Opinione scritta da Dario Onofrio
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Ultimo aggiornamento: 18 Agosto, 2014
Top 50 Opinionisti -
Arriva un momento, nella vita di una rockstar di successo, in cui ci si sente il bisogno di staccarsi dal monicker a cui ci si è indissolubilmente legati per cercare di trovare una strada alternativa. Gli esempi sono innumerevoli: da Bruce Dickinson a King Diamond sono molti i musicisti ad aver intrapreso la carriera solista nonostante il successo di quella ufficiale.
Alla schiera già folta si aggiunge il buon John Garcia, che molti di voi ricorderanno per essere stato il frontman dei Kyuss. Progetti paralleli e collaborazioni non sono mancate nella carriera del singer, ma dalla firma del contratto con la Napalm Records il nostro uomo si è deciso a fare una vera e propria svolta.
Questo disco omonimo uscito lo scorso luglio è una dimostrazione che in ogni caso l'ex frontman è in grado di scrivere dell'ottimo rock alternativo. Già, perché sin da My Mind notiamo un gusto sfrenato per il groove e un rock molto disimpegnato a livello musicale. Le composizioni di Garcia pescano a piene mani da rock, pop rock, un po' di stoner e addirittura dei riff quasi southern: basti sentire un pezzo come Flower per capire quello di cui sto parlando.
Immancabile la voce effettata che fa del singer il suo marchio di fabbrica, lasciando quasi del tutto protagonista la chitarra solista. Nonostante il tempo sia passato anche per lui la performance su disco si rivela graffiante e piena di smalto, con pezzi come 5000 miles o Argleben che tengono altissima la carica rockeggiante (palesemente statunitense); fino ad arrivare a pezzi più "tranquilli" come His Bullets Energy o la quasi doomeggiante Confusion.
Insomma, se siete appassionati di rock "da strada", assolutamente disimpegnato e ideale da ascoltare mentre si sta guidando o mentre si va a correre questo album è ciò che fa per voi. La carica che Garcia riesce a trasmettere su disco si è conservata ottimamente nonostante siano passati parecchi anni dall'ultimo album ufficiale in studio e fa ben sperare sia in un futuro secondo cd che nelle attività live del singer, che sembrano essere riprese alla grande dopo il successo del tour Kyuss Lives!
Date un'orecchio su Spotify e non ve ne pentirete!
Ultimo aggiornamento: 22 Luglio, 2014
Top 50 Opinionisti -
Dovete sapere che quando sta per uscire un nuovo disco dei Grave Digger il sottoscritto si sente come un bambino sotto Natale.
La smaniosa attesa del giorno della release oggi come oggi poi viene incalzata dalle anteprime che la buona Napalm Records lascia su facebook e youtube. Non importa anche se i pezzi son delle ciofeche: per me sono i Grave Digger e finché non decido che un disco è brutto l'esaltazione non mi scende.
Qualche affezionato lettore della nostra webzine si ricorderà sicuramente della mia impietosa recensione di "The Clans Will Rise Again", tentativo fallito di riportare la discografia dei becchini sulle linee della famosissima Middle Ages Trilogy. Ebbene, immaginate cosa ho pensato quando ho saputo che questo nuovo lavoro si sarebbe chiamato "Return of the Reaper". Panico, datemi una bombola d'ossigeno che sto male.
Ovviamente da una parte il fan sfegatato che è in me ha subito urlato al mio cervello "SARÀ UNA FIGATA", mentre la parte da recensore razionale diceva, seduta su uno sgabello agli angoli del mio cervello sorseggiando whiskey e fumando un cubano grosso come il collo di George Fisher: "Sarà una cacata".
Beh, non vi nascondo che questa parte è stata picchiata, legata e buttata in uno sgabuzzino in attesa di essere tirata fuori non appena è uscito su youtube il video di Hell's Funeral. Se Season of the Witch mi era sembrato un buon pezzo, ma non eccezionale, con l'opener svelata in anteprima la mia esaltazione è salita a livelli storici. Immaginatevi poi quando sono riuscito ad avere il promo in anteprima.
Beh ragazzi, la smetto di girarci intorno: Return of the Reaper è una figata.
Credo che i Grave Digger non scrivessero musica di così alto livello dai tempi di The Grave Digger (13 anni fa per essere precisi). Il Becchino ha letteralmente ritirato fuori dalla bara il sound di The Reaper, Symphony of Death e Heart of Darkness, quel mezzo heavy/speed/hard-rock che aveva caratterizzato i loro esordi. Tutto in questo disco funziona perfettamente, tutto è architettato come una macchina macina-riff da distruzione di colli: non basta l'opener a farci esplodere, continuiamo nella linea temporale di The Reaper su Warlord, mentre con Tattoed Rider facciamo un salto direttamente negli anni '80, con un piglio quasi hair metal.
Una cosa che ho apprezzato moltissimo di questo disco è che i Becchini non hanno voluto creare composizioni troppo lunghe: con Resurrection Day spariamo dritti dritti nei classici più classici della band stando intorno ai tre minuti, così come con pezzi successivi come Road Rage Killer e Satan's Host. Ciò nonostante non mancano i momenti epici come la sopra citata Season of the Witch o alcuni passaggi di Grave Desacrator. Un posto speciale nel mio cuore se l'è guadagnata Satan's Host, pezzo che richiama chiaramente le sonorità di Heart of Darkness, ma caratterizzato da un bellissimo lavoro di riffing da parte di Axel Ritt, senza contare la solita ottima prova di Boltendahl e soci.
Alla chiusura del disco troviamo due pezzi che più classici di così non possono essere, che pescano direttamente da Symphony of Death. Così, se il chorus di Death Smile to all of Us è qualcosa che vi entrerà nella testa per le ottime note usate dal singer, Nothing to Believe vi farà tirare fuori gli accendini e cantare all'unisono, anche grazie all'ottimo lavoro di tastiere svolto da Hans Katzenburg.
Ho voluto farla breve perché non voglio togliervi il piacere dell'ascolto: ebbene sì ragazzi, i Grave Digger sono tornati. Come al solito i nostri non inventano nulla, però se cercate del buon vecchio heavy caratterizzato da una produzione ECCEZIONALE nonostante stia sotto a tre metri di terra buoni... Allora imbracciate la pala, fatevi indicare dove scavare e preparatevi a un tuffo nel passato che solo i Becchini potevano farci fare sulla loro carrozza funeraria!
Death will smile to all of us!
Ultimo aggiornamento: 12 Luglio, 2014
Top 50 Opinionisti -
Nonostante si continui a dire che l'heavy metal è morto resta un grandissimo sottofondo di band sottovalutate in tutto il mondo. I francesi Nightmare ne sono un esempio: insieme da 35 anni si sono navigati praticamente tutti i generi affini all'hard rock/heavy/power.
Riunitisi nel 1999 dopo una rottura che persisteva dal 1987 la band ha continuato sulla strada di un heavy molto poweroso, con ritornelli orecchiabili, riffoni e uno spirito veramente forte! All'ascolto, infatti, The Aftermath richiama subito alla mente gli ultimi lavori di Rage e Vicious Rumors: un power grezzo e rockeggiante, musica per le orecchie del sottoscritto.
I Nightmare non innovano nulla ovviamente, ma le loro composizioni a partire dalla prima Bringer of a no man's land sono davvero ispirate e coinvolgenti. Cascate di riffoni e la voce di Jo Amore contribuiscono a una alchimia veramente riuscita, senza contare gli inserti di tastiera come quelli di Necromancer, che contribuiscono in modo significativo alla costruzione di ottime canzoni. Anche il lavoro di Yves Campion dietro al basso e di David Amore dietro alle pelli è ovviamente magistrale e fa subito capire a un ascoltatore attento che siamo di fronte a dei veri professionisti. La produzione da il meglio di sé su pezzoni come Invoking Demons che, nonostante la durezza del riff, si mantiene su un buon livello di comprensione sonora. I Nightmare trovano la loro vera natura in pezzi come quello sopracitato o Digital DNA, con ritmiche non troppo veloci, ma che non rischiano mai di scadere nella ballad o in tempi morti. Grandi prove vanno anche sui pezzi come Ghost in the mirror, dove sentiamo anche un ottimo growl e delle perfette tastiere, che contornano perfettamente il pezzo.
La cosa che colpisce di più comunque, alla fine del cd, è l'espressività vocale con cui Jo Amore interpreta le canzoni. Da The Bridge is Burning fino alla conclusiva Alone in the Distance il singer ci regala delle ottime prove vocali supportate dall'abilità dei musicisti.
Insomma, The Aftermath si rivela un ottimo album di heavy/power underground. Scrivo quest'ultima parola a malincuore perché si tratta di un prodotto ottimo, che non ha nulla a che invidiare ad altre release heavy che ci sono state per ora durante l'anno. Quello che mi auguro è che i Nightmare riescano a cavalcare l'onda di una stampa sicuramente positiva e presentarsi a qualche altro festival (sono stati all'Hellfest dove hanno tenuto un bellissimo show) o aggregarsi a qualche gruppo per una tournée. Vi assicuro che questi pezzi suonati dal vivo non passeranno inosservati!
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Li avevamo lasciati due anni fa con il buon Head öf the Pack. Ora i canadesi Skull Fist tornano con Chasing the Dream, disco che non si discosta minimamente dai canoni a cui i nostri ci hanno abituato sin dal loro debutto.
Ennesima opera manierista della band, la quale vuole ricalcare il sound "eighties" tanto da registrare il tutto dandoci l'illusione di essere negli anni 80'. Eccoci dunque proiettati in atmosfere da grandi città notturne con Hour to Live, pezzo che mette subito le cose in chiaro su dove stiamo andando. Se questo pezzo ricalcava lo speed metal con Bad for Good ci spostiamo su terreni più hair, in strutture di canzoni perfettamente collaudate e funzionali allo scopo degli Skull Fist. La title-track si sposta su sound alla Judas Priest, con un ritornello basato tutto su acuti e uno splendido bridge di chiusura prima del solo. Arrivano subito dopo i miei pezzi preferiti del disco: Call of the wind e la finalmente riregistrata Sign of the warrior (comparsa nella prima demo), che rendono assolutamente giustizia alla causa della band canadese.
Non contenti ecco un'altra killer-track con You're gonna pay, per poi rallentare sulle note di Don't stop the fight. Uno dei momenti più riusciti del disco intero è la spettacolare Shred's not dead, completamente strumentale e assolumente magistrale a livello di esecuzione.
Chiudiamo infine con la tirata di Mean Street Fire, altro pezzo super old school, con una carica ed un coro trascinanti.
Gli Skull Fist ormai sono diventati lanciatissimi, tra festival internazionali ed altro, e continuano tranquillamente sulla loro strada fregandosene di giudizi e commenti. Per questo, se siete appassionati di heavy vecchio stampo, Chasing the Dream potrebbe non sfigurare affatto nella vostra collezione. Se siete appassionati di suoni moderni etc... Girate al largo!
Top 50 Opinionisti -
Ricercatori di innovazione e tecnica: alla larga da qui! Lo dico perché stiamo andando a recensire un disco dal titolo "Thunder & Steele" dei teutonici Stormwarrior. Non credo che ci sia bisogno di troppe presentazioni: forti di uno speed/power ispiratissimo ai primi Helloween i nostri si sono ritagliati una consistente fetta di pubblico nel mercato power odierno. Siamo al quinto disco per una band che fino ad oggi è riuscita tranquillamente nel proprio intento: riproporre una musica del passato con un sound più nuovo e orecchiabile.
I guerrieri della tempesta iniziano subito con un pezzo tiratissimo come la title-track, per poi proseguire sulla killer-track Metal Avenger e chiudere una prima tripletta con l'epicissima Sacred Blade (forse la mia preferita del disco). Si continua come se ci avesse sparati un cannone di puro power metal con Ironborn, che ricorda quasi lo stile dei primi Gamma Ray, e Steelcrusader, altro titolo che penso possa descrivere da solo il tipo di canzone che racchiude. Andiamo sull'epic/power più gratuito con Fires in the Night, caratterizzata dal bellissimo ritornello, per poi ritornare sullo speed più classico con Die by the hammer. Poteva poi mancare una classicissima mid-tempo come Child of Fyre? Certo che no! Ecco dunque un altro bellissimo pezzo, stavolta orientato verso un'epic primigeno dai sapori statunitensi. Chiudiamo quest'esperienza sulle note drammatiche di One will survive e Servants of metal, due bei pezzoni di quelli spessi e cattivi.
Insomma, i guerrieri teutonici non tradiscono la loro missione già elencata precedentemente. Se cercate un album sfacciatamente banale, che se ne frega delle etichette e delle pretese di certe band moderne, siete nel posto giusto. Per par condicio comunque metto un voto "neutro", né troppo basso né troppo alto. Con uno stile vecchio ma dei suoni nuovi e freschissimi gli Stormwarrior non mancheranno di deliziare l'udito dei giovani e vecchi metallers.
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Come un orologio svizzero ecco che a due anni da Circle of the Oath torna uno degli alfieri del neoclassical/power metal.
Axel Rudi Pell esce con Into the storm, disco che conferma la tendenza iniziata con The Crest (2010): favorire la parte hard-rock piuttosto che quella power/neoclassical. La line-up sembra essersi finalmente stabilizzata, anche se alla batteria non troviamo più Mike Terrana ma il bravo Bobby Rondinelli.
Venendo alle canzoni abbiamo un disco che potrà accontentare il palato di molti poweroni e hard rockers, passando dalle tonalità molto soft come quelle di Log Way To Go fino ai pezzi più potenti come High Above. C'è da dire che nessuno dei pezzi spinge troppo sull'acceleratore del tempo, preferendo stare su delle ritmiche poco serrate. Nonostante questo un pezzo dove si corre abbastanza c'è: Burning Chains è sicuramente il mio preferito del disco, a metà strada tra Deep Purple e power d'annata. Immancabili ovviamente le ballad, come When Truth Hurts e la cover da Neil Young Hey Hey My My, classici pezzi scritti per far tirare fuori l'accendino al pubblico. Da non sottovalutare nemmeno tracce come l'opener Tower Of Lies o nemmeno Touching Heaven, dove Axel dà prova di saper ancora scrivere dei degnissimi riffs.
Infine la suite Into the Storm è un pezzo che gli appassionati di power non mancheranno di lodare: con il suo andamento orientaleggiante e le sue ritmiche forti vi trascinerà in una vera tempesta! Davvero belli i vari stacchi e soprattutto il lavoro di tastiera, assolutamente adatto alla situazione.
Dunque, uscendo dalla tempesta potremo però renderci conto della stabilità che Axel ha ormai raggiunto. Into the Storm è un buon disco di maniera, né più né meno, che sarà sicuramente adatto per gli appassionati di power e per chi segue il chitarrista teutonico, ma non proprio per tutti.
Comunque c'è da dire che ci vorrebbe in giro più gente come lui, che continua a scrivere la musica che gli piace e non vuole arrendersi alle mode del momento.
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Come definire i Rocquette? Che aggettivo usereste voi?
Io ve ne suggerisco uno: imbarazzanti.
Nati in Austria verso la fine della prima decade del 2000, la band propone un sound banale e scontato come pochi. Avete presente quell'hard rock un po' country/western che sentireste in una birreria a tema saloon? Ecco, i tre uomini e la donna che guidano questa barca propongono proprio questo.
"13" (questo il titolo del disco) va da passaggi un pochino più "impegnativi" come la title-track (si, ve lo assicuro, per il livello tenuto questo pezzo è impegnativo) fino all'abisso della banalità con brani come Mhmmmmargarita e Motherrocker. Non dico che una band quando scrive un pezzo deve impegnarsi ad essere il più innovativa possibile, ma almeno non banale a questi livelli. Comunque qualcosina si può salvare, come Take A Walk Outside Your Mind o la conclusiva Voodoo Rock Puppet, mentre tutto il resto è veramente trito e ritrito.
Non dico nemmeno che questo disco sia da evitare come la peste, per carità: posto nel suo giusto contesto e ad un giusto volume può anche starci come sottofondo, ma per il resto non mi sento assolutamente di consigliarvelo.
Se poi i Rocquette abbiamo migliorato il loro sound nei tempi recenti è una cosa che devo ancora scoprire... Ma che dopo questo deludente "13" non ho intenzione di fare.
Ultimo aggiornamento: 19 Dicembre, 2013
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Benvenuti signori e signore, allacciate le cinture perché stiamo per partire in un viaggio che si imprimerà come un marchio nelle vostre teste e sulla vostra pelle. A condurre il nostro traghetto gli HELL, storica band della NWOBHM formata nientemeno che da Tim Bowler e Kevin Bower, entrambi ex membri dei Sabbat. Quanti di voi conoscevano una delle band più seminali del panorama metal anni 80'? I loro testi, intrisi di satanismo e humor nero, trasformarono, insieme alla roccia sprigionata dai riffs e la voce del compianto David Halliday le demo degli HELL in un culto assoluto.
Nel 2010 la Nuclear Blast offre ai demoniaci musicisti l'opportunità di riformare la band. Per l'occasione Kev Bower decide di abbandonare la chitarra lasciando spazio all'amico Andy Sneap (anch'egli nei Sabbat) e chiamando l'istrionico David Bower a cantare. Esce nel 2011 Human Remains, raccolta di vecchi pezzi risuonati con strumentazione moderna, per donare ai fan il sound che non hanno mai potuto sentire negli anni 80'. Ma la prova del nove arriva con Curse & Chapter. La domanda era: gli HELL saranno in grado di scrivere pezzi del calibro dei loro vecchi trascorsi? Test che a mio parere è stato superato appieno.
Il mio consiglio è skippare l'intro Gehennae Incendiis e passare direttamente a The Age Of Nefarious. Ora: ditemi chi nel 2013 è capace di scrivere un pezzo così. Non solo la perfezione nel sound mista alla ruvidità delle chitarre ci trascina in un vero e proprio inferno da headbanging, ma la voce a metà tra King Diamond e Kai Hansen di David Bower è spiazzante. Questo singer non canta: recita.
Tutto in questo pezzo funziona: dai bridge al perfetto chorus, un gioiello di fiammante metallo fuso come non si sentivano da anni e anni a questa parte. The Disposer Supreme non fa che confermare ciò che abbiamo sentito prima: "Bleeding eyes withness, this evil extreme, the last antichrist, the disposer supreme!". Un'intro malvagia e fredda ci accompagna in un devastante riffing che si spezza solo all'entrata in scena del singer. La bravura con cui gli HELL riescono a costruire ogni singolo frammento dei loro pezzi si scorge nei meravigliosi bridge e nel pezzo rallentato con voce distorta, per non parlare dei solo della coppia Sneap/Bowler.
Ma è con Darkhangel che entriamo nel vivo di questo disco: un pezzo oscuro dedicato a Alister Crownley, cosa possiamo chiedere di meglio? Tutto in questo pezzo funziona, dall'agguerrito riffing al chorus con voce effettata, per non parlare del "rise!" durante il bridge, che si imprimerà come un marchio nella vostra testa. Ben sette minuti a metà tra heavy, power e thrash metal, in un idillio di pura malvagità.
E ora tocca ad alcune vecchie glorie come la spettacolare cover dei Race Against Time dal titolo Harbringer Of Death, un pezzo di pura NWBOHM school. La storia di questo pezzo tra l'altro vi commuoverà un po': i Race Against Time sono stati la prima band di David Halliday, e gli altri due musicisti dell'antica band sono stati chiamati a fare le back vocals nel pezzo! Grazie agli acuti di David e alla bellezza del sound, tra il nostalgico e la novità, diventerà sicuramente uno dei vostri tormentoni. Altro pezzo inedito è End Ov Days, che inizia anch'esso con un'intro acustica per poi esplodere in un puro massacro heavy vecchio stampo, che vi farà letteralmente svitare la testa dal collo. Le tastiere si riprendono poi il loro posto durante lo stacco verso la fine del pezzo, in puro, purissimo stile King Diamond. E qui la band infila un altro tocco di classe: tra preghiere, mitragliatori e suoni di guerra inizia Deathsquad, un pezzo puramente strumentale che oscilla tra heavy, power e thrash senza nessun problema, andando a pescare suoni tipicamente eighties alla Running Wild o persino Iron Maiden. Anche le tastiere "modernizzate" si amalgamano benissimo nell'atmosfera del pezzo, rendendo lo stacco con l'effetto organo un'apoteosi malefica e geniale. Non c'e n'è per nessuno: Tim Bowler e Andy Sneap si alternano tra ritmica e solista spiazzando l'ascoltatore con una varietà di riff infinita, portandoci infine alla conclusione del pezzo.
Altro pezzo di nuova acquisizione è Something Wicked This Way Come, che inizia tra le urla di una sala di turtora per poi esplodere nuovamente in un altro spettacolare riffone, con un chorus e una varietà compositiva che vi lasceranno senza fiato nonostante la formula della canzone metal sia rispettata fin nei più scrupolosi canoni. Arriviamo verso la fine con l'unico pezzo a mio parere sotto rispetto agli altri: Faith Will Fall è un'altra veloce composizione che però manca leggermente di mordente, anche se il chorus è veramente molto interessante. Torniamo negli anni 80' con una doppietta incredibilmente potente: Land Of The Living Dead e Deliver Us From Evil vi trascineranno senza pietà in un oceano di mosh ed headbanging al quale non saprete resistere. Se esistesse un girone dell'inferno dove si è condannati a pogare e fare headbanging tutto il tempo probabilmente Satana sceglierebbe questi due pezzi, entrambi di una freschezza e di una resa encomiabili. Vi emozionerete come poche volte, ve lo assicuro.
Ed eccoci alla fine con la maestosa A Vespertine Legacy, che tra incalzamenti heavy e riprese di chorus con tastiera vi stregherà e vi condurrà con le sue fredde mani alla fine del disco. Da notare specialmente il bellissimo assolo, forse il più riuscito di tutto il disco.
Fine. Abbiamo viaggiato fin dentro alle radici della malvagità con cinque elementi che semplicemente suonano heavy metal. Si, avete capito bene: HEAVY METAL. Moderno, con un sound tutto nuovo, non troppo nostalgico e non troppo esageratamente sperimentale.
Altro che Ghost BC signori miei. Qua c'è tutto: heavy metal e teatro. E ai criticoni che dicono che troppa teatralità fa male alla musica e che gli HELL sarebbero semplicemente una band da "satanismo da quattro soldi" rispondo citando Pirandello:
"Il Teatro non può morire.
Forma della vita stessa, tutti ne siamo attori;
e aboliti o abbandonati i teatri, il teatro seguiterebbe nella vita, insopprimibile;
e sarebbe sempre spettacolo la natura stessa delle cose."
Gli HELL hanno fatto del grottesco e del grand guignol il loro marchio di fabbrica, unendo l'aspetto scenico a una perfetta proposta musicale. Chi critica questo disco, molto semplicemente, è solo invidioso o non capisce l'arte dell'heavy metal.
Ultimo aggiornamento: 19 Dicembre, 2013
Top 50 Opinionisti -
L'influenza di band come Pain of Salvation, Tool e Porcupine Tree sul metal moderno hanno spesso creato band dai toni progressivi, che pur essendo rimaste folgorate da queste esperienze post-prog, hanno provato a coniugare l'anima decadente delle band sopracitati con una spolverata di musica del passato.
È il caso della one man band Oniric, nato nel 2004 grazie al polistrumentista Walter Bosello, che arriva con Gaia alla settima prova in studio.
Diciamocelo subito: stiamo parlando di un disco difficile, che per essere compreso ha bisogno di diversi ascolti. State per sentire un bel concept album sul rapporto tra l'uomo e la natura in una specie di universo parallelo, anche se il buon Bosello ci ha infilato dentro anche temi come l'amore, l'amicizia e la guerra.
L'intro The Other Side mette subito le cose in chiaro: è completamente acapella e dimostra una gran bella fantasia del musicista. Quando sfuma iniziamo con Infestation, un pezzo che sembra coniugare i chitarroni dei PoS e le tastiere degli Yes. Subito dopo facciamo un tuffo a metà strada tra gli anni 70' e 80', ripercorrendo le tracce di band come Genesis e delle atmosfere quasi alla Marillion, con un pezzo come When There's Love. La fantasia del musicista però non si ferma qui, perché veniamo lanciati in un pezzo dalle atmosfere quasi funk come A great find, per poi passare all'intro elettronica di Cold Radiations, che lascia spazio a una decisa parte rock/crossover. Tocca poi alla strumentale Emergency, che ci porta su territori quasi più metal, aprire la seconda parte del disco. Keep on Singing è un pezzo che non saprei davvero come definire: sento spunti che vanno dagli Yes ma comprendono musiche più orecchiabili, come il "riff" di pianoforte che accompagna tutta la canzone. Sembra quasi un altalenare tra pianobar e progressive rock! Ma le sorprese non finiscono qua: con Complications abbiamo quasi un pezzo alla Jethro Tull, mentre in Communication switched Off torna prepotente l'elettronica. Un pezzo che spezza decisamente l'abitudine che ha fatto il nostro orecchio fin'ora è Our Affair, che è sicuramente la canzone più orecchiabile del cd. Ci giostriamo tra tastiere quasi alla Muse per poi andare in territori esplorati da moltissimo hard rock moderno. E da un rock molto melodico e orecchiabile passiamo con She's gone Crazy a un pezzo quasi più catchy, il quale ritornello inizierà a farvi ballare un po' la testa. A chiudere il disco l'intro This Side e Final One, due pezzi che non mancheranno di accattivarsi la vostra simpatia per il bellissimo chorus e la cura con la quale sono state effettuate le registrazioni: ad ogni ascolto potrete scoprire qualcosa di nuovo in questi complicatissimi cinque minuti.
Insomma, Gaia è un disco che piacerà sicuramente ai fan delle band che ho citato all'inizio. E che ne dite, una persona che riesce a scrivere queste cose da sola non si merita un bell'obolo da parte vostra? Mi sento di dire che il progetto Oniric, nonostante abbia ascoltato poche cose dei dischi precedenti, dimostra con Gaia il raggiungimento di una consapevolezza a livello di scrittura e concept molto alta. Walter Bosello è un musicista bravissimo e preparato, e si merita sicuramente una nota d'onore per questo impegnativo e complesso lavoro. Il voto che assegno è così semplicemente perché qui parliamo di un disco "non universale", dedicato perlopiù ad un pubblico di "addetti d'orecchio".
P.S. Mi piacerebbe sentire un pezzo cantato in italiano nel prossimo disco!
Top 50 Opinionisti -
Ci sono quei momenti in cui un ascoltatore medio di heavy ha bisogno di sentirsi un bel disco da guitar hero, in stile Malmsteen o Batio. Meglio se condito con spunti power/hard rock, no? E se siete in uno di quei momenti non potrete fare a meno di ascoltarvi qualche pezzo dal nuovo lavoro degli Iron Mask.
Capitanati dall'inossidabile Dushan Petrossi, la band torna insieme dopo due anni dal massiccio Black as Death con questo Fith Son of Winterhood, giusto continuum per la strada intrapresa con il precedente platter.
E sebbene un inizio molto soft come Back Into Mystery possa far storcere il naso per i suoi ritmi da mid-tempo basta passare alla successiva Like a lion in a cage per spazzare via ogni ombra di dubbio sul disco che abbiamo tra le mani. Un velocissimo riffone accompagnato da una batteria lanciata a mille ci scaglia nel mondo powerissimo che Petrossi e soci riescono a evocare, supportati dal bravissimo Mark Boals alla voce. Immancabile poi un pezzo "anthem" come Only One Commandment: vi assicuro che vi ritroverete a cantarlo in men che non si dica! L'ispirazione ai nostri non manca, ed è così che raggiungiamo un pezzo veramente particolare come Seven Samurai, a metà tra heavy/power e con delle parti di... blast beat! Senza dimenticare dei bellissimi arpeggi di sottofondo al frastuono metallico. Segue poi la folkeggiante title-track, che dura ben dieci minuti, ma che vi assicuro passeranno via lisci come l'olio per la freschezza dei riff e il coinvolgentissimo chorus. Da notare anche il bellissimo stacco acustico a metà canzone, che ci lascia un attimo in sospeso per poi riattaccare con l'incalzante riff.
Un primo segno di cedimento arriva con Angel Eyes Demon Soul, il pezzo più hard rock del disco che sinceramente non mi ha convinto molto. Molto meglio la successiva Rock Religion, che mi sa molto di dedica a Ronnie James Dio visto il tema, il cantato e il potentissimo riffone. In poco tempo vi ritrovere, come la precedente Only One Commandment, a canticchiarla.
La successiva è un pezzo veramente struggente, dove Petrossi parla davvero della morte di suo padre avvenuta lo scorso anno. Una ballad dolcissima questa Father Farewell, che non mancherà di commuovere i poweroni più incalliti.
Iniziamo a vedere la fine del disco con un altro pezzone powerissimo come Eagle of Fire, che con il suo riff vi farà fare headbanging duro e ripetuto, per poi passare al pezzo che mi ha più convinto del disco intero: Reconquista 1492. Tamarrissima, con ispirazioni ovviamente spagnoleggianti, parla della riconquista della Spagna e del Portogallo ad opera dei sovrani europei nel 1492, più precisamente il 2 gennaio quando cadde Granada. Un incedere lento ma deciso e un coro indimenticabile fanno di questo pezzo uno dei punti forti della discografia degli Iron Mask.
Un altro pezzo un po' così così come Run to Me e infine arriviamo all'arrabbiatissima The Picture Of Dorian Gray, che con il suo stile maideniano vi conquisterà sicuramente (anche perché nel ritornello il buon Boals imita davvero Dickinson).
Insomma, questo Fifth son of Winterdoom è veramente un buonissimo disco power: se siete appassionati del genere vi consiglio l'acquisto, anche solo in mp3 tralasciando Angel Eyes Demon Soul e Run To Me. I guerrieri poweroni guidati da Petrossi mettono in buca un'altra partita, dimostrandosi ormai abbastanza "grandi" da iniziare a ritagliarsi un vero e proprio spazio nel mondo del power metal moderno.
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