Opinione scritta da Dario Onofrio
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Top 50 Opinionisti -
Nel panorama delle rockstars con moltissimi anni di carriera alle spalle, ma che continuano a svolgere il loro lavoro come si deve, è impossibile non annoverare Lita Ford.
Superata ormai la cinquantina, Lita è tornata sulle scene lo scorso anno con un album dal titolo che è un programma: Living like a Runaway, dedicata alla leggendaria band statunitense di cui la signora del rock fece parte. E quest'anno la chitarrista ritorna con un live registrato a Los Angeles, chiamato provocatoriamente The Bitch is Back: Live.
Accompagnata da Mitch Perry alla chitarra ritmica, Bobby Rock alla batteria e Marty O´Brien al basso, Lita ci propone una scaletta mozzafiato che va dai pezzi più recenti della sua discografia fino ai grandi classici (Out for Blood, Can't Catch Me, Dancing on the Edge, Close my eyes forever e l'indimenticabile Kiss me Deadly), proposti tutti a fine show.
Il live si apre con la cover di Elton John che dà il nome al disco: The bitch is back, appunto. Una reinterpretazione che sicuramente qualcuno ha già avuto modo di sentire nell'album dello scorso anno, ma che dal vivo non perde affatto il suo smalto. Lita dal vivo è veramente bravissima: nonostante il peso degli anni si faccia sentire sulla voce, la sua grinta e la sua voglia di rockeggiare si sentono da qualsiasi punto del disco, dal riff all'intrattenimento del pubblico, e dubito che ci siano state sovrincisioni o altre cose di questo tipo. Sicuramente le tracce che dal vivo rendono meglio sono Living like a Runaway e tutti i classici, che la bravissima chitarrista ci propone con una voglia di spaccare altissima.
Insomma, se siete appassionati di Lita Ford questo live non potrà mancare nella vostra collezione. Agli altri consiglio vivamente di acquistare gli mp3 della seconda parte del concerto, per conoscere una Lita più "donna", ma che non ha affatto perso la grinta e la volontà degli anni 80'.
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L'hard rock o in generale l'hard'n heavy è ormai diventato un genere dove è difficile farsi un nome, se non nel caso in cui la band che suona questi generi adotti strategie e composizioni orginali in grado di emergere. Credo che questo sia il caso dei fratelli Cerzosie, che nel 2009, con il loro progetto "The Infinite Staircase", accompagnano nientemeno che i Black Label Society in tour. Tre anni dopo i nostri decidono finalmente di registrare un disco, anche grazie all'aiuto dei numerosi amici che si sono fatti in campo musicale, e nasce No Amends.
Cosa abbiamo tra le mani con questo disco? Sei tracce di puro hard rock, con sapori hard'n heavy e perché no anche qualcosina di southern. Ma chi suona gli altri strumenti se i due fratelli si dedicano principalmente a voce e chitarra? Beh, lustratevi gli occhi: Morgan Rose (Sevendust) alla batteria su tutte le tracce, John "JD" DeServio (Black Label Society) al basso su alcune tracce, Chris Caffery (Savatage) alle chitarre su un paio di pezzi, Clint Lowery (Sevendust) sempre su chitarra e voce e infine sua maestà Zakk Wylde alla chitarra su The Pride. E non ne ho citati molti altri un po' più sconosciuti!
Il risultato di questa fucina di idee è un disco molto ben costruito, che fila via liscio come l'olio e non impegna eccessivamente l'ascoltatore, sin dalla prima Can't Control it, basata su un bel riffone e sulla voce interessante dei Cerzosie, passando per mid-tempo come The things we've done o Slowly at least e le rockeggianti Just to meet you e la finale The Pride. Menzione d'onore anche per la ballad/title-track, veramente rilassante e suonata e prodotta con tutti i crismi.
Insomma, se vi piacciono Airbourne, Lynyrd Skynyrd e Black Label Society questo disco/ep è pane per i vostri denti: dateci un'ascoltata e sostenete i fratelli Cerzosie, perché hanno tutte le carte in regola per formare una gran bella band.
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L'esordio, per una band, è sempre il momento più difficile. Non si sa mai quali saranno le reazioni del mercato, della critica, se si aggiungeranno schiere di nuovi fan eccetera. Ai Metaphysics, band progressive metal di Frosinone, il passo è toccato circa un annetto fa, con questo discreto esordio dal titolo Beyond the Nightfall.
Esordio che subito con Fallin' mette le cose in chiaro: siamo in piena scuola dreamtheateriana, con melodie complesse ma facilmente memorizzabili, momenti acustici di grande rilievo e cori ben studiati, con un lavoro di power-drumming perfetto. Come l'orologio in copertina i nostri creano una perfetta alchimia musicale suonando come fossero ingranaggi: è così che passiamo da pezzi con un basso marcatamente sleppato come Letter from a dead man a pezzi più catchy come Follow your desires. C'è da dire che i nostri sono capaci di mettere d'accordo amanti di genere più disparati: potrete trovarvi d'accordo tra fan dei Marillion dell'epoca Fisch e post-Fisch, tra i Fates Warning dell'era epica e quelli dell'era puramente prog fino ai Faith no More vecchi e nuovi. Il tutto viene condito con la voce fortemente melodica del singer, anche se risulta sicuramente più interessante sentire il lavoro strumentale. Si prosegue con la bellissima Shadow Games, forse il pezzo che ho preferito nel disco e quello che vi consiglio più di ascoltare, in una bellissima alternanza tra parti più dure e altre più proggose. Una canzone che si rifà chiaramente agli anni 90', così come la successiva ballad Just a Dream, ottima nello spezzare il ritmo preso dal disco coi pezzi precedenti. Un altra traccia che sicuramente piacerà molto ai poweroni è Searching for... , ottima nel suo lavoro di tastiere (beh ci credo, andando a leggere scopri che c'è Andrea Di Paoli che ha aiutato ed accompagnato in alcuni punti il bravo Gabriel Shiro) e con un tempo tanto regolare quanto accattivante. Ci avviciniamo alla fine del disco con l'intro When everything comes to an end seguita dalla potentissima e complessissima Reinissance, per poi arrivare alla classica suite prima dell'outro strumentale: Lifend. Un pezzo davvero niente male, che nei suoi nove minuti esplora un sacco di tempi diversi, svariati assoli e riff diversi, una tastiera indiavolata e un canto davvero appassionato. Ad accoglierci alla fine ...Light, che come dicevo prima è totalmente strumentale e tra tempi jazzosi e tastiere malinconiche ci riporta sicuramente indietro di un decennio buono come sonorità.
Insomma, Beyond the Nightfall sarà sicuramente una sorpresa per tutti i proggers desiderosi di sentire un sound già collaudato ma che funziona alla grande (al contrario, a mio modesto parere, dell'ultimo Dream Theater...), quindi se dovesse capitarvi dateci un'ascolto e non ve ne pentirete.
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Nel mondo del power metal teutonico si possono trovare dalle band più classiche di sempre (Gamma Ray, Helloween) fino a nomi quasi più underground: questo è il caso dei Mystic Prophecy, giunti all'ottavo disco dopo tredici anni di carriera.
Durante questi anni la band è stata un crogiuolo di idee e musicisti che in seguito si sono spostati da altre parti, se non per la presenza costante del singer Roberto Dimitri. Con Killhammer la band si sposta su sonorità più epiche, addirittura a volte rockeggianti, ricordandomi spesso gli svedesi Grand Magus.
Il disco si apre sulla title-track: potente, massiccia, melodica e con un bel riffone, ma è da Armies of Hell che i nostri ci mostrano veramente il loro lato più pesante. Le sonorità sono quelle tipiche della band teutonica, nonostante appunto piccoli excursus su territori epic e quasi thrash metal. To Hell and back è la più classica delle power-ballad, mentre Kill The Beast e Hate Black ci riportano su un territorio fatto di riffoni e cori. Continuiamo su questa strada con Children of the Damned, pezzo dal sapore hammerfaliano (degli ultimi tempi) che se la cava bene col suo chorus trascinante, per poi arrivare al pezzo meglio costruito di tutto il disco: 300 in blood è ovviamente dedicata ai 300 guerrieri spartani che persero la vita nella difesa delle Termopili contro i persiani. Il pezzo si apre su un intro acustica per poi scaraventarci in un riffone "orientaleggiante", scatenare poi un tempo regolare e arrivare a un chorus che non vi sarà possibile non cantare! L'attitudine quasi thrashosa della band qui esce senza problemi, con delle tirate di riff e batteria che ci rimandano davvero a un altro tipo di musica. Angels of Fire e Warriors of the Northern Sea invece riportano il tutto a un livello più classico, la prima orientata verso un più classico heavy teutonico e la seconda verso un power più classico che spesso sfocia ancora in territori thrash.
A chiudere il disco l'arrabbiatissima Set the world on Fire, che sembra quasi riferirsi ai movimenti occupy e alle vicende della crisi economica mondiale, e, come da tradizione, una cover di Ozzy Osbourne: stavolta tocca a un buon riarrangiamento di Crazy Train.
I Mystic Prophecy quindi si mostrano ancora una volta determinati a non cambiare direzione e a continuare su questa strada fatta di riffoni, atmosfere epicheggianti e chorus cantabili. Nonostante possa sembrare banale, comunque, il disco merita almeno un ascolto da parte degli appassionati di heavy e power, non solo per una produzione assolutamente meritevole ma anche per alcune soluzioni veramente interessanti adottate dalla band.
Ultimo aggiornamento: 18 Settembre, 2013
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Van Williams, Matt Barlow e Freddie Vidales: tre musicisti che chiunque segua un minimo di power o prog metal non può fare a meno di conoscere. Cosa ci fanno insieme due ex Iced Earth e un ex Nevermore? Sicuramente il cantante della mitica band americana non poteva stare troppo lontano dal microfono nonostante la vita da poliziotto, ed ecco che, su proposta di Williams, nascono gli Ashes of Ares.
Logo e copertina non troppo elaborati, semplicità e professionalità: sono tutte cose che ritroveremo esattamente nel disco, perché purtroppo gran parte delle aspettative che avevo sono state deluse. Intendiamoci: questo debut non è da buttare, anzi presenta svariati elementi di interesse, con pezzi come l'opener The Messenger, potente e giocata su un interessante sovrapposizione di cori. Purtroppo però lo stile degli AoA risente di una certa stanchezza di idee, e Barlow spesso somiglia troppo a quello degli Iced Earth, se non per la creatività di Williams. Però pezzi come On Warrior's Wing si lasciano ascoltare con interesse, specialmente per i repentini cambi di tempo e ovviamente per le magnifiche prove vocali di Barlow. Andiamo poi tra l'epicità di brani come The One Eyed King e This Is my Hell passando per l'heavy/power di Move The Chains e What i Am, ma tutto con stesse idee chitarristiche, dove lo stile finisce sempre per rimandare agli Iced Earth. Una costante dose di drama comunque giova a uno stile compositivo troppo spesso scarno e con poco mordente.
Peccato davvero per questa formazione, nata sotto grandi aspettative e finita con un debut "sotto le righe". Nonostante l'abilità dei musicisti chiamati in causa tutto quello che l'ascoltatore medio si ritrova tra le mani è un disco normalissimo, senza cadute di stile, ma neanche con picchi di elevata qualità. In ogni caso, se non si pensa alle tre facce che ci sono dietro, il disco è perfettamente godibile e potrebbe persino valere l'acquisto.
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Tra i vari generi sviluppatisi nel nostro paese, nel corso degli anni, va ricordata la costante presenza dell'epic metal. Un genere importantissimo per il popolo italico, anche perché ha sempre dato modo di riscoprire la storia e le vicende dell'Italia antica, medievale, moderna e contemporanea.
Ed è quando questo genere è al suo punto più alto, ovvero verso la fine degli anni 80', che nascono i Martiria.
Prima di sciogliersi rilasciano due singoli: The Twilight of Remembrance e Gilgamesh Epopee, che fanno subito gridare al miracolo tutti i fan che ne entrano in possesso. Purtroppo, le strade dei musicisti si dividono subito dopo e per anni tutti hanno ricordato quelle due magnifiche demo.
Eppure, nel 2003, qualcosa accade: Andy Menario riprende in mano la band, chiamando Derek Maniscalco al basso e Maurizio Capitini alla batteria, mentre per la voce riesce a coinvolgere nel progetto dei nuovi Martiria un personaggio che per ogni ascoltatore di epic metal è leggenda, cioè Rick Anderson dei Warlord.
Esce la demo Celtic Lands, sicuramente il pezzo più bello di quello che sarà poi The Eternal Soul, il disco che nel 2004 segna il ritorno di una vera e propria leggenda. Oggi, nel 2013, esce la ristampa di questo bel gioiellino dell'epic/heavy nostrano, un acquisto sicuramente da mettere in conto per tutti gli appassionati del genere.
I pezzi dei Martiria e le loro composizioni sono sempre molto studiate: basta andare direttamente a The Ancient Lord per rendersene conto, visto che il pezzo inizia con una chitarra acustica e una fisarmonica, in una atmosfera quasi folkeggiante. Ovviamente dopo poco parte il vero e proprio pezzo metal: un torrente di acciaio ci investe tra i riff scatenati di Andy Menario e l'epica voce di Rick Anderson, fino al bellissimo coro. Il disco inizia benissimo e sale sempre più in alto con le spettacolari The Most Part of the Men e Arthur (forse la mia preferita del disco), che combinano perfettamente i riff più rocciosi con una voce che funziona quasi da narratore, specialmente nel secondo pezzo citato, quando Artù parla del fatto di dover affrontare Mordred, il suo stesso figlio. Le tastiere svolgono un ruolo egregio anche in Celtic Lands, che inizia con una tranquilla parte accompagnata dalla voce per poi trasformarsi in un altro pezzo di notevole epicità, specialmente nello stacco acustico prima dell'assolo. Arriviamo poi alla prima "ballad" del disco: Babylon Fire ha un incedere lento e malinconico, almeno fino alla fine della canzone dove la band si concede una cavalcata prima dello struggente solo. Forse il pezzo che mi ha meno convinto del disco è il succesivo The Grey Outside, ma per il semplice fatto che in mezzo a capolavori come quelli sopracitati un pezzo pur bello non regge il confronto! Infatti da Romans and Celts ritroviamo il gusto epico per le tastiere e per un coro a tutta voce, che ci introduce subito un riff granitico e successivamente il vero ritmo della canzone. Un gran bel pezzo, specialmente per il bellissimo ritornello e un altro perfetto stacco prima dell'assolo. Continuiamo su questa strada con The Soldier and the Sky, altro pezzo perfettamente in grado di confrontarsi con i precedenti, e la powerissima Fairies, che con il suo riff spettacolare e ben delineato ci porta dritta sulle note di Winter, ultimo e trionfale pezzo del disco.
Per chi dovesse essersi perso questo capolavoro in passato l'occasione è ghiotta! Nell'elegante confezione è presente anche un live al Play it Loud! festival 2009: una chicca da non lasciarsi scappare in quanto i nostri sono bravi dal vivo almeno quanto sul disco.
Il giudizio finale sul pacchetto è che questa ristampa serviva! The eternal soul era esaurito ormai da anni, e poterselo finalmente inserire in collezione sarà per molti un vanto e un onore tutto italiano!
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C'è power e power, e questo lo sappiamo tutti: un genere vastissimo che si è sviluppato specialmente nel nord Europa degli anni 90', tra Germania e Finlandia. Ed è proprio di una "band" teutonica che andiamo a parlare... Più o meno. Infatti il disco che mi appresto a recensire non è un album dei Rage, bensì della Lingua Mortis Orchestra, cioè una parte dell'Orchestra Sinfonica di Praga (già collaboratrice con band del calibro di Therion, Blind Guardian ed Helloween). Il progetto nasce dalla mente geniale di Victor Smolski, subentrato come sappiamo tre anni dopo la release di quel Lingua Mortis Orchestra che aveva decisamente centrato il punto della power metal band teutonica.
Con questo disco, Wagner & soci coronano un sogno che era nel cassetto da tempo: mettere la maestria e la bravura dei Rage al servizio di un'ochestra, che in questo caso era composta da membri provenienti sia dalla Repubblica Ceca che da Spagna (Orquestra Barcelona Filharmonia) e Bielorussia, più le cantanti Jeannette Marchewka e Dana Harnge che supportano il frontman.
Leggendo il loro studio-report, veniamo a capire come il lavoro fatto sia stato titanico in tutti i sensi: le registrazioni della parte metal e il mix sono avvenuti ai Twilight Hall Studio di Kerfeld, in casa Blind Guardian, le registrazioni di quella orchestrale in Bielorussia. Il tutto sotto l'attento occhio di un signore della produzione come Charlie Bauerfeind, già collaboratore delle band sopracitate.
Insomma, fatte le dovute premesse, com'è questo disco? LMO è un concept-album sulla caccia alle streghe avvenuta a Gelnhausen nel 1599, e si apre subito sulla maestosa Cleansed by Fire. Si tratta di una suite di 10 minuti, molto piacevole all'ascolto e che sfodera dei momenti veramente emozionanti, fondendo perfettamente orchestra e metallo. La produzione è semplicemente eccezionale: era un pezzo che non sentivo dei suoni così ben fatti e un equilibrio di tale livello! Senza contare che le invenzioni compositive sono variegate e non noiose. Segue la più oscura Scapegoat, che dopo una iniziale parte dedicata quasi del tutto ai Rage introduce l'orchestra che accompagna il tutto in una atmosfera assolutamente epica, con la collaborazione di un personaggio come Henning Basse (ex Metallium). La parte "classica" del pezzo ottiene assolutamente un valore aggiunto, così come le tastiere perfette nelle loro entrate durante gli assoli. Subito dopo ci confrontiamo con Devil's Bride, pezzo scritto dal buon vecchio Peavy, che anche qui mostra il meglio di sé aiutato da Smolski e accompagnato dalla bravissima Jeannete, scrivendo un riff assolutamente accattivante su un pezzo regolare, ma mai banale! E anche alla prova più difficile, come la ballad Lament, i nostri sfoderano una bravura imparagonabile a molto del power uscito quest'anno, raggiungendo vette di lirismo altissime e a mio modesto parere raramente sfiorate negli ultimi anni. Dopo la strumentale Oremus tocca al mio pezzo preferito di questo disco: Witche's Judge, che combina un riff catchy con dei suoni spettacolari, e un Peavy che duetta con Janette all'inizio per poi lanciarsi in un ritmo arrabbiatissimo e un ritornello assolutamente all'altezza. Lo stacco strumentale a metà pezzo è poi qualcosa che andrebbe fatto studiare a tanti gruppi power odierni: chitarre, tastiere e orchestra dialogano perfettamente in un'alchimia incredibilmente accattivante. A tirarci fuori da questa perla ci attende l'altro pezzo scritto dal frontman dei Rage: Eye for an Eye, che forse è uno dei pochi a rispecchiare il gruppo teutonico per com'è oggi, e dove l'orchestra rappresenta un sottofondo e non una parte portante. Non per questo la canzone è deludente, anzi! Il ritornello accompagnato dalla soprano Dana Harnge è molto orecchiabile, e anche il riff che strizza l'occhio a Vivaldi è comunque piacevole a sentirsi. Alla soprano poi è dedicato gran parte del resto del pezzo, specialmente lo stacco orchestrale verso la conclusione che porta questo brano ad alti livelli.
Siamo alle battute finali con Afterglow, altra ballad che non vi lascerà affatto delusi per la commistione tra orchestra, metallo e una parte elettronica che non stride assolutamente col resto, anzi lo migliora e lo rende più interessante! Bellissime anche le sezioni finale dedicate all'assolo e una bellissima chiusura a base di flauti e digeridoo.
Ed eccoci al pezzo più accattivante in assoluto del disco: Straight To Hell inizia con un basso decisamente funky che caratterizza tutto il resto del pezzo, in un gioco divertentissimo e ritmato che vi farà venire voglia di fare headbanging con le cuffie nelle orecchie! Sicuramente il pezzo più regolare ma anche quello più simpatico di tutto l'album.
A chiudere il disco un pezzo dal sapore prog come One more Time, che si rivela essere un classicissimo brano power, forse un gradino più basso rispetto al resto, ma valorizzato dal pianoforte e dalle cavalcate di chitarra durante i vari stacchi strumentali.
Insomma, LMO è un disco che tutti gli appassionati di power metal sinfonico devono avere in casa. Era un pezzo che non mi godevo così tanto un album power, continuando a scoprirne lati inaspettati ascolto dopo ascolto. Spero molto che l'esperienza non si concluda qui ed anzi continui nel futuro: con un inizio col botto non possiamo che aspettare con ansia di vedere la Lingua Mortis Orchestra a qualche festival il prossimo anno, sicuri che con una grinta e una fantasia tali assisteremo a dei bellissimi concerti!
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Gothic metal: un termine fin troppo abusato da una varietà pressoché infinita di band. Questo termine racchiude sotto di sé band diversissime tra di loro che variano dai Theatre of Tragedy fino ai Type 0 Negative. Eppure forse è proprio la seconda band che ho citato ad essere stata una delle prime ad aver definito alcuni connotati del genere: non lento come il doom, con parti hard rock/heavy piuttosto marcate.
Se pensavate, inoltre, che dopo la morte di Peter Steele i musicisti dei T0N sarebbero rimasti con le mani in mano vi sbagliavate di grosso: guidati da Sal Abruscato gli A Pale Horse Named Death arrivano alla seconda fatica in studio, con un sound se vogliamo ancora più duro e malinconico del precedente And Hell Will Follow Me. Le premesse per un buon disco ci sono tutte: Matt Brown, uno dei migliori tecnici del suono che si possano trovare sul suolo statunitense, dietro alla chitarra ritmica e addetto ai cori e Jhonny Kelly, ex T0N e Danzing, dietro alla batteria. A chiudere il quintetto ci sono Eddie Heedles alla chitarra e Dave Bizzgotti al basso, per una line-up rinnovata ma che mantiene il nucleo originale della band inalterato.
Lay my soul to waste è appunto l'intro del disco, che va a sfumarsi in Shallow Grave, classico pezzo d'apertura con un bel riffone massiccio e un chorus trascinante e cantabile. Le influenze si sprecano: si sente che ogni membro della band ha messo qualcosa di suo pur senza discostarsi dalla base stoner/doom. Con The Needle in You le chitarre si "inacidiscono", portandoci su terreni più alternativi, mentre Sal Abruscato sfodera uno screaming di gran classe, mentre In the sleeping Grave ci riporta sui toni dell'opener, con un pizzico in più di classico heavy. Uno dei pezzi sicuramente più interessanti è la successiva Killer by the Night, che si sposta su terreni più rockeggianti, mentre iniziamo a frenare la velocità a partire da Growing Old, pezzo che si assesta nuovamente sulle ritmiche delle prime canzoni del disco. Piccola parentesi: i temi sono sempre gli stessi, ovvero la morte, l'omicidio, la solitudine etc... insomma non leggetevi i testi prima di andare a dormire! La ballad Dead of Winter in realtà è molto suggestiva, anche se per alcuni toni resta decisamente inquietante. Verso la fine del disco troviamo ancora dei pezzi veloci come Devil Came With a Smile e DMSLT, intervallati da Day of the Storm, il pezzo più doom dell'album, che fa riferimento agli uragani Irene e Sandy e alla distruzione che hanno portato. A chiudere il disco la conclusiva Cold dark Mourning, ispirata nientemeno che al funerale di Peter Steele...
Insomma, la coppia Abruscato/Brown ha scritto un altro grande bel disco di puro gothic metal "alla vecchia maniera". Certo, non possiamo parlare di capolavoro, ma i cinque musicisti statunitensi hanno dimostrato che si possono scrivere delle belle cose anche con un sound già collaudato e sentito svariate volte.
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Come ben sappiamo, può capitare che delle band subiscano degli stravolgimenti di line-up dopo tanti anni di collaborazione e carriera condivisa. Come è successo per moltissimi gruppi leggendari, specialmente nel folk metal questi rivolgimenti non sono poi così rari (lo split dei gemelli Kirder con gli Eluveitie, i vari ex cantanti dei Finntroll etc.). Così purtroppo è successo ai Månegarm, che dopo più di dieci anni di collaborazione hanno visto andarsene Janne Liljeqvist, il mitico violinista che tanto ci aveva incantato su album del calibro di Vredens Tid e Vargstenen e il leader Pierre Wilhelmsson, autore dei testi e a mio parere vera anima della band. Con la firma per la Napalm Records, Erik Grawsiö, storico batterista e cantante della band, è definitivamente passato al basso sostituendo il capo, delegando il lavoro dietro alle pelli a Jacob Hallegren. Ed ecco che a distanza di cinque anni da Nattväsen la band torna cantando in inglese su Legions Of The North.
Già questa scelta ha fatto abbastanza storcere il naso ai fan più radicali della band: l'abbandono dello svedese è stato visto dai più come un avvicinamento a stili più commerciali (chi ha detto Eluveitie, Ensiferum & co.?), senza contare che l'abbandono di Janne e Pierre è stato un durissimo colpo per la band. E così, pieno di dubbi ed incertezze, ho inforcato le mie cuffie e ho iniziato l'ascolto.
Dopo la classica intro di soli tamburi veniamo subito investiti dalla title-track, e subito mi sono ritrovato a pensare ai primi Falkenbach e ai Mythotin. Questo sarà tutto lo stile che troverete nel disco: un black/viking molto pesante, con pochi stacchi acustici. Nemmeno il violino (di Janne preregistrato o campionato? Boh) riesce a regalarci un momento di particolare attenzione, amalgamandosi al resto degli strumenti. Lavoro "di routine" anche in Eternity Awaits, che sicuramente sarà una delle hit dell'album, facilissima da pogare/headbangare e da cantare, con un ritmo molto folkeggiante. Dopo una breve intro ci aspetta Hordes of Hel, forse uno dei pezzi meno incisivi, ma anche questo con un ritornello in acuto che non mancherà di deliziare gli amanti dei cori. Quello che si direbbe essere il violino di Janne accompagna tutta la canzone, senza mai però spiccare al di sopra degli altri strumenti. Tor Hjälpe risolleva un attimo il morale con la sua palese ispirazione falkenbachiana, ed è forse l'unica canzone a contenere uno stacco acustico e un assolo molto interessanti. Ci aspettano subito dopo Sons of War, altro pezzo da anthem con un coro molto coinvolgente, Echoes from the Past, che con il suo incidere vikingheggiante e il suo stacco acustico su voce femminile farà felici i fan di Amon Amarth e Eluveitie; e Fallen, pezzo che sembra essere il classico anthem da pogo, dove il violino resta ancora confinato sotto agli altri strumenti. A chiudere il disco la blackissima Forged in Fire, che dopo un inizio movimentato ci lascia il tempo di prendere fiato a metà per poi cavalcare di nuovo sul blast-beat, e l'immancabile pezzo acustico che stavolta si chiama Raadh, che mi pare capire sia cantata in diverse lingue. Bene, siamo alle conclusioni: anzitutto mi sento di dire che il disco sembra mixato malissimo, e la batteria addirittura sembra campionata. Sul piano del songwriting poi... Beh, non aspettiamoci i livelli di qualità superlativa dei dischi precedenti, ma Legions Of The North non è da bocciare del tutto. La band è riuscita a stare in piedi nonostante gli anni senza label e la forte crisi che li ha colpiti, e questo è un merito, ed è anche riuscita comunque a conservare un sound particolare nonostante l'approdo verso il commerciale andante. Ma non è neppure da promuovere, questo nuovo disco, da una band che si è vista mozzare due elementi storici in grado di scrivere della musica di altissimo livello e ha presuntuosamente continuato a tenere un monicker forse non proprio adatto alle idee di questa nuova line-up.
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Ci sono artisti che 26 anni di carriera li accusano chiaramente, magari più dal punto di vista tecnico che da quello compositivo, poi c'è Udo Dirkschneider che ha sempre la stessa voce.
Il mitico ranocchio che ha scritto pagine della storia del metal con gli Accept torna dopo 4 anni da Dominator, disco che non mi aveva lasciato particolari emozioni e si collocava in un'epoca di transizione per la formazione teutonica. Infatti segnaliamo che in Steelhammer Stefan Kaufmann e Igor Gianola non ci sono più: al loro posto il connazionale Francesco Jovino e il polacco Audrey Smirnov, con l'aggiunta del nuovo axeman finnico Kasperi Heikkien, sono chiamati a sostituire due musicisti storici della band (non dimentichiamoci che Kaufmann è stato il batterista degli Accept dall'80' al 94').
Dunque eccoci qua: Steelhammer, né più né meno che un disco genuino di puro heavy metal, con pezzi altalenanti in termini di fantasia e qualità, ma che è sostanzialmente un buon prodotto: si parte subito con l'indiavolata title-track, fatta di tempi regolari e sfuriate sia vocali che chitarristiche, con i classici cori delle produzioni di Udo. Classicissime pure A Cry of a Nation, che con il suo ritornello cantabile probabilmente sarà utilizzata in sede live e Metal Machine, che verso la fine prende la rincorsa sull'assolo per darci un'ultima spallata. Se fin qua eravamo su tracce "carine", che fanno muovere la testa e saltare, con Basta Ya cambiamo proprio registro. Dedicata ai movimenti di Indignados e Occupy è cantata totalmente in spagnolo (Udo, da bravo poliglotta, ci aveva già dedicato delle folkeggianti canzoni in russo). A livello di riff la canzone ricorda un po' We Rock del buon vecchio Ronnie, ma appena il ranocchio inizia a cantare si cambiano tutte le carte in tavola: un coro epico e un ritornello facilissimo da cantare sono sia un grido di ribellione contro i poteri forti, ma anche una specie di lamento epico. Insomma, a mio avviso questa canzone si piazza già tra i migliori pezzi heavy metal dell'anno! Dopo un pezzo così travolgente tiriamo il fiato con la straclassica ballad Heavy Rain, dove scopriamo un Udo pulito e quasi lirico, mentre Devil's bite, altro pezzo da tenere in considerazione, ci riporta l'up-tempo che ci mancava da un po'. Death Ride e King of Mean invece sono due pezzi killer, sparati a supervelocità nelle nostre orecchie, mentre Timekeeper è più da "anthem", che fa il suo effetto nel rimanere nella testa dell'ascoltatore.
Ci avviciniamo verso la fine di questo lunghissimo album (ben 14 tracce!) con Never cross my way, tipico pezzo da "america di motociclisti", e l'arrabbiatissima Take my medicine, altro pezzo di cui non ci si dimentica facilmente. Stay True è la sfuriata finale prima delle ultime battute, un inno ai metallari di una volta ma anche alla libertà d'espressione e di essere. Così arriviamo alla semi-ballad When love becomes a lie, che con il suo riff semplice e il suo tempo tranquillissimo ci coccola (si fa per dire!) nonostante il tema sembrerebbe essere il tradimento, e a quello che è l'altro capitolo fondamentale del disco dopo Basta Ya, ovvero Book of Faith.
Questo fenomenale pezzo in chiusura è veramente coinvolgente: inizia con una atmosfera da western, per poi catapultarci in un tempo stranissimo, con il coro che si ripete in continuazione per tutta la prima parte. Questo perché nella seconda Udo diventa symphonic metal! Con l'aiuto di un sintetizzatore veniamo trasportati in una atmosfera apocalittica, come la colonna sonora di un film epico.
Ed eccoci dunque a tirare le somme dell'ascolto. Sicuramente i due punti a sfavore più grossi sono l'eccessiva longevità con troppi pezzi che hanno il sentore di filler e la scarsa inventiva. Eppure gli U.D.O. ce l'hanno fatta anche stavolta, dopo 26 anni di onorata carriera e senza un batterista che per la band e per lo stesso Udo era fondamentale. Steelhammer non sarà sicuramente un disco che resterà molto nei vostri stereo, ma basterebbero solo i due pezzi migliori per considerarlo un buon acquisto e una curiosità per i prossimi lavori della band. D'altronde, come dice il ranocchio stesso "Io scrivo semplicemente metal. Se poi una canzone ha bisogno di un flauto o una fisarmonica dentro non dico certo di no!".
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