive è un grande fan della musica sperimentale, vedasi Portal, Ulcerate, Gorguts e compagnia bella. Ma signori miei, usare il termine "sperimentale" qui è come voler dire ad un tizio in stampelle "sei proprio in gamba": giusto per sdrammatizzare, dato che il termine migliore designerebbe il prodotto di scarto che produciamo dopo aver digerito e che mandiamo via con un tiro di sciacquone. Non dico nemmeno che si tratta di un disco bocciato, perché presupporrebbe che il lavoro in questione abbia comunque un potenziale che può esser tirato fuori. L'unica cosa da fare qui è cancellare ogni copia fisica e digitale e far finta che non sia mai successo nulla.
Ultimo aggiornamento: 24 Marzo, 2022
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Continua per la sua strada il geniale e poliedrico Niklas Sundin, reduce da due ottimi album con il suo progetto solista Mitochondrial Sun: musica elettronica sperimentale, oscura ed impossibile da inquadrare in un solo genere. Come da lui spiegato in una nostra intervista, il progetto dell'ex-Dark Tranquillity sin da principio non ha delle coordinate stilistiche precise, semplicemente perché il buon Sundin ha voluto comporre la sua musica senza seguire un filo conduttore. Il risultato è quindi è un progetto che fa dell'eterogeneità il suo forte, come è nuovamente successo in questo "Bodies and Gold", primo EP giunto dopo un solo anno dal secondo disco e che, come era prevedibile, si è di nuovo differenziato dal predecessore. Questa volta siamo su lidi molto ma molto più sperimentali ed eterei: sei tracce nelle quali la chitarra è quasi del tutto - per non dire proprio totalmente - assente in favore di un massiccio uso di sintetizzatore e suoni elettronici e costanti innesti strumentali come violini e pianoforti. Insomma, se da una parte ci aspettavamo da Mr. Sundin un'opera diversa dalla precedente, dall'altra parte non ce l'aspettavamo così tanto diversa. Sembra proprio che l'artista sia stato fedele al 100% con quanto dichiarato, ossia dare sfogo totale al proprio estro artistico senza barriere compositive di alcun tipo. Se in "Sju pulsarer" del 2020 la vena Dark Metal era molto marcata, con costanti richiami al Black, ed il mood era estremamente oscuro, qui la questione è totalmente differente ed opposta. Sono le atmosfere eteree, sognanti e intangibili a dominare l'intero EP, quasi a voler creare la colonna sonora di un viaggio onirico verso dimensioni astrali lontane. Filosofeggiando un po', possiamo dire che "Bodies and Gold" - e la copertina sembra volerlo suggerire - si sia totalmente spogliato della forma lasciando solo la sostanza. Parafrasando: minuto dopo minuto la sensazione che si respira è quella di volersi liberare dalle catene del razionale e della realtà per buttarsi in mezzo al caotico turbinio delle emozioni e dei sogni. Intento che, a detta nostra, il buon Niklas ha saputo perfettamente esprimere attraverso la sua musica; segno, questo, di come l'artista riesca a muoversi perfettamente anche all'interno di suoni e colori del tutto opposti a quelli a cui siamo abituati con la chitarra elettrica. Chissà cosa ci riserveranno in futuro i Mitochondrial Sun. Da parte nostra siamo di nuovo di fronte ad una piccola grande perla di musica strumentale.
Ultimo aggiornamento: 24 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Non sappiamo nulla dei Monumentum Damnati, nemmeno la provenienza che risulterebbe essere internazionale. Dei sei membri che compongono questo progetto nato nel 2018 ci è dato sapere solo il nome d'arte ripreso dalla mitologia di Lovecraft e il fatto che si siano incontrati in una clinica psichiatrica (?????). Il gruppo, dunque, ha messo in musica questo "In the Tomb of a Forgotten King", album che riflette in pieno l'esperienza e la caotica visione di ciascun membro. Melodic Death/Doom che si riflette in un mix in cui le coordinate di nomi quali My Dying Bride, Swallow The Sun, Insomnium e qualche punta Funeral Doom degli ultimi Skepticism si uniscono dando vita ad un immaginario folle ma allo stesso tempo ben deciso ed indirizzato. Sinceramente dalla descrizione del genere proposto e considerando il background dei musicisti coinvolti mi aspettavo una musica molto più oscura o comunque annichilente. Invece i Nostri hanno optato per un approccio più cristallino ed etereo, ricco di orchestrazioni e ghirigori che, in una visione di insieme, riescono comunque a creare un'atmosfera lugubre ed austera ma godibilissima. Merito anche di un songwriting ben equilibrato che lascia spazio a tutte le influenze di cui sopra senza scadere in una ripetizione noiosa dei soliti pattern. Unico punto di demerito di questo "In the Tomb of a Forgotten King": la voce ed alcuni passaggi un po' troppo scolastici. Se per la seconda non c'è bisogno di spiegazione, per la prima è doverosa invece una precisazione. Non ci è dispiaciuto affatto il growl di Thanatos, che risulta essere perfettamente in linea con il mood "cavernoso" ed austero di tutta l'opera, tuttavia risulta un cantato alla lunga monotono e prolisso cristallizzato su un solo timbro vocale, senza alti né bassi. Quindi, in definitiva, ad un orecchio attento la cosa potrebbe risultare fastidiosa o noiosa; un vero peccato se consideriamo come il disco continui incessantemente a toccare parecchi lidi senza focalizzarsi su un solo stile.
Ultimo aggiornamento: 14 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Quarto album per i Necronautical, band inglese che giunge al suo dodicesimo anno di vita. Reduci dall'ottimo "Apotheosis", per i Nostri la sfida era quella di mantenere - e magari superare - il livello compositivo raggiunto; impresa resa ancora più difficile se si considera come il gruppo abbia di volta in volta arricchito il proprio sound giungendo ad un'importante maturazione musicale. Eppure Naut (Winterfylleth) e soci ce l'hanno fatta con una scommessa che, col senno di poi, si è rivelata essere vincente, ossia mischiare ancora un po' le carte del proprio sound. Se i Necronautical si sono sempre mossi tra un Blackened Death simil-Behemoth e un Symphonic Black moderno fortissimo dell'influenza dei mostri sacri francesi Anorexia Nervosa, adesso è la seconda componente a farla da padrona. Una mossa che apparentemente sembra scontata o facile da attuare, ma possiamo garantirvi che non è così. Mi spiego. Lo stile dei Nostri si è certamente evoluto con il tempo, appoggiandosi su una base classica, ma sempre e comunque puntando lo sguardo in avanti. I risultati non hanno mai deluso le aspettative, tant'è che la band si può tranquillamente considerare un caposaldo del Black moderno. Tuttavia era palese come si cercasse costantemente un equilibrio tra le influenze appena citate: formula peraltro rivelatasi vincente. In questo "Slain in the Spirit", invece, si percepisce un modus operandi diverso, più libero ed eterogeneo e soprattutto maggiormente incentrato sulle sinfonie e le orchestrazioni. Il songwriting è complesso, stratificato e spalmato lungo quasi un'ora in cui i Necronautical si destreggiano tra ghirigori, abbellimenti, melodie, giri complessi di chitarre. Il tutto, dicevamo, suonato con grande classe e padronanza, dando certamente spazio alla fantasia, ma non scadendo nella proverbiale troppa carne sul fuoco. Non è certamente un ascolto facile da cogliere al primo colpo, ma con il giusto tempo ecco che "Slain in the Spirit" si apre in tutta la sua maligna eleganza. In alcuni punti il disco sembra tinteggiarsi anche di un vago sapore Death tipico dei nostrani Fleshgod Apocalypse, a testimonianza di come qui si sia voluto premere di meno sul freno. Chiaro, non è un album esente da difetti, a cominciare dallo stile proposto che molto - a volte forse troppo - deve ai già citati Anorexia Nervosa; per intenderci, stilisticamente nulla di così eccessivamente nuovo sul piatto e forse a volte sembra che le tracce si perdano un po'. Ma comunque, se siete fan della scuola Symphonic Black moderna qui troverete un'opera che saprà soddisfare la vostra richiesta. Dal canto nostro "Slain in the Spirit" è il migliore dei quattro capitoli proposti dalla band, e forse il primo a dare veramente una personalità forte ai Necronautical. Complimenti!
Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 2022
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Non smetteremo mai di dirlo: lo Slam è un genere che spacca sempre a metà gli ascoltatori, semplicemente perché o lo ami o lo odi. C'è da dire, poi, che quasi tutti i gruppi che compongono questo sottobosco del Death tendono tutti a suonare la stessa roba; capite dunque come sia difficile trovare in un mare così vasto - e tendenzialmente piatto - qualche perla. Tolti i grandi nomi come Abominable Putridity, Devourment, Katalepsy, Kraanium e compagnia bella, è un'impresa imbattersi in qualche giovane realtà che davvero sa mettere del suo in un genere già di per sé oltranzista e fedele al rigore stilistico. Eppure se si scava a fondo in questa poltiglia, di band valide ne vengono fuori. Oggi è il caso dei canadesi NecroticGoreBeast: quartetto nato nel 2017 che già approdò sui nostri portali con l'album di debutto omonimo e che oggi torna con la sua seconda fatica, il qui presente "Human Deviance Galore" - ci scusiamo per il ritardo -. Prima di proseguire è doverosa una premessa: chi vi scrive è un grande fan dello Slam, tuttavia riconosco come recensire un disco del suddetto genere sia piuttosto difficile, semplicemente perché c'è poco da dire in merito dal punto di vista stilistico. Lo Slam, per capirci, è sempre quello: chitarre super droppate, stop and beat come se piovessero budella, sfuriate iper blastate e pig squeal a rotta di collo. Pochi(ssimi) ingredienti che di certo non lasciano molto spazio a chissà quale sperimentazione. A fare la differenza tuttavia è il come queste componenti vengono miscelate, a partire dalla produzione, il primo step che divide un'accozzaglia inascoltabile e pastosa da un lato ed un mix di violenza pesante e marcia ma comunque distinguibile dall'altro. Fortunatamente mamma Comatose Music sa come trattare lo Slam e questo "Human Deviance Galore" ne è la prova. Successivamente c'è da dire come il quartetto canadese abbia parecchio alzato il tiro rispetto al primo disco, molto più improntato su un approccio (fin troppo) classico che trasudava Abominable Putridity da tutti i pori. Chiaro, siamo comunque in quei territori ora, tuttavia John Mayer e soci hanno saputo raggiungere un giusto compromesso tra la componente prettamente Slam e le cavalcate assassine del Brutal Death; il che non è da poco visto e considerato che per suonare come gli Abominable Putridity devi essere gli Abominable Putridity. Evidentemente i Nostri lo hanno capito aprendosi maggiormente ad un Death meno chiuso e serrato su quegli stilemi, regalandoci quindi un album marcio fino al midollo ma in grado di alternare molto bene entrambe le coordinate stilistiche. Ascolto super consigliato per gli amanti di queste sonorità ma anche per chi sta cercando qualcosa per approcciarsi in maniera meno oltranzista al genere.
Ultimo aggiornamento: 08 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Spengono le 15 candeline i Deserted Fear, trio tedesco che ha saputo ritagliarsi una fetta più o meno grande del panorama Death europeo. Una carriera densa di uscite che culmina in questo "Doomsday", quinto capitolo per i Nostri nuovamente licenziato dal colosso Century Media Records e, finalmente osiamo dire, il primo disco veramente degno di nota. Come è stato fatto presente anche nelle scorse recensioni, ma anche dalla maggior parte della critica, i Deserted Fear sono la classica band che - riprendiamo le parole di un nostro vecchio commento - si è trovata nel posto giusto al momento giusto, ossia una realtà che si è sempre assestata su un livello medio con buone produzioni ma nulla di più. Un trio affiatatissimo che in live riesce sempre a fare la sua gran figura con pezzi che funzionano alla grande ma, lo ripetiamo, senza infamia e senza lode. Tuttavia, come accennato poc'anzi, la musica è - finalmente, ripetiamolo - cambiata, in tutti i sensi. Dal Death ispirato alla scuola Bolt Thrower e Benediction costantemente tinteggiato dalla vena Dark Tranquillity ad un Death molto più groovy e vicino agli Amon Amarth con costanti giri ed aperture stilistiche verso lidi più melodici. Possiamo quindi dire che i Deserted Fear abbiano semplicemente aggiustato il tiro o semplicemente voluto osare di più. In ogni caso è innegabile che il gruppo sia riuscito perfettamente nell'intento di darci in pasto un album che non ti fa esclamare soltanto "ah sì, carino", ma un vero e proprio "wow!". Se da una parte le scorse produzioni risultavano magari più dirette per via di un songwriting più asciutto e "scolastico", qui bisogna darsi un po' più di tempo per apprezzare la musica dei Nostri. Chiaro, lo stile è quello, consolidato ed inconfondibile, soprattutto la produzione bella gonfia e ovattata e le chitarre "zanzarose". Tuttavia è nella struttura dei brani che "Doomsday" riesce a salire di livello: la sensazione è dunque quella di un disco pensato e suonato con pochissimi freni inibitori, quasi a voler essere permeabili anche ad altre influenze; cosa peraltro vera dato che il Death è, a volte, relegato a dei passaggi di contorno. Di una cosa siamo sicuro: in sede live il disco spaccherà e non poco, grazie ad episodi degni di nota come "Idols Of Triumph" o la mia preferita "Follow The Light That Blinds".
Ultimo aggiornamento: 04 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Candida, leggiadra, dolce, pungente, fredda come l'acqua che sgorga da una sorgente incontaminata, immacolata come una fragile creatura... Non penso si possa trascrivere a parole la musica di Sylvaine, polistrumentista norvegese che risponde a nome di Kathrine Shepard. Tutto nelle sue opere parla di sé, in un meraviglioso immaginario fatato ed etereo sperduto in chissà quale foresta incantata del quale ella è la splendida e bianca regina elfica. Insomma, Sylvaine è la delicatezza fatta musica, una carezza più leggera del velluto sulla faccia, ma allo stesso tempo un qualcosa di sfuggente, lontano anni luce. Non sorprende, dunque, se questo "Nova", quarto album della ragazza e terzo licenziato dalla sempre garanzia Season Of Mist, sia un capolavoro di Post-Metal/Shoegaze degno dei migliori lavori degli Alcest. E non è un caso se li abbiamo appena nominati essendo Kathrine fortemente legata ad essi: in primis per l'amicizia con Neige, con il quale ci sono state parecchie collaborazioni - l'artista francese è stato anche live drummer dei Sylvaine -. In secondo luogo perché Sylvaine, così come gli Alcest, punta tantissimo sulle melodie eteree, ridondanti e tinteggiate da richiami al Black Metal lungo le quali la voce si scioglie come neve al sole in un continuo ossimoro tra clean vocals e scream. Per forza di cose, dunque, le due realtà sono punti cardine di questo modo di intendere il Post-Metal. Ma veniamo a noi con "Nova", il disco forse più completo e stilisticamente maturo della discografia di Kathrine, che questa volta ci ha regalato un'esperienza sensoriale molto più convincente e decisa rispetto ai precedenti capitoli. Se questi alla lunga potevano risultare stucchevoli per via di un mood eccessivamente sfumato e sognante, adesso gli equilibri sono stati ridefiniti: è certamente un album che sa di Sylvaine, ma questa volta l'andamento delle tracce segue dei percorsi meno scontati e maggiormente improntati ad un ossimoro tra la durezza tagliente del Black e la delicatezza quasi intangibile tipicamente Post-Metal/Shoeggaze. In questo oscillare l'artista si inserisce a meraviglia con la sua voce che riesce a sciogliersi nella melodia o a gelare con uno scream deciso. Basta solamente l'opener "Mono No Aware" a darci immediatamente l'esempio perfetto della dicotomia appena descritta: sembra di ascoltare un lavoro dei primissimi Alcest, con la differenza che il tono più deciso ed il riffing meno "sdolcinato" ci regalano 50 minuti di puro godimento per i sensi. Traccia dopo traccia si assaporano le più disparate emozioni, dalla rabbia alla malinconia, dalla gioia spensierata di un bambino che gioca o del primo bacio dato alla persona amata alla tristezza più cupa per la perdita di tutto ciò che si ha intorno. Ecco, la potenza evocativa di "Nova" non conosce limiti superando perfino le parole con cui stiamo cercando di darvi un'idea dell'opera, semplicemente perché ognuno dà alla stessa il suo significato. Di una cosa siamo certi: avrete la pelle d'oca per quasi un'ora.
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