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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    05 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 08 Luglio, 2022
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Chi conosce il progetto Saor e lo ascolta sin da "Roots" del 2013 sa già che ogni nuova uscita del mastermind scozzese Andy Marshall è un viaggio indietro nel tempo nelle terre selvagge inglesi dove solo la natura, la nebbia, il freddo ed il silenzio sono i veri protagonisti. Sonorità che potrebbero tranquillamente ricordare le splendide riprese de "Il Signore Degli Anelli" in Nuova Zelanda per intenderci. Dunque era quasi scontato che questo "Origins", quinto capitolo della carriera, firmato Season On Mist (il primo sotto questa etichetta), fosse un capolavoro unico nel suo genere. Eppure di scontato qui c'è molto poco, perché se da un lato lo riconosci in meno di un secondo che si tratta di un lavoro al 100% Saor, dall'altro abbiamo delle importanti novità che certamente rendono l'opera perfettamente in linea con la discografia, ma al contempo le danno numerose tinte nuove. In primis vogliamo sottolineare quanto la definizione "Caledonian Metal" sia sempre più calzante (da qui anche l'unicità a cui accennavamo prima): elementi Black Metal, Pagan, Folk, musiche scozzesi, violini, flauti, clean vocals... Tutto qui si mischia, si unisce, gioca e danza creando una sinergia tra le parti praticamente perfetta. Insomma, il marchio di fabbrica dei Saor che hanno fatto della Scozia e delle sonorità e leggende ad essa legate la loro linfa vitale. Ma, dicevamo, qui c'è molto di più rispetto alle opere precedenti che spesso sono state criticate per un modus operandi tendenzialmente adagiato sugli allori, come se Mr. Marshall si fosse ritagliato un suo angolino senza però mai cercare di uscirne. Ecco, qui quella sensazione viene meno, a cominciare dagli elementi Black maggiormente limitati e relegati alle sfuriate battagliere ed epiche ed allo scream; ma comunque, soprattutto per le prime, si tratta di passaggi centellinati e molto più ragionati. Di contro, abbiamo una maggiore enfasi delle sezioni Pagan e Folk, con un accenno a quella componente vagamente Agalloch e Alcest che ne viene fuori. Per quanto riguarda i vari strumenti come corni, violini cornamuse, tamburi tribali ecc., qui abbiamo l'imbarazzo della scelta. Se non fosse per l'evidente base Heavy Metal delle chitarre, che si sono appesantite o comunque sono state molto più enfatizzate, alcune parti richiamerebbero assai da vicino i norvegesi Wardruna. È evidente, dunque, che Andy Marshall in questi anni abbia variato molto le sue influenze e le sue scelte stilistiche, per poi riordinare le idee in questo "Origins". Un album, lo ripetiamo, estremamente eterogeneo, che sa farti piangere ed emozionare o farti venire la pelle d'oca per la fierezza battagliera con cui si presenta (vedasi "Beyond The Wall" o la traccia omonima che chiude il disco). Dal nostro punto di vista un centro pieno. Chiaro, si tratta comunque di un genere che non piace a tutti, ma se invece amate il progetto e queste derive del Metal beh, signori, premete il tasto "Play", chiudete gli occhi ed tuffatevi in questo viaggio onirico.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    05 Luglio, 2022
Ultimo aggiornamento: 08 Luglio, 2022
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Chi si aspettava da questo "Unheeded Warnings of Decay", primo full-length dei nostrani Instigate licenziato da Everlasting Spew Records, un album della madonna, beh aveva pienamente ragione. Cosa vuoi dire ad una band nata dai membri di Bloodtruth e Demiurgon? E, aggiungiamo, cosa vuoi dire ad una band che tra le fila ha reclutato il mitico Francesco Paoli dei Fleshgod Apocalypse per registrare la batteria di questo disco? Esatto, niente; puoi solo esclamare "me co*oni!", chinare il capo e farti investire da tutta la maestria e l'ignoranza di chi, a buon diritto, detta legge in fatto di Death Metal italiano. Se già l'EP di debutto ci aveva affascinato per la sua ferocia, è tuttavia qui che gli Instigate esplodono al 100% del loro potenziale, soprattutto per una differenza non da poco: il cambio di batterista. Nel 2020 dietro le pelli c'era il fenomenale Kevin Talley, artista di indubbia e riconosciuta classe e bravura che diede non poco il suo contributo nelle tre tracce dell'EP. All'inizio, dunque, gli Instigate si ponevano a metà tra il Death Metal ed il Grindcore, con una proposta a dir poco disumana. Ma con l'entrata di Paoli l'ago della bilancia si è decisamente spostato di più sul versante Death, con una prova che definire perfetta ed impeccabile sarebbe oltremodo riduttivo. Ed eccoci qui, con questi nuovi Instigate, ancora più feroci ed incazzati che ci regalano circa 35 minuti di ignoranza a secchiate che devasta, distrugge e polverizza ogni cosa. Se avete amato i Coffin Birth (altra band italo-maltese con Paoli e membri di Hour Of Penance e Beheaded), allora qui troverete un disco che segue esattamente quel filone, ossia la frangia più feroce e brutale del Death Metal classico, senza i moderni innesti Slam o le derive Grind che dir si voglia. Praticamente un treno merci a tutta velocità che ti arriva in faccia. Dalle blastate al fulmicotone, passando per il riffing serrato e granitico come un macigno, fino ancora alle sezioni più groove in cui i nostri si cimentano in breakdowns spaccaossa... non c'è niente in questo "Unheeded Warnings of Decay" che faccia calare di una minima pagliuzza l'asticella; né, tantomeno, un singolo elemento che non sia al suo posto. Qui tutto è perfetto, elevato a potenza e pregno dell'incredibile maestria di gente che il Death Metal lo vive e lo domina. Ed è esattamente questo il motivo per il quale riteniamo il lavoro di Borciani e soci un discone: la maestria e la classe con cui è suonato. Tutti possono suonare Death Metal classico; ma quasi nessuno riesce a suonarlo così, con questa verve, con questi suoni, con questi passaggi... Insomma, o hai le palle sotto o resterai sempre relegato nella media. E qui di medio c'è solo il dito che gli Instigate mandano a chi pensa di poterli spodestare. Dormite sonni tranquilli, il Death Metal italiano avrà ancora per molto delle guide di questo calibro. I miei personalissimi complimenti alla band!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    28 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 28 Giugno, 2022
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In anni e anni di Death Metal questa è la prima volta che mi imbatto in un disco così disturbante come questo "/the_Depths", primissima uscita e debutto autoprodotto degli statunitensi Rotted Through - ci scusiamo per l'enorme ritardo -. Ma andiamo con ordine. Ora, il mondo splatter e gore nelle sue forme più malate e violente è un tema ampiamente trattato nel Metal: dai famosissimi Cannibal Corpse ai gruppi underground sconosciuti con le copertine più truci e crude. Insomma, è una tematica molto prolifica. Ecco, i Rotted Through rientrano perfettamente in questo secondo filone, ma non per la copertina che è normalissima, quanto per il tema di questo concept: il Dark Web. Ora, per spiegare a quei pochi che non sanno cosa sia il Dark (o Deep) Web, prendiamo l'immagine di un iceberg: la parte più piccola che fuoriesce dall'acqua è il Web normale, con i classici siti normalmente accessibili; la parte più vasta e grande sommersa, invece, va a costituire tutta quella serie di siti non indicizzati ed impossibili da visitare se non si hanno gli strumenti giusti. Il Dark Web è stato spessissimo usato per commettere crimini di ogni tipo: dalle truffe, alla vendita di armi illegali fino alla condivisione di materiale pedopornografico, video di esecuzioni, stupri e tutte le perversioni più animalesche ed indicibili. Immaginate, per tornare al discorso, un album ispirato a questo e quindi a qualcosa di reale. Inoltre la cosa malatissima dei Rotted Through è che il loro sound diventa sempre più pesante e disturbato ad ogni traccia, proprio per simboleggiare questa discesa nei meandri più malati del Web - e della natura umana -. Non è un caso che l'ultimo brano "That Which Is Abysmal" sia ispirato alla, forse, storia di infanticidio più brutale mai avvenuta nel mondo: quella per mano del criminale Peter Gerard Scully nei confronti di una bimba di 18 mesi, Daisy. Non è difficile trovarne notizie: roba che va oltre i livelli della perversione e della malattia mentale. ARTISTICAMENTE parlando un brano - anzi, un album - ispirato a tutto ciò è una figata.
Comunque, a livello stilistico i Rotted Through si inseriscono nel filone del Death Metal americano, con un costante rimando ai Cannibal Corpse fino allo Slam più feroce e brutale, ma senza mai ricadere in pieno negli stilemi di quest'ultimo. Anzi, sottolineiamo invece come i Nostri siano riusciti a dare alla luce un album perfettamente equilibrato che si addentra nei meandri più feroci del Death ma restando comunque in un raggio d'azione ampio ed eterogeneo. C'è perfino posto per un'azzeccatissima vena melodica che permea di follia tutto l'ascolto; e visto il tema direi proprio che ci casca a pennello. L'unica pecca è forse una produzione troppo "basic" che fa perfettamente il suo lavoro ma risulta un po' troppo scarna e piatta.
In definitiva, questo "/the_Depths" ci presenta una band con un potenziale mastodontico: arrivare a pensare un concept di questo tipo, con le tracce che si appesantiscono man mano che si va avanti non è roba da tutti. Band da tenere ASSOLUTAMENTE d'occhio e che ha tutte le caratteristiche per fare salto di qualità. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    28 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 28 Giugno, 2022
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Tornano sotto l'egida di Unique Leader Records i Soreption, trio svedese che sin dagli esordi ci propone un Death Metal tecnico che molto, anzi moltissimo, deve ai Decapitated. Non c'è da stupirsi, dunque, se questo quarto disco "Jord" non si discosti affatto dall'ormai consolidato stile della band di Sundsvall, con tutti i pro e i contro. Personalmente ho sempre visto i Soreption come la classica band che è brava ma non si applica, con parecchi ingredienti interessanti nel repertorio ma poco sfruttati. Di base i Nostri funzionano perché ciò che propongono è stato già ampiamente sentito e portato allo splendore dai già citati Decapitated. Ora, sarebbe ingiusto definirli come un gruppo copia/incolla dei polacchi, ma va puntualizzato come i Soreption nemmeno ci provino così tanto a togliersi di dosso questa etichetta. Dicevamo come "Jord" sia fondamentalmente un disco perfettamente in linea con il loro modus operandi: moltissimi momenti groovy tra i quali la batteria si inserisce a suon di doppia cassa martellante ed ipnotica e mid tempo. Le chitarre seguono a ruota l'andamento, senza districarsi in eccessivi orpelli ma senza, dall'altro lato, risultare troppo monotone. Di base sono due i grossi pregi di questo disco: l'essere orecchiabile ed equilibrato e la presenza di numerosissimi ospiti che di fatto arricchiscono l'intera proposta. Dagli Archspire, agli Inferi o agli Abiotic abbiamo un esercito vero e proprio di ospiti tutti provenienti dal filone Technical Death. Eppure su quest'ultimo punto ci sarebbe da fare una riflessione in più: perché, nonostante risentano in positivo delle varie collaborazioni, ai brani manca comunque quel qualcosa per esplodere veramente? Ed è proprio qui che subentra l'ormai consolidato grossissimo difetto dei Soreption: si adagiano da sempre troppo sugli allori perché capitati nel posto giusto ed al momento giusto. Dicasi anche "comfort zone". Ma, come si diceva all'inizio, prendere o lasciare; i Nostri nel bene o nel male hanno comunque saputo ritagliarsi una loro fetta di pubblico, soprattutto se tra di voi c'è gente che li segue dall'inizio o se è nuova. Per tutti quelli che invece mangiano pane e Technical Death, passate tranquillamente oltre.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    22 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 22 Giugno, 2022
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Ed eccoci con il fratello gemello di "Av gudars ätt..." degli svedesi Trolldom uscito in contemporanea: "I nattens sken (Genom hemligheternas dunkel)". Stessa line-up, con lo sconosciutissimo mastermind Swartadauþuz e il micidiale Kévin Paradis dei Benighted come session drummer, e, di conseguenza, stessa qualità, seppur con alcune importanti differenze. Sembrano quasi agli opposti i due lavori della band; a voler esagerare potremmo definirli lo yin e lo yang. Ora, è logico che ci siano non poche analogie tra i due, stiam pur sempre parlando dello stesso artista e, soprattutto, di brani scritti tutti nello stesso periodo; viene da sé che un filo conduttore ci sia: le melodie e le atmosfere maligne e cariche di morte e freddo. Tuttavia se nel primo trovavamo un approccio più "morbido", ragionato e, in generale, orientato nel fornirci un Black Atmosferico più elegante, melodico ed ipnotico, qui la musica cambia in tutti i sensi. Maggiore tecnica - da intendersi come riff più elaborati - e soprattutto un mood Raw e brutale, certamente melodico ed atmosferico come già detto ma meno romantico e cavalleresco. Le sfuriate qui tagliano come rasoi con un costante richiamo alla versione più cruda, mortifera e pura del Black, quella figlia degli anni '90. Se nel primo le tastiere ci offrivano un appoggio quasi etereo sul quale tutto il comparto si appoggiava, qui il paradigma sembra ribaltarsi: il veleno e la furia delle chitarre buca il velo regalandoci un Black molto più oscuro e feroce sul quale le tastiere soffiano vento andando ad accentuare ulteriormente la mancanza di ogni singolo bagliore di luce. Da qui segue il motivo per cui "I nattens sken" abbia ricevuto mezzo punto in meno. Posto che qualitativamente parlando sia un discone degno come il gemello, va detto che tenere testa a 50 minuti di Black frenetico e caustico che non accenna praticamente mai ad attenuarsi - l'altro lo fa - potrebbe risultare impegnativo. Da non intendersi come tracce meno belle, ma semplicemente di più difficile fruizione - scontato dire che poi i gusti son gusti ed ognuno è diverso -. Chiaro, l'impostazione atmosferica delle tastiere aiuta - lo ripetiamo, sono comunque figli della stessa mente - a mandare giù il boccone, ma di base sono le ritmiche martellanti e frenetiche a dettare legge, seconde solamente alla splendida voce del mastermind che, come nell'altro disco, ci regala uno scream super cadaverico e strillatissimo tinteggiato qua e là da qualche sezione in growl.
Quindi che dire, recuperate entrambi i lavori dei Trolldom ed apprezzatene soprattutto i diversi sapori che offrono. Se, poi, siete particolarmente fan del Black Metal, qui troverete del materiale molto interessante da mettere nel bagagliaio.

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4.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    22 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 22 Giugno, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Se non conoscevate tal Swartadauþuz tranquilli, soltanto chi bazzica nel sottobosco più profondo ed impenetrabile della scena Black svedese potrebbe sapere chi è. Se poi aggiungiamo che di quest'artista non si sa NIENTE - nemmeno Metallum sa fornirci delle info - se non che abbia una lista lunga quanto un'autostrada di band e progetti solisti, si intuisce come mai i più ignorino totalmente l'esistenza di questo soggetto. Comunque sia, oggi andremo ad analizzare il debutto di una delle sue one-man-band: i Trolldom ed il loro "Av gudars ätt..." - uscito simultaneamente all'altro album "I Nattens Sken (Genom hemligheternas dunkel)" - licenziato da Iron Bonehead Productions. Dell'opera si sa che è composta da brani scritti e registrati tra il 2014 ed il 2018 e che, di base, è qualcosa di stupendo. A differenza del classico stereotipo che vede il blackster sconosciutissimo ed eremita scrivere pezzi con una qualità sonora pari a quella di un gruppo elettrogeno acceso, qui abbiamo un prodotto incredibilmente notevole. una grandissima fortuna poiché un disco Atmospheric Black necessita di una produzione quantomeno buona per poterne cogliere tutti gli aspetti. Sin dalle prime note di apertura veniamo trasportati su lidi mortiferi e tetri, perfetti per qualche castello sperduto in chissà quale promontorio nebbioso della Transilvania. Un'aura oscura e quasi magica pervade l'intero disco, frutto delle tastiere maligne e sinistre che ci regalano un comparto melodico ed atmosferico a metà tra gli Emperor, i Satyricon e i Mare Cognitum. Il tutto costantemente tinteggiato da stupendi intermezzi epici e cavallereschi che lasciano emergere un'attitudine compositiva degna di nota. Ed è forse la capacità compositiva dell'artista a fare la differenza. Se da un lato è innegabile come il disco rientri in canoni o comunque stilemi noti e riconoscibili, dall'altro la costante ricerca di altri lidi, le svariate tinteggiature e, in generale, un songwriting vario ed estroverso, crea un ossimoro veramente interessante. Un'opera, questa, in grado di emozionare, che sa toccare dei picchi altissimi da pelle d'oca ma che, di contro, annichilisce ed uccide tutto ciò che gli sta attorno con una violenza a dir poco devastante. Mortifero ma elegante, bruciante di pathos ma freddo come la più buia e sinistra notte nella tundra... Ah, non vi ho detto chi è il batterista ospite che ha donato il suo talento divino alla riuscita di tutta la baracca: Kévin Paradis dei Benighted, la band Death/Grind più feroce e brutale del globo terracqueo. In effetti si sentiva che il comparto ritmico fosse disumano e certamente non frutto di una drum machine. Poi vai ad informarti un attimino e boom, la sorpresina è servita. Da qui si spiega come tutta la riuscita dell'opera dipenda anche e soprattutto da una batteria ultra frenetica ma estremamente varia che spazia dai momenti di furia nichilista ad altri molto più ragionati, cadenzati e tribali. Insomma, un album da non perdere assolutamente.

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3.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    15 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 15 Giugno, 2022
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Se siete fan incalliti della scuola più Raw, oltranzista ed ortodossa del Black Metal, allora troverete questo "Pimeyden kosketus", terzo disco dei finlandesi Hautakammio, un ascolto assolutamente imprescindibile - ci scusiamo per l'enorme ritard o-. Non c'è praticamente niente da dire in merito, dato che l'opera in questione parla per sé: tutti gli ingredienti classici sono qui, senza un briciolo di originalità o un qualsivoglia di minimo sguardo a soluzioni più moderne. Nemmeno per sogno: qui è la forma più pura, malvagia, feroce ed infernale del Black Metal a farla da padrona, e i Nostri non sembrano intenzionati a voler aggiungere qualcosa in più. Ma a noi sta bene così, perché nel vastissimo sottobosco finnico gli Hautakammio il loro lo sanno fare meglio di tanti colleghi; da qui si spiega come mai quest'album, pur rientrando nell'accezione più classica del Raw Black finlandese, è comunque un'opera di pregevole fattura, gelida come il Nord, feroce come il più puro dei sentimenti d'odio e pregna di tutta la malvagità dell'uomo. Gli ingredienti sono i soliti: tremolo, voce cadaverica e urlatissima, blast beat come se piovesse e dei piccoli e brevi intermezzi, che risaltano maggiormente la ferocia battagliera dei riff proposti. Stop, fine, nulla di più. Cinque tracce che trasudano Horna, Behexen, Marras e Satanic Warmaster da tutti i pori. Un tripudio di epicità, odio e cattiveria lacerante in gradi di abbattere e privare della vita tutto ciò che gli si para davanti. Se l'originalità non è di casa, dall'altro lato abbiamo l'attitudine e la bravura del trio che di fatto rendono il disco a modo suo fresco, seppur, ripetiamo, sembra di trovarsi davanti un'opera messa nel freezer vent'anni fa e scongelata solo ora. In un panorama musicale come quello Black finnico, che è tra i più saturi al mondo, bisogna riconoscere che gli Hautakammio, grazie anche all'esperienza delle tre menti super attive in altri progetti sempre a tema Black, riescono ad emergere, e tanto basta a consigliarvi la loro terza fatica. Se poi, come dicevamo all'inizio, siete proprio fan incalliti di questo filone musicale, qui troverete una pepita d'oro da inserire nel vostro repertorio.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    15 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 15 Giugno, 2022
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Signori, senza troppi giri di parole siamo di fronte ad una delle migliori uscite Black Metal dell'anno: stiamo parlando del secondo album dei lituani Sisyphean "Colours of Faith", uscito per la sempre garanzia Transcending Obscurity Records. Un disco, questo, che è molto più di quanto si possa pensare, tanto che la stessa etichetta che lo vede comunque collegato al Black Metal europeo è fuorviante o, per meglio dire, riduttiva. Stiamo parlando di un'opera gigantesca nella quale moltissimi elementi fanno capolino all'interno di una struttura complessa, stratificata, enorme. Il tutto suonato con una maestria ed una classe che ti aspetteresti da gente molto più navigata; e invece il quintetto di Vilnius esiste da solamente otto anni e conta un solo altro disco ed un EP. Come i Nostri siano riusciti a partorire una creatura di questa portata è un mistero. Sta di fatto che "Colours of Faith" è un disco stupendo dall'inizio alla fine e, lo ripetiamo, ricchissimo di dettagli e sfumature che solo ascolto dopo ascolto si percepiscono. Dalla vena Depressive e malinconica dei colossi svedesi Shining fino alla melodia ipnotica e funerea dei polacchi Mgła o alle stupende atmosfere della scuola islandese... O ancora la violenza ferina del Black norvegese degli anni '90, quello soprattutto di Mayhem ed Emperor. O, infine, i costanti rimandi alle versioni più moderne del Metal estremo, quelle del ramo Avant-garde in stile Deathspell Omega, Blut aus Nord o Ulcerate. Insomma, stiamo parlando di un album gigantesco dal punto di vista stilistico, carico di una ferocia ed un odio così intensi da bruciare ogni cosa intorno a sé. Ma ciò che veramente rende il disco qualcosa di epico è l'estrema eleganza con cui queste otto tracce si presentano. Eleganza che, attenzione, non è da intendersi come approccio morbido, bensì come attitudine e maturità. I Sisyphean riescono magistralmente a muoversi all'interno di tantissime coordinate stilistiche pur mantenendo saldo il punto focale imbastendo un'opera equilibrata nel suo essere così estremamente ricca di elementi. Sfuriate di odio puro, sezioni melodiche e strazianti, disperazione allo stato puro, furia belligerante e tristezza infinita. Tutto è portato all'estremo senza mai, e ripetiamo MAI, scadere nell'eccesso e nel troppo pomposo. Chiaramente non stiamo parlando di un ascolto facile, tant'è vero che potreste incontrare qualche difficoltà durante la prima esperienza; tuttavia minuto dopo minuto il disco si schiuderà come un fiore che sboccia inondandovi di tutto il ventaglio emotivo e stilistico di cui è pregno. E fidatevi, non ne potrete più fare a meno. Dal nostro punto di vista siamo di fronte ad un'opera che rientra tra le migliori uscite di questo 2022 ad occhi chiusi. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    08 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 08 Giugno, 2022
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Noltem, un nome che ai più non dirà nulla ma che probabilmente rimarrà impresso nella mente e nei cuori di chi è innamorato del Black Metal atmosferico moderno, quello sfuggente, freddo e leggero come un fiocco di neve, ma allo stesso tempo carico di bruciante passione. Una carriera, quella del trio statunitense, passata totalmente in sordina dal 2003, anno di formazione, fino ad oggi - chiediamo scusa per l'enorme ritardo -. Quasi vent'anni in cui un solo EP ed una demo hanno visto la luce, ma che finalmente vengono coronati con il primissimo full-length targato Transcending Obscurity Records: il qui presente "Illusions in the Wake", uno dei dischi più belli e carichi di emozioni che il sottoscritto abbia mai ascoltato in anni di Metal. È impossibile cercare di definire la musica del trio senza risultare riduttivi o fornire un'idea molto blanda dell'enorme potenza suggestiva di tutta l'opera. In questo disco c'è praticamente tutto, dalla gioia alla disperazione, dalla leggerezza quasi ultraterrena alla forza di gravità più opprimente. Ma, tanto per darvi un'idea di cosa hanno da offrirci il mastermind Max Johnson e soci, cerchiamo di darvi alcune coordinate stilistiche. Sicuramente siamo in piena scuola statunitense, quella che fa capo a gente come i Wolves in the Throne Room, ma con un pesantissimo influsso della musica Ambient, leggera e soffice dei canadesi Unreqvited passando poi per la bellezza serafica degli Alcest e del Post-Metal fino a toccare la malinconia degli Agalloch - anzi, direi si tratti dell'influenza maggiore - e tinteggiando il tutto da innesti Folk vicini a Borknagar o Vintersorg. Come vedete siamo di fronte ad un'opera estremamente variegata e quasi omnicomprensiva che però riesce a fondere le suddette coordinate stilistiche in un solo perfetto miscuglio. nessun elemento presente nei Noltem è lontanamente riconducibile ai nomi sopracitati, eppure quando li ascolti sai che ci sono; un po' come dire, parlando in termini filosofici, che il tutto e le parti non possono coesistere escludendosi a vicenda ma solamente se messi in una relazione indivisibile. Dall'altro lato, poi, fa quasi paura l'estrema naturalezza con cui queste sei tracce si diramano all'interno dell'anima, quasi fosse l'ossigeno che inevitabilmente entra nei polmoni. Il tutto, dicevamo, portato a livelli eterei da questo mood così cristallino, pulito, freddo e asettico come l'acqua limpida ed immacolata che sgorga dalle cime più alte di chissà quale sperduta montagna. Da qui segue la potenza evocativa che viene fuori minuto dopo minuto e che prima abbiamo descritto come un ossimoro tra gioia e disperazione, leggerezza e pesantezza. In pratica mettere in cuffia questo "Illusions in the Wake" significa dare il via ad un viaggio astrale verso dimensioni lontane ed infinite dove l'anima dell'ascoltatore è investita da tutto lo spettro delle emozioni umane in un colpo solo. Alla fine ci si sente più leggeri, diversi, quasi ripuliti da ogni orpello materiale che ci circonda. Da parte nostra si tratta di uno dei debutti più belli - nel senso più ampio e forte del termine - che siano mai arrivati in redazione ed in grado di far innamorare chiunque voglia concedersi un momento di stacco da tutto ciò che ha intorno. Ma siete avvertiti: avrete le lacrime agli occhi per tutti i 40 minuti di durata. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    08 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 08 Giugno, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Quella degli statunitensi Artificial Brain è senza ombra di dubbio una carriera fenomenale, che in soli undici anni di attività ha permesso a Will Smith e soci di imporsi come tra le maggiori realtà Tech/Prog Death mondiali. Tra le tematiche sci-fi simil-Rings Of Saturn ed un sound consolidatosi nel tempo e divenuto sempre più inconfondibile, non stupisce se la band sia stata presa sotto l'ala della sempre perfetta Profound Lore Records. E non stupisce altrettanto se questo album omonimo, il terzo dopo "Infrared Horizon" del 2017, sia assolutamente un capolavoro, essendo frutto di tutta l'esperienza dei Nostri che, intelligentemente, hanno saputo omaggiare le loro origini - vedasi la scelta del nome - andando però a dare un risalto esponenziale a tutti quegli elementi che hanno fatto degli Artificial Brain dei colossi. Tutto ciò che potreste aspettarvi da un loro disco qui è totalmente accentuato ed inserito in un contesto che avvicina alla perfezione il loro stile. Elementi Noise che si inseriscono in fittissime ed intricate trame velenose per poi ricadere nei meandri più bui del globo terracqueo. Insomma, 45 minuti in cui ogni singolo elemento va a perdersi e ricomporsi su un unico piano rendendo di fatto impossibile catalogare la musica del quintetto newyorkese: se è perfettamente riconoscibile l'impostazione Technical/Prog Death, è altresì riduttivo cercare di far rientrare la loro musica in questo filone. Dalle sfuriate Black e Avant-garde che potrebbero ricordare Ulcerate, Gorguts, Sufferin Hour e Portal, fino al Death più sperimentale dei loro concittadini Pyrrhon o agli stupendi intermezzi melodici... Non c'è un solo singolo elemento che potrebbe essere etichettato. Lo stesso dicasi per la voce di Will Smith che, ahinoi, ha lasciato la band regalandoci quest'ultima grandissima prova canora. Un growl estremamente gutturale perfetto per lo Slam più assassino ma che qui funge da ossimoro essendo tutto il disco permeato da una riconoscibilissima vena acida, malata e caustica, con sonorità fredde e quasi asettiche. Del resto lo suggerisce il nome: qui sono la follia e la nevrosi più totale a dominare ogni traccia, al termine delle quali si sperimenta lo stesso effetto che provocano gli acidi sul cervello umano. Eppure in un calderone così caotico e apparentemente confusionario i Nostri mantengono perfettamente una linea guida chiara e precisa: tutto converge in un unico punto, per quanto i brani riescano a ramificarsi in un modo impressionante. Ed è proprio qui che gli Artificial Brain dimostrano di essere artisti con un'esperienza ed una maestria più uniche che rare, semplicemente perché sono riusciti laddove molti falliscono: alzare ancora di più l'asticella con ulteriori elementi senza scadere nella proverbiale troppa carne sul fuoco. In sintesi: un capolavoro. Chapeau!

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