Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli
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Ultimo aggiornamento: 02 Mag, 2022
Top 10 opinionisti -
Se siete amanti della vecchissima scuola Metal, quella che discende direttamente da gente quali Slayer, Sodom, Venom e tutta la prima ondata estrema americana, allora in questo brevissimo EP "Temptation Steel Scourge" degli statunitensi Tempter's Sacrament farà assolutamente al caso vostro. C'è pochissimo, ma veramente pochissimo da dire su questo duo, dato che le info a disposizione sono praticamente inesistenti. Sappiamo solo che il progetto nasce nel 2020 ad opera del batterista Infernal Deceiver - che tolta la scarsa originalità del nome d'arte ha un curriculum di tutto rispetto - e del cantante/chitarrista Hades Tempter. Il primo a quanto pare è un soggetto più che navigato nel sottobosco Black, Thrash e Death americano; sembrerebbe dunque che questa band sia l'ennesimo side-project. Comunque sia, l'EP in questione è la primissima opera targata Tempter's Sacrament a vedere la luce, quindi trattasi del biglietto da visita del duo. Come dicevamo, la proposta è quanto di più vecchio, feroce e caustico ci si possa aspettare: Black/Death super oltranzista, sparato a mille dall'inizio alla fine e strabordante di tutta l'ignoranza di cui si dispone. Praticamente un mix tra Nifelheim, Sodom, Slayer, primissimi Morbid Angel -c'è anche una loro cover - e qualche punta Venom/NWOBHM. Il tutto condito da una produzione volutamente scarna, ridotta all'osso e totalmente puntata verso le sonorità acide e "ferrose", tanto per dare a tutta l'opera l'inconfondibile tratto anni '80. Infine, la voce: classicissimo scream cadaverico e corrosivo come carta vetrata da far sanguinare le corde vocali. Il resto potete immaginarlo da voi: una mattanza di riff velocissimi ed assestati come colpi di mannaia. Eppure, se pensate che questo "Temptation Steel Scourge" sia solamente un mero tributo ai vecchi tempi, o un semplice copia/incolla di quegli stilemi, vi sbagliate. Siamo certamente in un territorio che definire "conosciuto" sarebbe riduttivo. Tuttavia i Tempter's Sacrament riescono a dare delle randellate non indifferenti e con un'insolita pulizia d'esecuzione. Per intenderci: non si tratta del progettino fatto da quattro scappati di casa che strimpellano tanto per divertirsi. Si nota comunque una certa esperienza e classe in questo brevissimo EP, nonostante, lo ripetiamo, il genere non offra praticamente più nessun guizzo di originalità. Quindi, in definitiva, il biglietto da visita dei Nostri risulta estremamente interessante, tanto da averci lasciato non poca curiosità circa il futuro del progetto.
Ultimo aggiornamento: 02 Mag, 2022
Top 10 opinionisti -
Il trio portoghese Downfall Of Mankind è una realtà giovanissima, nata nel 2019 da membri provenienti dalla scena underground Black e Death del posto. Se da una parte, dunque, il moniker è ai primissimi vagiti, non si può dire lo stesso dei componenti dall'altra, essendo comunque gente che ha un suo background. Logico quindi che questo "Vile Birth", primo full-length della band, sia un disco piuttosto maturo per un gruppo nato solamente tre anni fa. Licenziato da Lacerated Enemy Records - incredibile, un disco Deathcore non prodotto da Unique Leader Records - l'album in questione vuole immediatamente far capire le coordinate stilistiche entro cui inquadrarlo: Deathcore moderno direttamente dalla miglior scuola Mental Cruelty, Lorna Shore e Signs Of The Swarm. Tradotto ulteriormente: bombe atomiche slam intermezzate da bellissime sezioni sinfoniche e melodiche che toccano, di tanto in tanto, anche qualche punta Blackened Death. Tutti elementi che ritroviamo nelle succitate band - le prime due soprattutto - e che senza timore si dispiegano all'interno di nove tracce. Sulla carta abbiamo quindi un biglietto da visita di tutto rispetto, ed effettivamente i Downfall Of Mankind sono riusciti a tirare fuori dal cilindro un prodotto accattivante e per certi aspetti personale. Tuttavia ci sono un paio di elementi che non permettono ai Nostri di emergere al 100%, e sono uno la causa dell'altro: passaggi non sempre all'altezza e fin troppo scolastici ed un conseguente calo dell'attenzione dovuto anche a strutture spesso simili. Da notare, infine, come i pezzi che funzionano di più sono proprio quelli con gli ospiti - stiamo parlando di gente come Julien Truchan dei Benighted -, a testimonianza di come il trio portoghese non sia certamente alle prime armi ma lasci comunque trapelare una certa inesperienza laddove non c'è il supporto degli altri artisti. Possiamo quindi dire che i Downfall Of Mankind si siano voluti buttare nel panorama Deathcore scommettendo maggiormente sui nomi presenti che effettivamente sulla sostanza; o almeno, questo è ciò che si percepisce nei riff proposti. Un disco che riesce a stuzzicare sicuramente l'attenzione ma che necessita di un po' più di ambizione in alcune tracce. Seguiremo lo sviluppo della band con attenzione.
Ultimo aggiornamento: 26 Aprile, 2022
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Quando si parla della bestia nera finlandese Archgoat non c'è mai troppo da dire: del resto, cosa si potrebbe obiettare ad un trio che fa del satanismo, della blasfemia e dell'Anticristo i suoi topic principali sin dal 1989? Esatto, nulla. Dopo un album colossale come "Worship the Eternal Darkness" dell'anno scorso, per Lord Angelslayer e soci è il momento di un piccolo EP di quattro tracce: "All Christianity Ends", che già dal nome - ma tu guarda che novità - fa capire dove vada a parare. Ora, gli Archgoat hanno sempre pubblicato qualche disco, per così dire, minore dopo un full-length, quindi anche in questo caso non siamo certamente di fronte alla novità. E ci mancherebbe, a dirla tutta. Se c'è una cosa che amiamo da sempre del trio finnico è proprio questa blasfema intransigenza nel proporre il miglior Death/Black sul mercato, fatto di sound neri, appiccicosi e sulfurei e atmosfere torbide e maleodoranti, pregne di tutta la ferocia infernale che c'è su questo mondo. A coronare il tutto la voce immortale del vocalist e bassista Lord Angelslayer: un grugnito satanico che sembra provenire da chissà quale demone. Stop, non troverete altro ogni qualvolta premerete "Play". Ed ovviamente l'EP in questione non è da meno, seppur c'è da dire come gli Archgoat non risultino mai noiosi o "già sentiti", il che dimostra un'esperienza ed una classe che, al di là dell'immaginario artistico che si sono creati attorno, non lascia spazio a dubbi: in questo genere loro sono i migliori in assoluto. Ah, tanto per cambiare, anche qui troverete simpatici versi animaleschi di orge, rituali e bambini in lacrime pronti ad essere sacrificati al caprone con il pizzetto. Classici, di impatto e mostruosi come sempre: cos'altro chiedere alla band più blasfema del pianeta?
Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 2022
Top 10 opinionisti -
Spesso accade che nel tentativo di voler dare personalità al proprio lavoro si rischia di ottenere l'effetto contrario con la proverbiale "troppa carne sul fuoco": ecco, questo è il caso della one-man-band francese Creature ad opera del polistrumentista Raphaël Fournier; ma andiamo con ordine. Non ci è dato sapere l'anno di nascita del progetto, ma si tratta certamente di una realtà relativamente nuova sul panorama considerando che il disco di debutto è riconducibile al 2018. Da qui in poi i Creature non si sono mai fermati, sfornando un disco all'anno, fino al qui presente "Eloge de l'ombre", quarto capitolo targato I, Voidhanger Records. Dicevamo all'inizio che spesso si rischia di mettere troppa roba nel piatto con l'intento di dare personalità e ricercatezza alle proprie creazioni, e sfociando quindi in un prodotto estremamente pedante ed indigesto. Ecco, questa sensazione la si avvertiva nel precedente album dei Creature, di fatto un macigno difficilissimo da mandare giù e che sciorinava un Black Metal avanguardistico... fin troppo avanguardistico. Tuttavia da quell'esperienza non proprio fortunata, il buon Fournier ha capito esattamente cosa doveva andare a snellire e rivedere: il risultato è appunto questo "Eloge de l'ombre", definibile come il disco della rivalsa del progetto d'Oltralpe. Decisamente più snello nella proposta ma non per questo meno ricercato o scontato, l'album ci presenta un artista in grado di proporre un Black Metal strano, ma godibilissimo, frutto di un'evidente maestria e bravura nel saper trattare questo tipo di sonorità. Se prima, quindi, i Creature potevano non convincere per l'eccessiva pomposità e nauseante ricercatezza, adesso siamo certamente sugli stessi binari, ma il songwriting è decisamente più snello e curato, più attento al contenuto che alla forma. In una parola: meno autoreferenziale. E fidatevi, trovare un album Avant-garde/Progressive che non sia l'equivalente di "hey, guardatemi, quanto sono bravo; se non vi piaccio è perché non capite nulla" è difficile - vedasi l'ultimo aberrante lavoro degli Imperial Triumphant del 2020 -. Comunque sia, minuto dopo minuto, e soprattutto ascolto dopo ascolto, questo "Eloge de l'ombre" stupisce per la quasi totale mancanza di punti di riferimento: si gioca in territori Black, Jazz, Death, Prog e Blues senza che l'ascoltatore riesca effettivamente a capire cosa stia succedendo. Ma in questo caos l'opera mantiene comunque il filo conduttore, ramificandosi di continuo ma restando salda con i piedi per terra -salvo qualche momento forse ancora un po' troppo prolisso -. Chiaramente, e lo ripetiamo, si tratta di un tipo di musica molto difficile da inquadrare perché di difficile approccio e ricchissima di contenuti: se da una parte l'artista ha fatto un ottimo lavoro per rendere la sua opera accessibile, è altrettanto vero che i gusti sono gusti. Per intenderci: o vi piace o non vi piace, anche se l'invito è sempre quello di ascoltarlo più e più volte per poterne cogliere le infinite sfaccettature. Da parte nostra l'album è promosso a pieni voti, soprattutto perché ci ha permesso di apprezzare tutte le vere qualità di un artista poliedrico ed in gamba.
Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 2022
Top 10 opinionisti -
Del progetto Incandescence si era già parlato nel 2019, quando il duo canadese pubblicò il suo terzo album. Già allora si ritenne la band degna di nota e certamente tra le proposte Black Metal più interessanti e da non perdere. La cosa non stupisce affatto se si pensa che una delle due menti dietro il moniker è Mr. Philippe Boucher, polistrumentista di innegabile bravura già militante nei più che conosciuti Beyond Creation. Logico quindi che dal progetto Incandescence ci si aspetti roba di qualità; e tanto è stato in questi undici anni di attività in cui i Nostri hanno sfornato una perla dopo l'altra fino a giungere al qui presente "Le coeur de l'homme". Senza ombra di dubbio il disco Black Metal dell'anno licenziato dall'ottima Profound Lore Records, una delle pochissime etichette che può fregiarsi del titolo di "garanzia"; non c'è un singolo disco targato PFL che non sia degno di nota. Comunque sia, gli Incandescence hanno portato alla luce un album semplicemente perfetto, stupendo dall'inizio alla fine e bruciante di passione; a tratti lo stile potrebbe ricordare quello della one-man-band statunitense Mare Cognitum, soprattutto per l'approccio moderno che non disdegna continui richiami anche ad altri generi. In generale si tratta di un Black Metal che si discosta sia dalla vecchia scuola norvegese, sia da quella che fa fede alla Polonia e all'Islanda. Sembrerebbe, dunque, che anche il continente americano stia sviluppando un modus operandi proprio, ed infatti non stupisce come Canada e USA sfornino band dallo stile piuttosto riconoscibile. Il duo Incandescence non è da meno, e rientra perfettamente in questo filone compositivo: Black Metal ancestrale che tocca costantemente i lidi atmosferici tinteggiando qua e là la proposta con sfuriate Death, ma sempre e comunque poggiando su una base molto melodica e sentita. Di base è la caratteristica più importante della band, ossia quella di giocare sull'ossimoro tra la ferocia del Black primordiale e quello più ragionato, sentimentale ed ipnotico che potrebbe ricondurre ai polacchi Mgła. L'unione delle due componenti, infine, ha dato alla luce il capolavoro, perché è questo l'unico aggettivo che davvero può rendere giustizia ad un disco del genere. Traccia dopo traccia il duo Philippe Boucher e Louis-Paul Gauvreau ci trasporta all'interno di un viaggio etereo in cui i piani esistenziali si scompongono fino a lasciare il mero nulla. Eppure, dicevamo, non si tratta solamente di riportare alla luce gli istinti primordiali dell'uomo; o meglio, non è solo questo. In 40 minuti di durata "Le coeur de l'homme" lascia emergere lentamente un'eleganza e una carica emotiva che raramente si intravedono in un album; almeno non con questa intensità. Saranno i riff arzigogolati ma ipnotici, o le atmosfere tetre ma commoventi, o semplicemente la maestria di chi in questo genere sa muoversi con così tanta classe... sta di fatto che tutto qui è elevato alla potenza, tanto che le stesse parole di una recensione non rendono minimamente giustizia all'intera opera. I miei personali complimenti alla band per un capolavoro simile, che entrerà sicuramente nella lista dei candidati delle migliori uscite del 2022.
Ultimo aggiornamento: 15 Aprile, 2022
Top 10 opinionisti -
Se l'anno scorso abbiamo visto il gran ritorno dei russi Abominable Putridity, ecco che ora è il turno dei portoghesi Analepsy: in due anni, insomma, le due realtà massime esponenti dello Slam/Brutal Death sono tornate con una massiccia colata di sangue e budella. "Quiescence", questo è il titolo del secondo album degli Analepsy licenziato da Miasma Records/Vomit Your Shirt (e più avanti in formato LP da Agonia Records) e che, cosa più importante, ci presenta una band totalmente stravolta. Il solo membro originale rimasto è il chitarrista Marco Martins, chiamato quindi a dover tenere le redini di tutto il carrozzone che ha reso i Nostri una band leggendaria e unica all'interno di un filone del Death fatto perlopiù di roba tutta uguale. E invece, come se ci fosse stato bisogno di dirlo, gli Analepsy si sono nuovamente dimostrati degni dello scettro, con un secondo album che definirlo "monolitico" sarebbe riduttivo. Cosa molto importante che li differenzia dai corrispettivi russi Abominable Putridity: se i secondi puntano ad un sound maggiormente dissonante con pesanti innesti melodici simil Deathcore/Downtempo, i primi al contrario restano maggiormente fedeli allo Slam/Brutal Death classico, per quanto è doveroso puntualizzare che nemmeno per un secondo avvertirete quel senso di scontatezza durante l'ascolto. Semplicemente i portoghesi si muovono all'interno dei loro territori permettendosi il lusso di fare ciò che vogliono e risultando sempre e comunque vincenti. Ecco, "Quiescence" è un disco dalla personalità mastodontica, forte degli innumerevoli ospiti - tra cui proprio Angel Ochoa degli Abominable Putridity -, e degno successore di quel ferocissimo "Atrocities from Beyond" del 2017. Se siete abituati ad un approccio scolastico o comunque poco avvezzo a soluzioni eterogenee, allora troverete in questa nuova fatica qualcosa di totalmente diverso e mai ascoltato prima; segno, questo, che gli Analepsy sanno come, dove e quando pestare a sangue, denotando quindi una maturità stilistica ed una maestria fuori dal comune. Del resto - e lo ripeteremo fino alla morte - stiamo parlando di uno dei migliori gruppi Slam/Brutal Death al mondo. In cinque anni di acqua sotto i ponti ne è passata e sinceramente l'attesa ha dato i suoi frutti: se gli Analepsy del debutto risultavano più asciutti e dediti ad uno stile vicino agli albori del genere, quelli di ora suonano molto più eterogenei e con costanti richiami melodici di fondo che danno freschezza e quel tono tecnico a tutta l'opera. Logico che un fattore determinante sia stato la line-up nuova; tuttavia l'anima degli Analpesy si è rivelata non soltanto votata all'ignoranza e ferocia più becere, magari a scapito dell'originalità. Al contrario, la band di ora può contare su un comparto musicale molto più ampio e vario da cui attingere, ed il risultato non poteva che essere un capitolo degno di nota. Se questo è l'inizio di una nuova fase compositiva, beh, siamo curiosissimi di sapere quanto ancora i Nostri potranno puntare in alto. Complimenti!
Ultimo aggiornamento: 08 Aprile, 2022
Top 10 opinionisti -
Finalmente dopo una miriade di dischi Death, Slam e compagnia bella si torna a parlare di Thrash Metal grezzo e feroce; e lo faremo in compagnia degli Extinction A.D., band newyorkese nata nel 2013 ed approdata su Unique Leader Records con questo terzo disco "Culture Of Violence". Primissima cosa da dire in merito, così ci togliamo il sassolino dalla scarpa: la copertina è la cosa più sterile, vuota, senza personalità e senza anima che abbia mai visto sulla faccia della Terra; dovessi valutare l'album solo da questo gli darei un -10. Fatta la doverosa critica, passiamo alla musica vera e propria, che a differenza della copertina ha ben più di qualcosa da dire.
Diciamolo subito: gli Extinction A.D. non s'inventano nulla, tuttavia è il "come" che fa la differenza. Già, perché se sul piatto abbiamo una formula più che conosciuta, dall'altra parte c'è un quartetto affiatatissimo e con un'energia esplosiva che l'intero disco ti arriva in faccia come una bomba atomica. Thrash Metal che pesca in pieno nella Bay Area, nella fattispecie Exodus, Slayer, Testament e Vio-lence, ed una forte, anzi fortissima vena Hardcore/Groove Metal degna dei migliori Pantera. Sommate il tutto et voilà, l'album vincente è servito. "Culture of Violence" è un'opera veramente ispirata che punta tutto sull'energia, sacrificando anche la complessità dei brani: diretto in faccia, senza fronzoli o giri di abbellimento. Stacchi continui tra la voce di Rick - la componente Hardcore maggiore - ed un riffing serrato e granitico che lascerà spazio ad un pogo selvaggio in sede live. Basta, nient'altro da aggiungere, se non un discorso di merito a parte per la chitarra solista di Ian Cimaglia, forse la componente più tecnica e complessa dell'intero disco. Anche qui non siamo certo in territori noti trattandosi comunque di assoli ispiratissimi a Kirk Hammet e Dimebag Darrell. Tuttavia il buon Ian riesce ad infililarsi con precisione chirurgica in questo muro sonoro imponente, dando ampio sfogo alla sua ascia.
Insomma, gli Extinction A.D. sono una band che nonostante si ispiri moltissimo al Thrash della vecchia guardia e mostrando una certa allergia per le soluzioni più complesse, riesce sempre e comunque a fare la sua gran figura. Energia, grinta ed attitudine si riversano tutte in questo disco, facendo passare in secondo piano sia i momenti meno convincenti, sia la struttura dei pezzi piuttosto semplice e, per l'appunto, old school. Good job!
Ultimo aggiornamento: 08 Aprile, 2022
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Torna sui nostri portali il trio calabrese Zora con la sua terza fatica intitolata "Soul Raptor". Ci scusiamo in anticipo per il ritardo, ma meglio tardi che mai, no? Comunque sia, per Tat0 e soci è giunta l'ora di un nuovo capitolo all'insegna del Death Metal americano più intransigente e feroce; e questa volta possiamo finalmente dirlo: si tratta del miglior disco dei Zora, molto più maturo e meno scolastico rispetto ai precedenti capitoli. Il tutto, dunque, si traduce in una mezz'ora di assalto all'arma bianca totale. La musica proposta dal gruppo è caustica e feroce, passando costantemente tra innesti tipici dei vecchi Cannibal Corpse fino alle cavalcate assassine dei Deicide e Suffocation, con qualche puntina Slam e cambi di tempo che rendono il tutto meno scontato e travolgente. Ed è forse quest'ultimo l'aggettivo migliore per descrivere la nuova creatura degli Zora: le tracce funzionano benissimo perché travolgono come un treno merci lanciato a tutta velocità, con costanti richiami alla vecchia guardia del genere, ma sempre e comunque con uno sguardo in avanti. Tradotto: non siamo nei territori della semplice emulazione o "wannabe" che dir si voglia; al contrario ciò che ci è piaciuto dei Zora è il fatto di aver dato un tocco personale a tutto il carrozzone. Chiaro, il genere proposto è comunque ampiamente conosciuto ed è stato sviscerato in tutte le sue forme, pertanto sarebbe impossibile non ritrovare anche qui una certa familiarità con i grandi nomi del Death Metal. Eppure ci ha comunque lasciato piacevolmente soddisfatti questa mezz'ora, che certamente non passa in sordina ed in secondo piano, ma riesce a dare all'ascoltatore una sanissima dose di violenza permettendosi, ogni tanto, di osare qualcosa in più. Disco più che promosso!
Ultimo aggiornamento: 06 Aprile, 2022
Top 10 opinionisti -
Senza infamia e senza lode; totalmente adagiato nella sua comfort zone ed in grado di svolgere il compitino senza troppi problemi. Sto parlando di questo "Chop x Drill x Kill", seconda fatica del duo francese Ohio Slamboys, che come suggerisce il nome della band trattasi di quanto di più classico ci si possa aspettare da un disco Slam/Brutal Death: violenza animalesca a secchiate e tante, ma tante parti groovy super cadenzate simil-fabbro che pesta su un'incudine. Stop, nient'altro da aggiungere. Approdati sulla nostra piattaforma già nel 2019, gli Ohio Slamboys sono una realtà con nemmeno cinque anni di vita ma, di contro, con un obiettivo che ben si percepisce dalle loro uscite: musica marcia e maleodorante che trasuda budella e sangue da tutti i pori. Formula semplice ma che fa del canone il suo punto di forza - e di demerito -. Dalle influenze dei Dying Fetus fino ai maestri Abominable Putridity e Analepsy, i Nostri non si inventano assolutamente nulla, puntando invece su una frangia del Death Metal ampiamente battuta e fondamentalmente rivolta solo ad un pubblico oltranzista e purista del genere. Essendo un estimatore dello Slam non posso non apprezzare questo "Chop x Drill x Kill", ma va comunque detto che si tratta dell'ennesimo buon disco perfettamente uguale al 90% di tutti quelli presenti sul mercato. Quindi, se volete giusto ampliare il vostro repertorio allora benvenuti; altrimenti potete passare oltre senza nemmeno un minimo di sofferenza. Unico punto veramente di merito: produzione superba.
Ultimo aggiornamento: 31 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti -
Giungono al quindicesimo anno di vita i The Last Of Lucy, act statunitense che con questo "Moksha", secondo capitolo per i Nostri e primo licenziato da Transcending Obscurity Records, diventano una delle realtà Tech/Prog Death più interessanti del momento. Già dopo un buonissimo debutto nel 2017 e l'abbandono dell'iniziale stile Metalcore, la band aveva attirato su di sé le attenzioni; ed a buon diritto direi.
Ora, ciò che troverete in questo album è certamente materiale ben noto per chi ascolta Technical Death. Tuttavia a colpire dei The Last Of Lucy sono le atmosfere tetre, maligne e da trip mentale che riescono a creare. Un fattore per nulla scontato se si pensa come questo filone musicale tenda ad una certa sterilità artistica in favore della tecnica nuda e cruda. Son gusti, ci mancherebbe, ma sentire un gruppo che punta anche a dare all'ascoltatore quel tocco artistico personale ci è piaciuto parecchio; inoltre, in uno sguardo di insieme, questi innesti melodici rendono tutta l'opera degna di nota. Quindici anni di carriera si sentono tutti in "Moksha", che risulta nettamente superiore al precedente disco, sia da un punto di vista di produzione, sia per un songwriting meno scolastico e molto più omogeneo: ciascuna traccia riesce ad equilibrare molto bene la componente tecnica con tutte le varie influenze del caso, dalle sezioni jazz, fino alle sfuriate melodiche molto vicine ai The Black Dahlia Murder. Ottima la sezione ritmica ad opera di Brendon Millan dietro le pelli: per nulla noioso e con molte idee ben congeniate, soprattutto se affiancato da Ricky Fregosi al basso - finalmente uno dei pochi dischi in cui si sente benissimo - che sa bene dove inserire i fraseggi e i ghirigori tipici del Technical Death. Infine il lavoro delle asce, la vera forza portante dell'intero lotto. Ora, siamo consapevoli del fatto che di tanto in tanto si avverte una carenza di originalità, o comunque un modus operandi già sentito; tuttavia la cosa ci ha toccato minimamente, perché nell'insieme ogni pezzo funziona alla grande: da quello che ti butta in faccia una colata di tecnica disumana à la Infant Annihilator o Rings Of Saturn, a quello più Progressive ed incentrato sulle atmosfere. Insomma, i The Last Of Lucy giocano tantissimo sull'equilibrio e ci riescono piuttosto bene con un album in grado di suscitare l'interesse anche dei più scettici. "Moksha" risulta essere un prodotto dall'ascolto facile - si fa per dire, chiaramente - che fila liscio per tutta la mezz'ora di durata, con tantissimi passaggi interessanti ed un comparto atmosferico di tutto rispetto. Complimenti!
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