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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    08 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 08 Giugno, 2022
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Noltem, un nome che ai più non dirà nulla ma che probabilmente rimarrà impresso nella mente e nei cuori di chi è innamorato del Black Metal atmosferico moderno, quello sfuggente, freddo e leggero come un fiocco di neve, ma allo stesso tempo carico di bruciante passione. Una carriera, quella del trio statunitense, passata totalmente in sordina dal 2003, anno di formazione, fino ad oggi - chiediamo scusa per l'enorme ritardo -. Quasi vent'anni in cui un solo EP ed una demo hanno visto la luce, ma che finalmente vengono coronati con il primissimo full-length targato Transcending Obscurity Records: il qui presente "Illusions in the Wake", uno dei dischi più belli e carichi di emozioni che il sottoscritto abbia mai ascoltato in anni di Metal. È impossibile cercare di definire la musica del trio senza risultare riduttivi o fornire un'idea molto blanda dell'enorme potenza suggestiva di tutta l'opera. In questo disco c'è praticamente tutto, dalla gioia alla disperazione, dalla leggerezza quasi ultraterrena alla forza di gravità più opprimente. Ma, tanto per darvi un'idea di cosa hanno da offrirci il mastermind Max Johnson e soci, cerchiamo di darvi alcune coordinate stilistiche. Sicuramente siamo in piena scuola statunitense, quella che fa capo a gente come i Wolves in the Throne Room, ma con un pesantissimo influsso della musica Ambient, leggera e soffice dei canadesi Unreqvited passando poi per la bellezza serafica degli Alcest e del Post-Metal fino a toccare la malinconia degli Agalloch - anzi, direi si tratti dell'influenza maggiore - e tinteggiando il tutto da innesti Folk vicini a Borknagar o Vintersorg. Come vedete siamo di fronte ad un'opera estremamente variegata e quasi omnicomprensiva che però riesce a fondere le suddette coordinate stilistiche in un solo perfetto miscuglio. nessun elemento presente nei Noltem è lontanamente riconducibile ai nomi sopracitati, eppure quando li ascolti sai che ci sono; un po' come dire, parlando in termini filosofici, che il tutto e le parti non possono coesistere escludendosi a vicenda ma solamente se messi in una relazione indivisibile. Dall'altro lato, poi, fa quasi paura l'estrema naturalezza con cui queste sei tracce si diramano all'interno dell'anima, quasi fosse l'ossigeno che inevitabilmente entra nei polmoni. Il tutto, dicevamo, portato a livelli eterei da questo mood così cristallino, pulito, freddo e asettico come l'acqua limpida ed immacolata che sgorga dalle cime più alte di chissà quale sperduta montagna. Da qui segue la potenza evocativa che viene fuori minuto dopo minuto e che prima abbiamo descritto come un ossimoro tra gioia e disperazione, leggerezza e pesantezza. In pratica mettere in cuffia questo "Illusions in the Wake" significa dare il via ad un viaggio astrale verso dimensioni lontane ed infinite dove l'anima dell'ascoltatore è investita da tutto lo spettro delle emozioni umane in un colpo solo. Alla fine ci si sente più leggeri, diversi, quasi ripuliti da ogni orpello materiale che ci circonda. Da parte nostra si tratta di uno dei debutti più belli - nel senso più ampio e forte del termine - che siano mai arrivati in redazione ed in grado di far innamorare chiunque voglia concedersi un momento di stacco da tutto ciò che ha intorno. Ma siete avvertiti: avrete le lacrime agli occhi per tutti i 40 minuti di durata. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    08 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 08 Giugno, 2022
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Quella degli statunitensi Artificial Brain è senza ombra di dubbio una carriera fenomenale, che in soli undici anni di attività ha permesso a Will Smith e soci di imporsi come tra le maggiori realtà Tech/Prog Death mondiali. Tra le tematiche sci-fi simil-Rings Of Saturn ed un sound consolidatosi nel tempo e divenuto sempre più inconfondibile, non stupisce se la band sia stata presa sotto l'ala della sempre perfetta Profound Lore Records. E non stupisce altrettanto se questo album omonimo, il terzo dopo "Infrared Horizon" del 2017, sia assolutamente un capolavoro, essendo frutto di tutta l'esperienza dei Nostri che, intelligentemente, hanno saputo omaggiare le loro origini - vedasi la scelta del nome - andando però a dare un risalto esponenziale a tutti quegli elementi che hanno fatto degli Artificial Brain dei colossi. Tutto ciò che potreste aspettarvi da un loro disco qui è totalmente accentuato ed inserito in un contesto che avvicina alla perfezione il loro stile. Elementi Noise che si inseriscono in fittissime ed intricate trame velenose per poi ricadere nei meandri più bui del globo terracqueo. Insomma, 45 minuti in cui ogni singolo elemento va a perdersi e ricomporsi su un unico piano rendendo di fatto impossibile catalogare la musica del quintetto newyorkese: se è perfettamente riconoscibile l'impostazione Technical/Prog Death, è altresì riduttivo cercare di far rientrare la loro musica in questo filone. Dalle sfuriate Black e Avant-garde che potrebbero ricordare Ulcerate, Gorguts, Sufferin Hour e Portal, fino al Death più sperimentale dei loro concittadini Pyrrhon o agli stupendi intermezzi melodici... Non c'è un solo singolo elemento che potrebbe essere etichettato. Lo stesso dicasi per la voce di Will Smith che, ahinoi, ha lasciato la band regalandoci quest'ultima grandissima prova canora. Un growl estremamente gutturale perfetto per lo Slam più assassino ma che qui funge da ossimoro essendo tutto il disco permeato da una riconoscibilissima vena acida, malata e caustica, con sonorità fredde e quasi asettiche. Del resto lo suggerisce il nome: qui sono la follia e la nevrosi più totale a dominare ogni traccia, al termine delle quali si sperimenta lo stesso effetto che provocano gli acidi sul cervello umano. Eppure in un calderone così caotico e apparentemente confusionario i Nostri mantengono perfettamente una linea guida chiara e precisa: tutto converge in un unico punto, per quanto i brani riescano a ramificarsi in un modo impressionante. Ed è proprio qui che gli Artificial Brain dimostrano di essere artisti con un'esperienza ed una maestria più uniche che rare, semplicemente perché sono riusciti laddove molti falliscono: alzare ancora di più l'asticella con ulteriori elementi senza scadere nella proverbiale troppa carne sul fuoco. In sintesi: un capolavoro. Chapeau!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    01 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 01 Giugno, 2022
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Detto fatto: a soli due anni di distanza dal brevissimo EP di debutto, che di fatto entrò nel mercato in sordina, i Sensory Amusia hanno partorito il loro primissimo full-length, questo caustico "Breed Death", licenziato da Lacerated Enemy Records. Un disco che a differenza del fratellino minore, entra a gamba tesa nel panorama Death moderno con una proposta veramente accattivante, almeno per coloro che apprezzano queste frange più malate e fredde del genere. Innanzitutto c'è da dire che il valore aggiunto dell'opera è quello di non ricadere nelle - spesso fin troppo - scontate quanto noiose derive Deathcore che ultimamente hanno saturato il mercato e che, tolte alcune eccezioni, hanno abbastanza rotto i cosiddetti. Al contrario, i Sensory Amusia sono andati a pescare altrove, per la precisione nel mondo Death/Grind tecnico che vede Aborted, Benighted, Misery Index, Cattle Decapitation e Beneath The Massacre come maggiori influenze. Il tutto, dicevamo, reinterpretato in chiave moderna grazie ad una produzione piuttosto fredda e artificiale - molto apprezzata ma avremmo preferito qualcosa in meno - ed un approccio ipertecnico, quasi a ricordare i mostri sacri americani Inferi. Infine quella minuscola ma graditissima vena Slam, tanto per dare a tutto il carrozzone ulteriore pesantezza. Insomma, avete capito le coordinate stilistiche entro cui collocare gli australiani. Ma, al di là delle questioni superficiali, la cosa che sorprende dei Sensory Amusia è la continua ed implacabile furia omicida che pervade ogni singola traccia, tanto da ricadere forse nell'unico vero difetto di questo disco: una scarsa caratterizzazione dovuta alla struttura tendenzialmente uguale dei pezzi. Sia chiaro, non è da intendersi come un copia/incolla, piuttosto si vuole sottolineare che l'aver puntato tutto sulla violenza di impatto ha certamente dato vita ad una creatura colossale, ma dall'altro si va perdendo la personalità di tutta l'opera, perché è più forma che contenuto. Possiamo quindi dire che la prova dei Nostri tecnicamente parlando è da 10 e lode, così come a livello di produzione, voce e comparto strumentale; ma a livello di espressione artistica o comunque di firma, siamo sulla sufficienza. Il consiglio è dunque quello di variare ulteriormente la proposta, lasciando spazio ad un riffing più eterogeneo che mostra le sue vere potenzialità solo nei brevi momenti in cui ci si apre maggiormente ad altre influenze - vedasi "Vulgar Thoughts Of Carnage" -. In conclusione ci riteniamo estremamente soddisfatti dei Sensory Amusia, soprattutto per essersi riscattati dopo un inizio carriera in totale sordina. Potremmo essere davanti ad un nome - è ancora tutto da vere - di primaria importanza per questa nuova frangia del Death Metal. Teneteli sott'occhio!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    01 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 01 Giugno, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Debut album per il quintetto d'Oltralpe Sacrifizer, che dopo un EP ed una demo si presenta finalmente con il primo full-length licenziato da Osmose Productions, il qui presente "Le diamant de Lucifer". Disco che fa dell'impatto e dell'energia rilasciata tutta di botto i suoi cavalli di battaglia. È interessante notare come siano diverse le band giovani dedite ad una sorta di revival della vecchissima scuola che fa capo a band quali Venom, Bathory, primi Sodom e Destruction... Insomma, puro e semplice Black/Speed Metal stantio e ammuffito che fa sempre la sua grandissima figura. Proprio come i Bütcher, i Midnight, i Toxic Holocaust o gli Evil Invaders, i Sacrifizer si dedicano anima e corpo agli albori del Metal, proponendo quindi una musica super riconoscibile, costantemente insozzata dalle sferzate Black e Thrash e suonata con una produzione scarna ma non per questo brutta. Insomma, tutti ingredienti che conosciamo ampiamente ma che fa sempre tanto piacere riassaggiare di tanto in tanto; soprattutto se si tiene conto che la proposta della band non è riducibile solamente alla pura emulazione: in questo debutto c'è comunque il chiaro intento di metterci del proprio, e lo dimostrano le - seppur poche - sezioni pulite caratterizzate da arpeggi o momenti più tranquilli, come a voler dare una parvenza di melodia o ricercatezza a tutta l'opera. Tuttavia ciò che funziona veramente in "Le diamant de Lucifer", oltre a tutta l'impostazione classica, è la grinta e l'energia che non accennano a calare di una singola pagliuzza per tutti i 40 minuti di durata. A livello puramente musicale, infine, ritroviamo quello che ci si aspetterebbe da un album siffatto: voce sporchissima e abrasiva come carta vetrata, intermezzata da acuti simil Schmier dei Destruction, sorretta da un songwriting ultra frenetico, asciutto e compatto. Della serie: in live farà uscire i morti dal pit, e a noi piace così.
Chiaro, non si tratta del capolavoro dei capolavori, sono ben altri i nomi che, ad oggi, hanno meglio incarnato lo spirito dello Speed Metal vecchia scuola (i gruppi sopracitati), ma fa comunque piacere sentire una realtà giovanissima unirsi alla satanica schiera di coloro che vogliono mantenere alto e vivo il nome del metallo ancestrale. Promosso a pieni voti e super consigliato!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    01 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 01 Giugno, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Chi si aspettava dai mostri sacri Decapitated un ritorno totale alle vecchie sonorità resterà probabilmente deluso da questo "Cancer Culture", ottava fatica per Vogg e soci. Eppure c'è da dire che il trio polacco è riuscito a risollevare di tanto la testa dopo il brutto scivolone del precedente disco; questo perché i Nostri hanno deciso di abbandonare l'eccessiva vena Groove degli ultimi tempi per tornare - in buona parte, ma non del tutto - a quel sapore più Technical Death o comunque ad un approccio nettamente più aggressivo. Dicevamo all'inizio che magari l'album rientrerà comunque nella spazzatura per i puristi, ma sicuramente saprà attirare l'attenzione di tutti grazie proprio al sapore "back to the origins" che si respira durante tutto l'ascolto. Tuttavia, come avrete letto dal titolo e dall'incipit, non si tratta certamente di un capitolo esente da difetti, il primo dei quali - e forse il più grave - è una sensazione di perdita costante del focus, come se ciascuna traccia volesse seguire un suo percorso senza tuttavia ricollegarsi nel contesto di un album. A testimonianza di ciò segnaliamo proprio due tracce che, singolarmente, sono anche fighe, ma che prese nel totale sfigurano completamente: "Hello Death" - con ospite la vocalist degli ucraini Jinjer - e "Iconoclast" con Rob Flynn dei Machine Head. Perché, vi chiederete, risultano slegate da "Cancer Culture"? Un eccessivo citazionismo alle band dei relativi ospiti: di fatto sembrano una traccia dei Jinjer una e un pezzo dei Machine Head l'altra. Cosa centrano in un contesto - almeno sulla carta - Death? L'impressione è dunque quella di pezzi studiati a tavolino per cercare di abbracciare un pubblico sempre più vasto. Da segnalare, infine, anche qualche inciampo durante il cammino, come le finali "Locked" e "Hours as Battlegrounds", forse i pezzi più anonimi senza personalità dell'intera opera.
Per il resto, sorprendentemente, questo "Cancer Culture" ha il grosso pregio di suonare esattamente come i vecchi Decapitated - con le dovute differenze del caso - e di conseguenza si presenta più feroce, spinto e crudele, quasi a ricordarci la prima decade di vita della band. Sia chiaro, il riffing non è così arzigogolato o contorto, ma fa comunque il suo figurone all'interno di strutture sorrette da un'ottima produzione ed un comparto ritmico semplicemente perfetto: dal blast beat sparato come un treno in corsa alle sezioni molto più cadenzate e - vagamente - dal sapore Slam. Dal nostro punto di vista i Decapitated sono finalmente tornati su territori molto più consoni al loro nome ed il nuovo capitolo è riuscito a modo suo a dimostrarlo.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    24 Mag, 2022
Ultimo aggiornamento: 24 Mag, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Stavolta Unique Leader Records ci ha preso bene; anzi, benissimo. Non stupisce, dunque, se questo debutto degli statunitensi The Dark Alamorté sia, senza troppi giri di parole, un capolavoro. E non stupisce altrettanto se il colosso abbia deciso di ripubblicare sotto la sua ala questo "Lunacrium Thepsis", disco che vide la luce come autoproduzione nel 2021 e che ora può godere di una seconda vita. Insomma, la label ci ha visto lungo e ha deciso di dare un boost all'act californiano riproponendone il debutto con le dovute migliorie. Il risultato, dicevamo, è pressoché perfetto, soprattutto se siete amanti della nuovissima frangia del Deathcore, quello che fonde al suo interno elementi Blackened Death e, in questo caso, atmosferici. Per intenderci: prendete band mastodontiche come i tedeschi Mental Cruelty - ad oggi i maestri indiscussi del Blackened Deathcore -, gli Inglesi Osiah o proprio gli statunitensi Lorna Shore. Ecco, se avete presente questa tipologia di Deathcore capirete immediatamente dove i The Dark Alamorté vadano a parare. Tuttavia per il trio non si tratta solamente di riprendere questi stilemi e di farli suoi; o almeno, non del tutto. Ciò che immediatamente stupisce del progetto è la fortissima presenza atmosferica da un lato ed un sound equilibrato dall'altro, nel quale Deathcore e Death Metal si fondono andando a creare quasi un ibrido. Non stupisce se durante l'ascolto si ravvisi una vicinanza con le tre band sopracitate e poi dei guizzi che sanno più di Septicflesh, Fleshgod Apocalypse ed Ex Deo. Da qui si capisce come le sezioni atmosferiche e a volte sinfoniche giochino un ruolo estremamente strategico per la riuscita della formula proposta: ogni traccia ha il suo sfondo etero dal quale si staglia feroce e possente, ma estremamente elegante. E stiamo parlando di ben 15 tracce per quasi un'ora e venti di durata che fila liscissima senza nemmeno rendersene conto: se è vero che la maturità, l'attitudine e la bravura siano fondamentali, è altresì imprescindibile una certa vena alla sperimentazione o all'effetto sorpresa se si vuol davvero fare un figurone. Ecco, "Lunacrium Thepsis" gioca proprio su un delicato equilibrio tra lo stupire e il mantenere comunque un solidissimo punto di riferimento - "Antediluvian Revelation" è una traccia che rispecchia l'essenza della band -.
Insomma, senza stare troppo a tessere le lodi, siamo di fronte ad una realtà ben lungi dall'essere semplicemente una tra le tante. Se cercate del Deathcore moderno e di qualità eccellente, sappiate che i The Dark Alamorté ne sono diventati un più che fulgido esempio. Band assolutamente da tenere sott'occhio: potrebbero essere la nuova svolta del genere. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    24 Mag, 2022
Ultimo aggiornamento: 24 Mag, 2022
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Finalmente un disco Brutal Death che non sembra uguale ad altri diecimila presenti sul mercato! Era ora! Di chi stiamo parlando? Degli statunitensi Texas Murder Crew e del loro primo full-length "Wrapped in Their Blood", licenziato da Comatose Music e venuto alla luce dopo una demo ed un EP. Per la giovanissima realtà di Dallas, dunque, si tratta dell'esordio vero e proprio, il biglietto da visita di un act che, parlando strettamente del genere, deve fare i conti con tantissima altra gente. Anzi, oseremmo dire che il panorama Slam/Brutal Death è da qualche anno più che saturo dopo un periodo di totale sordina. Viene da sé che per questi ragazzi si tratta di una prova doppiamente difficile: da un lato riuscire a convincere l'ascoltatore, dall'altro ritagliarsi uno spazietto per dare sfogo alla propria personalità all'interno di un genere che, lo ripetiamo, per saturazione e in generale poca propensione all'originalità, non è facile. Comunque sia, i Nostri - si capisce già dall'introduzione - sono riusciti perfettamente nel loro intento offrendoci un disco tutt'altro che scontato e con dei passaggi notevoli. Un fattore che ha giocato sicuramente in loro favore è la quasi totale assenza della componente Slam, che potremmo ritrovare giusto in alcuni passaggi simil-Devourment ed Abominable Putridity. Ciò che, al contrario, domina è la forte vena Cannibal Corpse - quelli di metà carriera - ed Ingested, di fatto il vero cuore pulsante del progetto Texas Murder Crew. Da citare, poi, la presenza di ben due vocalist che sicuramente offre a tutta l'opera quel guizzo in più.
In realtà questo "Wrapped in Their Blood" non offre chissà quali novità in fatto di passaggi, riff o attitudine. Tradotto: siamo all'interno di stilemi ampiamente conosciuti e ben radicati. Tuttavia è il modo con cui i Nostri si sono approcciati al Brutal Death. Mi spiego. Quella imbastita dall'act texano è un'incredibile prova di maturità che si traduce in brani estremamente funzionanti, affatto noiosi e comunque ricchi di verve; componente, quest'ultima, che non sempre si ritrova in un disco siffatto. Non bastano chitarre a otto corde super ribassate e con il gain sparato a rendere imponente il muro sonoro. Servono anche soluzioni in grado di nobilitare la pesantezza del genere; cosa che qui avviene con un'intelligente alternanza delle parti veloci e blastate e quelle più Slam o comunque tipiche del Death vecchia scuola con i classici breakdown intermezzati dai trilli della chitarra. Insomma, giocando con delle coordinate note, il gruppo è comunque riuscito a non sfociare nel classico copia/incolla. Gran bel lavoro ragazzi!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    16 Mag, 2022
Ultimo aggiornamento: 16 Mag, 2022
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La scuola Black greca è generalmente riconosciuta di primaria importanza, soprattutto se si citano gente come Rotting Christ o Varathron, tanto per dare due "sconosciutissimi" nomi. Che si tratti del songwriting mediterraneo, del sound vicino alla musica ellenica, così come i temi trattati, è certo che da queste parti il Black Metal ha un'identità tutta sua che spesso si discosta parecchio dalle fredde lande scandinave. Comunque sia, i Synteleia, band per l'appunto greca, non è da meno e rientra perfettamente nel filone stilistico riconducibile alle due band sopracitate. Giunto al loro secondo album, questo "The Secret Last Syllable", il quintetto va perfezionando la proposta dando a tutta l'opera una firma ancora più incisiva e decisa; viene da sé, dunque, che per questi ragazzi il disco sia una sorta di svolta musicale o, per meglio dire, un consolidamento del proprio modus operandi. Fortemente ispirato all'Orrore Cosmico di H.P. Lovecraft, il disco ci propone 40 minuti di Black Metal che ricalca il sapore ellenico del genere. Abbiamo molto apprezzato il fatto che, rispetto ai mostri sacri Rotting Christ che ultimamente hanno battuto non poco la fiacca, la proposta dei Synteleia sia piuttosto energica. Tuttavia bisogna far notare come l'approccio generale dei Nostri sia ancora acerbo e scolastico sotto alcuni punti, in primis dei passaggi piuttosto scontati. In secondo luogo questa tendenza di strafare con le sinfonie e la ritualità spezza non poco quanto di buono c'è nei pezzi: la sensazione, vuoi per una produzione buona ma abbastanza basilare, vuoi per i motivi appena elencati, è quella di un album ovattato in cui il sottofondo sinfonico e "clericale" funge da ammortizzatore a tutta la proposta. Della serie: molte idee - buone peraltro - ma ben confuse. Alcuni ottimi spunti ci sono, come nell'opener o in "Escaping Atheron", ma si tratta perlopiù di guizzi di genio all'interno di un languido mare che cerca più volte di smuoversi ma con scarsi risultati. Dicevamo che per i Synteleia si tratta comunque di una prova più "sveglia" e grintosa rispetto ad altre proposte, ma c'è sempre quel continuo ricadere negli stereotipi della musica ellenica che davvero non vanno troppo giù. Chiaramente è pur sempre una questione di gusti ed attitudine, ma non possiamo fingere che il disco si attesti su un livello ancora troppo standard.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    16 Mag, 2022
Ultimo aggiornamento: 16 Mag, 2022
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Avevamo lasciato il trio svizzero Aara al 2021, anno in cui i Nostri pubblicarono il loro terzo disco "Triade I: Eos", il primo album di una trilogia incentrata sul romanzo gotico “Melmoth The Wanderer” (“Melmoth l’Errante”), opera del 1820 dello scrittore Charles Robert Maturin. Di quel lavoro ci colpì tantissimo il connubio perfetto tra sinfonie, atmosfere, melodie e riff strazianti che pescavano dalla scuola Emperor fino a quella Behexen toccando anche i bellissimi lidi dei Mare Cognitum. Insomma, un Black Metal atmosferico ricchissimo di dettagli ma mai pomposo o fine a sé stesso. Eccoci quindi a fare i conti con il qui presente "Triade II: Hemera", la seconda parte della trilogia di cui sopra che, stilisticamente e tematicamente, andremo a trattare facendo costantemente i conti con il predecessore - sarebbe impossibile parlare del disco in maniera distaccata e slegata dal concept -. Comunque sia, la musica che il trio svizzero ci propone va a riprendere quasi del tutto gli stilemi proposti in "Triade I", seppur questa volta dando maggior risalto alla componente atmosferica e melodica, con perfino degli innesti in clean vocals che ricordano a tutti gli effetti gli Alcest - vedasi "Sonne der Nacht" -. Anche il songwriting sembra volerci portare su una dimensione più eterea e sognante, per quanto è bene precisare come il gruppo tenda comunque a dare quella vena Raw che di fatto lega gli Aara ad un ben noto modo di intendere il genere. Tuttavia sarebbe ingiusto dire che "Triade II" sia un semplice prosieguo del predecessore. Chiaro, è pur sempre un concept in forma di trilogia, perciò ci sono ben più di semplici punti di contatto tra i primi due capitoli. Ma è altrettanto vero che il mood che si respira qui è piuttosto differente, come se, passando dall'uno all'altro, si cambiasse piano esistenziale: più relegato al mondo umano e concreto il primo, più sognante, leggero e "spensierato" il secondo, quasi a volerci accompagnare in un viaggio che vedrà la sua conclusione nel prossimo disco - che è già in lavorazione tra l'altro -. Per dovere di onestà intellettuale non possiamo spingerci troppo in là con il giudizio in quanto non abbiamo ancora una visione completa del tutto. Ciò che ci limitiamo a fare in questa sede, dunque, è sottolineare le analogie e le differenze con "Triade I" e, soprattutto, a lodare gli Aara per lo splendido lavoro fatto. Il rischio era infatti quello di un copia/incolla, soprattutto se si è reduci da un primo capitolo semplicemente perfetto. E invece con nostro stupore gli svizzeri continuano a plasmare la loro opera aggiungendo dettagli che, oltre a darci una visione d'insieme maggiore, arricchiscono e migliorano ulteriormente il lavoro. Quindi, un grandissimo applauso e non vediamo l'ora di poter finalmente chiudere il cerchio con il capitolo finale.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    09 Mag, 2022
Ultimo aggiornamento: 09 Mag, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Opprimente, claustrofobico, cupo, freddo e minimalista. Il Black Metal del progetto francese Meyhnach, one man band creata dall'omonimo artista e storico fondatore dei Mütiilation, è esattamente quello che è: la crudezza fatta musica, suonata e pensata per fare del male e non lasciare spazio ad un singolo spiraglio di luce. Una vera e propria mano scheletrica che colpisce con una mannaia l'anima dell'ascoltatore incatenandolo poi in un turbinio di follia nichilista. Ecco, tutti questi ingredienti resero il progetto in questione molto appetibile ed interessante al debutto del 2017, e sono esattamente gli stessi che ritroviamo in questo nuovo "Miseria de Profundis", seconda opera dell'artista d'Oltralpe targato Osmose Productions. Sarebbe lapalissiano ammetterlo ma lo faremo comunque: non c'è molto da dire su questo disco, poiché tutto ciò che vi troverete all'interno è ridotto al minimo; volutamente ridotto al minimo. Ma, al fine di evitare un fraintendimento, è bene specificare come questo tono minimalista sia, paradossalmente, il punto di forza di Meyhnach. Il Black Metal che scaturisce in queste sette angoscianti tracce è scabroso e zanzaroso, reso ancora più freddo da una produzione estremamente centellinata ma altrettanto cruda, quasi si stesse ascoltando uno dei primi dischi dei Behexen. Metal primordiale nella sua forma più grezza e feroce, reso ancora più malato dalla lunga durata delle tracce che si snodano all'interno di un riffing compatto e tirato fino allo stremo con il solo intento di ipnotizzare ed uccidere l'ascoltatore. Avete presente "Filosofem" di Burzum? Ecco, siamo di fronte ad un'opera che fa della ripetizione ossessiva il suo punto forte, con qualche stacco in mezzo tanto per dare un brevissimo senso di respiro. Molto gradite perché maggiormente centellinate anche le sezioni di synth che ci regalano una parvenza di melodia in sottofondo ed un ulteriore senso di smarrimento e follia allo stesso tempo. Infine la voce dell'artista che fa estremo uso del riverbero, quasi a voler simulare l'urlo di un disperato incatenato in chissà quale buio meandro. Effetto che si sposa a meraviglia con l'aura velenosa e mortifera di tutto il disco. Diciamo quindi che siamo di fronte ad un capitolo estremamente interessante ma che, contemporaneamente, troverà estimatori quasi esclusivamente tra coloro che amano questo modo di intendere il Black. Di contro si potrebbe ravvisare un approccio troppo basic o scolastico con conseguente calo dell'attenzione. Un disco, quindi, che risulta difficile in questo senso ma che certamente lascia trapelare una certa maestria.

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