Opinione scritta da Dario Onofrio
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Ultimo aggiornamento: 10 Gennaio, 2015
Top 50 Opinionisti -
Avete mai aperto una bottiglia di buon vino invecchiata di decenni? Avete presente la delicatezza che bisogna metterci per filtrarlo, lasciarlo decantare e poi gustarselo? È più o meno quello che il sottoscritto ha provato andando a recensire la ristampa sotto SPV/Steamhammer di Power from the Universe dei Battleaxe. Diciamocelo ragazzi: questa band si meritava molto di più di fare solo due dischi per poi sparire nell'oblio.
Power from the Universe, classe 1984, è l'ultimo grande album della band prima di una pausa durata trent'anni e terminata nel 2014 con la reunion di Brian Smith (basso) e Dave King (voce) per il nuovo Heavy Metal Sanctuary: un canto del cigno di puro metallo fuso.
Potrei scrivervi intere righe su quanta classe e potenza dimostra un pezzo come Chopper Attack. Ispirati chiaramente ai Judas d'annata i ragazzi di Sunderland scrissero un vero e proprio masterpiece della NWOBHM, con pezzi a volte ritmati, a volte killer, come License to Rock o la potente Over the Top. Nella line-up che componeva questo album troviamo anche un pezzo d'acciaio mica male, ovvero Ian McCormack (ex Satan) alle pelli.
È così che, in un'epoca dove qualunque cosa facessi suonava bella e fresca, nascono pezzi potenti e complessi allo stesso tempo come Fortune Lady e la title-track Power from the Universe. Già, perché il nostro quartetto non s'accontentava di proporre ritmiche scontate, anzi, tra lavoro di drumming e tastiera ci accorgiamo di sottigliezze tecniche che ci fanno venire il sorriso, in un intreccio a quattro mani tra il drumming di McCormack e il fondamentale apporto di Steve Hardy alla chitarra.
Bellissime anche le quattro bonus track che troviamo in quest'edizione: Killer Woman, Radio Thunder, My love's on Fire e Love sick man aggiungono un sacco di valore a quella che già di per sé era una vera pietra miliare della NWOBHM.
Datemi retta: correte a comprarvi questa succosissima ristampa... Power from the Universe è un disco che non può mancare nelle case di chi ascolta heavy classico.
P.S. già che ci siete date pure un ascolto al bellissimo Heavy Metal Sancturary uscito quest'anno, magari ci fossero in giro più band come questa!
Ultimo aggiornamento: 22 Dicembre, 2014
Top 50 Opinionisti -
Ci sono dischi che scopri per puro caso e da cui ottieni la classica "folgorazione sulla via di Damasco". Ammetto che Citadel degli australiani Ne Obliviscaris ha avuto sul sottoscritto questo effetto. Ma cosa fa questo sestetto d'oltreoceano per incantare uno come me? Su Metal Archives leggiamo che la band è classificata come "extreme progressive metal", e che il primo album Portal of I è diventato talmente un culto nella nazione degli AC/DC che il pezzo And Plague Flowers The Kaleidoscope viene insegnato nel Sydney Conservatorium of Music.
Ma cosa diavolo fanno questi qua per essere così famosi? Cerco di spiegarvelo senza andare ad analizzare troppo, perché la musica dei Ne Obliviscaris va ascoltata e goduta. Extreme progressive metal è un genere affibbiato a quelle band come Ihsahn solista, Between the Buried and Me etc. che fondono la rabbia e gli stilemi nel primo caso del black, nel secondo caso del core, ad elementi schizoidi, cambi di tempo repentini, riffs assurdi e inserti di free jazz. In effetti non è una definizione molto errata rispetto alla musica che troviamo in Citadel: come disse qualcuno, questo disco ricorda tantissimo i King Crimson di Larks' Tongues in Aspic, alternando delicatissimi stacchi di violino a violenze sonore di doppia cassa, riffoni e voce harsch.
Anche la forma dell'album già di per sé appare come un disco complicato: solo 6 pezzi dei quali cinque vanno a comporre due suite (Painters of the Tempest e Devour me, Colossus). Non è affatto un ascolto facile, anzi, per coglierne bene le sfumature lo dovrete ascoltare un bel po' di volte, provando ad immergervi nelle atmosfere cupe, a tratti baroccheggianti, di pezzi come Triptych Lux o l'arrabbiatissima Pyrrhic. A dire la verità, a parte gli altri pezzi che sono un contorno, queste due più la bellissima Blackholes sono le uniche tre canzoni lunghe dell'album: tre pezzi in cui tutta l'abilità compositiva di questi ragazzi si esprime al 100%.
Personalmente, Citadel è un album che mi ha colpito sin dal primo ascolto per la passione con cui è suonato e per la delicatezza che il sestetto di Melbourne mette nelle sue composizioni. L'unica cosa che posso consigliarvi è di andare a comprarlo, che siate o meno appassionati di prog o che vogliate sperimentare qualcosa di diverso dai soliti canoni del core o del black più sperimentale: vi assicuro che non ne resterete delusi.
Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 2014
Top 50 Opinionisti -
In contemporanea all'uscita di Eastern Frontier in Flames, i Drudkh rilasciavano a inizio anno anche questo split album in 33 giri in compagnia degli inglesi Winterfylleth.
Non mi dilungherò troppo nello spiegarvi cosa troverete in questo album, visto che le cover presentate dalla band di Roman sono già presenti sulla compilation sopracitata. Ragioni commerciali o voglia di aiutare gli inglesi a uscire un po' dall'anonimato? Non mi sembra ci sia il bisogno visto che i Winterfylleth dimostrano di sapersi confrontare egregiamente con la cover di The Gates degli Hate Forest.
Un tuffo diciamo nelle origini delle due bands e di chi ne ha dato l'ispirazione, ma nulla di più e solo per pochi appassionati di black metal... Insomma una release abbastanza inutile. Consiglio invece di procurarvi The Divination of Antiquity degli inglesi, un disco pagan/black metal di notevole spessore.
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Non penso ci sia bisogno di aggiungere tanto rispetto a quello che hanno già scritto Gianni e Federico. Stiamo parlando di una delle formazioni più importanti per quanto riguarda il folk-rock internazionale, continuamente ispirata da nuova linfa vitale. Non sapevo come sarebbe stato questo ritorno sulle scene dopo il buon platter del 2012 che non mi aveva esaltato: beh, se dobbiamo fare un paragone questo è il nuovo "La Ciudad de Los Arboles".
Txus e soci dimostrano ancora una di volta di avere bene in chiaro quello che c'è da fare quando scrivi un disco hard rock/heavy/power metal: una bella storia, delle belle melodie, un'ottima produzione e stavolta l'utilizzo di elementi sinfonici e del controcanto costante della bravissima Patricia.
E niente, cosa c'è da aggiungere? Illusia è davvero un gran bel disco, quel disco power che mancava al timbrare il cartellino di quest'anno. Pezzi come Lo viuda de O' Brian, Cadaveria, Vuela Alto o anche la hit Abracadabra (che prende un po' da I'm shipping up to Boston, diciamocelo) resteranno nelle vostre orecchie per molto tempo dopo il primo ascolto e indubbiamente, come al solito, vi tireranno su di morale.
Davvero, bravi ragazzacci!
Ultimo aggiornamento: 11 Novembre, 2014
Top 50 Opinionisti -
Il groove è un genere che non ho mai sopportato.
Se non per eccezionali casi come i Pantera e pochissime altre cose, non è mai stato un genere nelle mie corde musicali, essendo il sottoscritto più appassionato di heavy, speed, power, thrash...
Eppure, quando nel 2007 uscì The Blackening, fu come se un lampo squarciasse il cielo, come se mi sentissi mancare la terra da sotto i piedi. Quel disco prese le mie convinzioni da trve defender ov steel e le distrusse sotto una micidiale raffica di riffoni, il cantato urlato che mandava a fare in culo mezzo mondo e si scagliava contro perbenismi, superficialità, stereotipi e false convinzioni.
I Machine Head in quel momento acquisirono per il sottoscritto un valore affettivo immenso. Non solo dei pezzi arrangiati stupendamente e una produzione da 10 e lode, ma l'energia che la band (ormai ex) bay-area mette nei suoi lavori è sempre stato qualcosa di caratterizzante, come se su un bellissimo disegno venissero aggiunti dei colori ancor più consoni ed emozionanti.
Trovai leggermente al di sotto delle aspettative l'eppur convincente Unto the Locust, uscito nel 2011. Ed eccomi qua nel 2014, quando mi viene proposto di fare la recensione per Bloodstone & Diamonds, che segna il ritorno in studio di Flynn e soci.
Le mie aspettative? Basse. Vedevo durissima la sfida di riuscire a tirare fuori ancora delle ottime idee in un genere superabusato, specialmente considerata l'enormità dei due dischi che precedono questo. Sono contentissimo di essermi sbagliato.
Se vogliamo partire subito con una considerazione universale, in Bloodstone & Diamonds ai Machine Head non è più rimasto nessuno da insultare. Questo disco è una specie di grido disperato, un misto di nichilismo, frustrazione e insofferenza, un album che ti sbatte in faccia quanto la vita può fare schifo. Basterebbe solo citare l'opener Now we Die: un titolo più eloquente di questo non si poteva usare per aprire questo platter. La produzione e gli arrangiamenti firmati dai Machine Head sono qualcosa di strepitoso come al solito, come un magma nero che ti penetra fin nel fondo del cuore e ti contamina completamente. E via a rincarare la dose con la tiratissima Killers and Kings, che sfrutta un chorus di puro groove per tirarci dentro alle atmosfere del pezzo. Ascoltare questo disco è come attraversare un orrendo bad trip: Ghosts Will Haunt My Bones e Night of Long Knives, dedicata alla follia di Charles Manson, ci tirano sempre più in basso nonostante la violenza sonora alla quale le nostre orecchie vengono sottoposte. La band intreccia sapientemente melodia e dissonanze, creando un vortice senza pari. Una delle cose più affascinanti che i Machine Head continuano a ripetere e rendere nuova e interessante ogni volta è proprio il lavoro melodico di chitarra che spicca sempre con dei fraseggi inframezzati al canto.
Dopo questo inizio sparato a cannone tocca al pezzo che a parer mio è l'apice di questo Bloodstone & Diamonds: Sail into the Black. Non poteva esistere una canzone più adatta per avvalorare la tesi di cui ho scritto prima. D'altronde non vi immaginate di essere seduti su una barca che attraversa lo stige, con il coro bassissimo e Flynn che ripete ossessivamente il titolo della canzone? Una lunghissima intro con parti elettroniche, archi, note di pianoforte ci cala sempre più in basso, poi, a cinque minuti, parte il cuore metallico della canzone, con un sapiente incedere di chitarre melodiche e il cantato che vi si intreccia sopra, mentre il ritornello è affidato di nuovo all'oscuro coro iniziale.
E se questa immersione nell'oscurità non ci è bastata ecco irrompere l'inizio doomeggiante di Eyes of the Dead, che è solo un preludio a un'altra carica di rabbia che i Machine Head ci sbattono in faccia a pugni. A metà tra blast-beat e melodia la band ripropone ancora una volta quella ricetta a cui ci hanno abituati, tra assoli spettacolari e un ritmo che ispira pogo e violenza. Menzione per il bellissimo assolo verso fine canzone e soprattutto per la voce di Flynn che passa dal growl al falsetto come se niente fosse. Beneath the Silt, la successiva, è un altro buonissimo tassello del puzzle, con un'attitudine più sludge e alternative rispetto al resto del disco. Anche qui si può notare la cura dell'arrangiamento specialmente da parte delle chitarre, che alla fine dei riff inseriscono sempre una nota più acuta e "colorata" rispetto alle altre.
Passiamo ora all'altro pezzo lungo del platter: di nuovo gli archi e un coro (stavolta femminile) ci introducono a In Comes the Flood, una canzone totalmente antiamericana. Anche qui da citare l'assolo che è qualcosa di stupendo, per non parlare dell'ultima parte dove metallo e archi si fondono per dare vita a un finale col botto. Cosa aspettarci dopo questa esplosione d'odio verso la propria nazione? Sicuramente non qualcosa di "romantico" come la bellissima Damage Inside, una vera e propria ballad composta dalla caldissima voce di Flynn e dalla chitarra di Phil Demmel. Sicuramente una canzone che si ritaglierà un posto speciale nel cuore di tanti ascoltatori. Eppure la follia descritta dai testi sembra poi diventare rabbia cieca nella successiva Game Over, forse il pezzo un po' più commerciale dell'intero album per un ritornello che prende a piene mani dall'alternative. La strumentale Imaginal Cells ci apre la strada per la conclusiva Take me through the Fire, pezzo caratterizzato da un ruvido incedere di chitarre e con un ritornello molto ritmato, classico da chiusura di un disco.
Qualcuno ha scritto che quest'album è un'accozzaglia di idee confuse e tamarraggine ingiustificata, ma come ben sappiamo i Machine Head sono uno di quei gruppi che o ami o odi. Secondo il sottoscritto Bloodstone & Diamonds dimostra una maturità dal punto di vista del songwriting eccelsa, un'attitudine professionale alla propria musica che nel campo odierno è oggettivamente senza pari. Senza innovare molto ma affinando continuamente le armi, Flynn e soci dimostrano ormai di essere la realtà groove più lanciata sul panorama internazionale, con una classe e un'energia a mio parere incredibile.
Bloodstone & Diamonds è semplicemente un disco che non può mancare nelle case di chi apprezza il metal in tutte le sue sfaccettature.
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Spesso per una band pensare di uscire dal panorama underground è veramente difficile e gli ostacoli sono tanti anche se magari si suona da moltissimi anni. E il primo passo, cioè il primo album, è sempre un banco di prova per tutti.
Questo momento è giunto per i milanesi Wine Guardian: nati nel 2004 e avendo subito un dimezzamento di line-up, nonostante le difficoltà i nostri hanno finalmente pubblicato, nel 2013, un album dal titolo Fool's Paradise.
C'è da dire una cosa: nonostante la produzione che purtroppo non rende al massimo i suoni l'abilità della band rende il disco perfettamente godibile. Fin dall'opener King of Rock'n Roll troviamo una serie di spunti e linguaggi non solo hard rock, ma spesso e volentieri anche quasi proggheggianti e epici. I tempi, comunque, sono sempre in 4/4 e i riff tendono alla ricerca di un catchy che a volte riesce, a volte annoia, ma comunque non lascia indifferenti. Meritevoli di attenzione brani come la doppietta "Fire Walks With Me" + "Tortuga", che passando dal fantasy ai pirati mettono insieme interessanti spunti a livello sia musicale che di concept. A livello strumentale comunque nulla da dire: il trio milanese se la cava benissimo dietro agli strumenti. Lorenzo, il chitarrista e singer, dà il meglio di sé nei punti lenti, mentre quando c'è da accelerare purtroppo mi sembra che perda di potenza a livello vocale, mentre sulla chitarra non ci si può proprio lamentare.
Insomma, mi sembra che dietro a Fool's Paradise ci siano tutte le premesse per una band di ottimo calibro. Le idee e la buona volontà non sembrano mancare in questo disco, ciò che mi sento di consigliare piuttosto è fare un investimento in produzione: indubbiamente molti dei brani dei Wine Guardian renderebbero meglio con un suono più moderno e articolato.
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Arriva dal North Carolina questo quartetto capitanato dal carismatico Anders Manga: I Bloody Hammers sono al terzo album in tre anni, una prolificità che a molti farà storcere il naso. Eppure questo Under Satan's Sun suona che è una meraviglia: inserito sempre nel revival stoner/doom degli ultimi anni il disco non sfigura affatto inserito in mezzo a lavori come quelli dei Blues Pills o dei già recensiti Lonely Kamel. Nonostante questa introduzione entusiasta però devo ammettere che pur non sfigurando il platter in questione non riesce nemmeno a brillare di originalità, non fosse per la voce quasi pop di Anders e le influenze comunque varie che spaziano dai Black Sabbath a quelle che potrebbero quasi sembrare delle soluzioni pop-rock.
Infatti la prima cosa che si nota è quanto pezzi come The Town That Dreaded Sundown (l'opener) o Welcome to the Horror Show siano assolutamente orecchiabili e canticchiabili, nonostante l'attitudine "occulta" dei membri della band. L'organo di Devalia è qualcosa che dà un valore aggiunto incredibile a determinati pezzi, mentre per il resto ci pensano l'hard rock di pezzi come Death Does Us Part o la mia preferita dell'album, cioè Dead Man Shadow on the Wall, il cui ritornello non potrà fare a meno di acchiapparvi.
Aspettatevi quindi dei bei riffoni corposi, testi macabri e conditi da una dissacrante ironia alla 70's... O alla film horror vecchio stampo.
Se siete curiosi date una chanche a questi ragazzotti magari sentitevi anche i dischi precedenti, che sono anche meglio di questo "intermedio" Under Satan's Sun. Il voto che assegno è perché con quello che è uscito quest'anno inevitabilmente il disco si colloca un gradino sotto al resto, ma fidatevi, l'annata è talmente buona su questo genere che non stiamo parlando di serie B...
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Durante il periodo di silenzio successivo all'uscita di Handful of Stars, la Season of Mist decide di rispolverare alcuni pezzi dei Drudkh passati in secondo piano rispetto ai dischi e di pubblicare questa raccolta (dal titolo tristemente profetico) intitolata "Eastern Frontier in Flames". Il disco che gli appassionati della band di Roman si troveranno tra le mani è il risultato dell'unione fra l'EP Anti-Urban del 2007 e altri due split-album dove i nostri si sono confrontati con i loro confratelli inglesi Sacrilegum.
Una raccolta interessante, che inizia passando dall'oscurita di Fallen into Oblivion dove pochi e semplici riff ci portano in un mondo scarno e desolato, per poi approdare nel black old-school di un pezzo come Ashes, che tira fuori il lato guerresco della band. Le cover reinterpretate in ucraino per l'occasione non sfigurano affatto rispetto ai due pezzi originali dell'album: così, se le atmosfere malinconico/apocalittiche tornano in Tam Gdzie Gasnie Dzien ritroviamo elementi della musica dei Drudkh anche in un pezzo particolare come Ten Ktery Se Vyhyba Svetlu degli Unclean, dove svolgono un lavoro fondamentale la chitarra acustica e le tastiere.
Una raccolta che quasi avvicina gli ucraini a band di maggiore successo nel genere, come il precedente disco. Insomma: se siete appassionati del lavoro di Roman e soci questa ristampa non potrà sfuggirvi di mano, altrimenti un ascolto su Spotify vi permetterà di apprezzare i Drudkh alle prese con un terreno pericoloso come quello delle cover. Terreno conquistato appieno d'altronde, con la solita energia che da sempre contraddistingue questa band.
Top 50 Opinionisti -
Facevo poco tempo fa un discorso su quanto certe band che cercano di sporcare apposta il loro sound per sembrare più "retro" siano alla fine scarse in quanto a idee compositive e quanto cerchino semplicemente di attirare i nostalgici dei 70's o 80's.
Ebbene, questo discorso con i Lonely Kamel non si può fare. Formatisi nel 2005 hanno dato alle stampe 3 album, l'ultimo dei quali sotto Napalm Records: il loro genere è un hard rock/blues/stoner carico di humor nero. Diversi festival (tra cui il Roadburn) hanno decretato il successo di questo quartetto norvegese, la cui presenza live è a dir poco fenomenale.
Ma veniamo appunto all'ultimo arrivato, questo Shit City. Una copertina e un titolo che non lasciano spazio all'immaginazione ci confermano tutto quanto non appena parte la title-track: sporca, con riff grossi e mastodontici, una voce che sembra tirata fuori direttamente dai 70's e delle atmosfere che ci portano in un mondo di acidi e fumo.
Influenze a metà tra i Black Sabbath e gli Iron Butterfly arrivano in pezzi come White Lines o Nightjar, ma non solo: il gusto per la citazione dei Lonely Kamel si esprime pienamente in pezzi come Is It Over o BDF. La cosa più bella di questo disco è che nonostante l'attitudine stoner il doppio lavoro di chitarra rende le canzoni irresistibili, appoggiando sulla ritmica del singer Tomas Brenna il perfetto contorno di solos creato da Lukas Paulsen, nuovo membro della band dal 2008.
Pezzi come I fell Sick e Falling Down mischiano perfettamente l'attitudine rock'n roll e quella psichedelica della band, facendoci quasi immaginare di essere seduti a un tavolo di una New York un po' noire.
Shit City, inserito nel revival hard rock/blues/stoner che ha accompagnato gli ultimi anni e le ultime band che sono spuntate un po' qua e là (vedi i Red Fang, ma anche Graveyard, Blues Pills etc.) si dimostra quasi punto di compiutezza di un percorso. Un disco che è contemporaneamente un'enciclopedia di cose già fatte, ma suonato con una freschezza e una grinta degna dei migliori lavori odierni.
Per questo invito chi fosse curioso di approfondire proprio questo genere di partire da qua. Magari gli intenditori non saranno d'accordo, ma reputo che i Lonely Kamel abbiano fatto un lavoro veramente degno di nota, da tenere in considerazione anche per i dischi successivi.
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Rabbia cieca.
Un titolo tanto semplice quanto efficace per descrivere il nuovo disco dei cavalieri teutonici Accept, che dopo due anni da Stalingrad tornano a farsi sentire nel mondo discografico. Un ritorno che stavolta è valso la prima posizione per vendite in Germania e Finlandia, e un bel posto nelle top ten di Repubblica Ceca, Ungheria e Svizzera.
Con un botto del genere cosa si rivela essere Blind Rage? Beh, il più classico dei classici dischi che potevamo aspettarci dagli Accept. Sin da Stampede ritroviamo tutta l'energia e la potenza di una band che ha scritto la storia dell'heavy metal: velocità e impatto sonoro sono i classici cavalli di battaglia sfruttati dalla band, che anche stavolta non si risparmia il pedale dell'acceleratore.
I testi di questo disco sono dedicati, mi par di capire, per la maggiore al rapporto dell'uomo con la natura e al destino dell'umanità, come possiamo intuire da brani come Dying Breed e 200 years. In ogni caso l'ira ceca degli Accept ci si scaglia addosso tra cori, sovrincisioni magistralmente studiare e la graffiante voce del buon Tornillo, che mantiene altissime le sue performance in studio. Occhiolini hard rock vengono tirati in pezzi come Dark Side of my Heart e nella ballad Wanna be Free, mentre le cariche heavy non mancano in pezzi come Trail of Tears e Bloodbath Mastermind. Non mancano neanche i classici "inni" degli Accept con Fall of the Empire e From the ashes we Rise. Quest'ultima ha decisamente un piglio molto hard rock, che quasi strizza l'occhio agli AC/DC.
Ma il punto più alto del disco lo raggiungiamo a mio parere con l'altra ballad: The Curse è un pezzo ispiratissimo, dove l'alchimia creata dal gruppo teutonico funziona perfettamente mischiando atmosfere epiche e ruvide allo stesso tempo. Gemellina di Twist of Fate, presente sul platter precedente, si rivela essere il picco di forza dell'album (e spero venga suonata anche dal vivo!).
A chiudere troviamo la cavalcata heavy Final Journey, dove l'inossidabile Wolf Hoffmann piazza pure uno spettacolare assolo basato sul Morning Prelude del Peer Gynt di Edvard Grieg.
Inutile dirlo: gli Accept ci hanno abituati bene, scrivendo, a partire dalla reunion, tre dischi eccellenti. Forse questo Blind Rage non regge il paragone con un platter comunque variegato come Blood of the Nations, ma resta comunque di una freschezza e di una potenza inarrestabili e si merita assolutamente le posizioni guadagnate a partire dal debutto.
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