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Opinione scritta da Dario Onofrio

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Opinione inserita da Dario Onofrio    17 Marzo, 2015
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Ogni tanto saltano fuori dal nulla artisti che meriterebbero decisamente più attenzione, caratterizzati da poche, seppur interessantissime release. È il caso dei Myrkgrav, progetto solista di Lars Jensen, norvegese che pesca a piene mani dalla tradizione folk/viking metal delle sue zone, mescolando sapientemente Falkenbach, Otyg, Asmegin e tanti altri artisti che conosciamo tutti molto bene.
Vonde Auer arriva nel novembre 2014 dopo una pausa di oltre un anno dall'ultimo ep della band (gennaio 2013) e fa ben sperare su una prossima release di un full lenght (cosa che la band non produce da ben 9 anni!). Vonde Auer è una canzone che chiama in causa tutti gli elementi sopracitati, con un accenno a una voce più marcatamente icsvortexiana, ritmiche incrociate, blast beating e un ottimo stacco acustico a metà strada. Nei sei minuti di pezzo che troviamo in questo singolo, Jensen ci immerge in atmosfere a noi note e familiari, senza però annoiarci ma sollecitandoci con un gusto sfrenato per la mescolanza di influenze.
Simpatica e ballabile anche la versione completamente acustica del pezzo, a quanto pare un classico delle zone intorno al villaggio di Ringerike, dove il musicista è nato e cresciuto.
Se siete appassionati di folk metal questo pezzo potrebbe essere tranquillamente un buon acquisto da intervallare tra un ascolto e l'altro di gruppi più noti dello stesso genere.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    12 Marzo, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Sarebbe semplice chiudere questa recensione con un "gli Enslaved riescono ogni volta a sorprendere il pubblico degli ascoltatori metal, attirando sempre più nuovi fan con il loro sound rigoroso ma sperimentale, consegnando a chi apprezza questa musica dei veri e propri gioielli".
Ma non possiamo perché un disco complesso come In Times merita qualche riga in più da spendere per descriverlo.
Se conoscete gli Enslaved probabilmente avrete amato il precedente Riitiir, un disco profondo e oscuro che miscelava sapientemente black metal, psichedelia e atmosfere tipiche della musica nordica. In Times racchiude quegli stessi elementi portati a un nuovo livello, recuperando la matrice viking della band a più riprese (i cori in Thurizas Dreaming e One Thousand Years of Rain) e spingendo ancora di più sugli effetti che hanno contraddistinto i lavori precedenti.
Infatti quella che io reputo essere una matrice "space" della band qui ottiene forse uno dei suoi punti più alti. Il disco è composto da 6 pezzi tutti di circa 8 minuti ad esclusione della title-track, dove gli Enslaved ci scagliano addosso senza tregua la loro rigorosissima musica. So che può sembrare ossimorico, ma in un album come In Times rigore e follia trovano un punto d'incontro, un lavoro da veri professionisti nonostante lo scavo che la musica fa in noi stessi e nel nostro vissuto.
Analizzare uno per uno i pezzi mi sembra un tantino azzardato, principalmente per la complessità compositiva e per la reale incapacità di descrivere cose che a parer mio vanno vissute. Perché gli Enslaved mischiano più volte le carte in tavola intricando i ritmi, i riff, piazzando dei refrain e delle pause che sono solo apparentemente senza senso. Il lavoro di Grutle, Ivar e Herbrand alla voce è come al solito di altissimo livello, come si può constatare da cose come i cori viking di One Thousand Years of Rain o la parte clean in Nauthir Bleeding. Come al solito, tocco aggiuntivo della band, il sintetizzatore e le tastiere non sono mai elementi invasivi ma semmai contorni naturali di una musica che più genuina di così non si può. Proprio perché alla band non interessa stupirci o trascinarci in un teatrino dell'assurdo come i compatrioti Arcturus, ma semplicemente farci vivere qualcosa.
Il riff ossessivo e scarno di In Times, contrapposto al chorus pulito e quasi pinkfloydiano, non potrà sicuramente lasciarvi indifferenti. In una cavalcata di 10 minuti la band ci fa capire che cosa è in grado di fare, tra riprese, inserti acustici, assoli progressivi e quant'altro. Bellissimo soprattutto il finale, con uno stacco totalmente lasciato alla voce di Ivar contrapposto a un'ultima, ferocissima parte di blast-beating. Daylight, con i suoi stacchi acustici e una serie di elementi che possiamo tranquillamente chiamare avantgarde, chiude così un lavoro enorme.
Qualcuno ha definito In Times "il Dark Side of the Moon del black metal". Forse un'espressione del genere è un tantino esagerata: è vero che la band che oggi scrive questo album deve molto alle sonorità anni 70', ma io direi che è più il Meddle del black metal.
La musica degli Enslaved probabilmente o la ami o la odi: molti preferiranno le soluzioni facili di Amon Amarth e compagnia bella. Per me questi ragazzoni rimangono un colosso della musica estrema mondiale, qualcosa che ha superato da tempo i cliché per raggiungere vette inesplorate non raggiungibili da tutti.

P.S. Non penso sia un caso che quest'anno abbiano scelto Ivar Bjørnson come direttore artistico del Roadburn Festival. Mi auguro che la sua carriera inizi ad influenzare anche molti musicisti delle nuove generazioni.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    04 Marzo, 2015
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Quando mi hanno proposto di recensire il debut di un gruppo epic metal sardo sono saltato dalla sedia, principalmente per due motivi. Il primo è che considero la Sardegna la culla di questo genere in Italia (basti sentirsi i cari vecchi Holy Martyr), il secondo è che il nome di questa band, Shardana, mi ha stregato subito facendomi immaginare un album ricco di storia e lingua dell'isola.
No Cadena, No Presoni, No Spada, No Lei, nasce dopo ben 7 anni di formazione per la band composta da 4 elementi. Si tratta, a mio parere, di un disco veramente bello e ispirato, che mischia l'heavy black metal a atmosfere alla Waylander/Suidakra. E conferma una cosa importante: l'Italia non ha nulla da invidiare ad altre nazioni che vantano gruppi epic di ragguardevole livello. Mettete su la prima Bardanas (scorribande, in lingua campidanese) per capire di cosa sto parlando: il combo mischia sapientemente cavalcate epiche a blast beating ferocissimi (in questa traccia il drumming, tra l'altro, è curato da Raphael Saini dei Cripple Bastards), guidati dall'ottimo growl di Aaron Tolu e da una parte ritmica che, in piena tradizione epic, risalta moltissimo. L'album è una cavalcata e un tributo non solo alla terra madre della band, ma anche a tematiche meno nostrane come The Path of Snow, dedicata al personaggio di Jon Snow del Trono di Spade di Martin. Ottimi anche gli inserti di tastiera e pianoforte, sfruttati più volte per creare atmosfera e dare valore aggiunto a una già godibile parte strumentale. I lavori di chitarra di Daniele Manca e Fabrizio Pinna sono magistrali e spesso fanno dei bridge la parte più trascinante della canzone, come si sente in Shardana (Kadesh) o nella title-track. Quest'ultima, cantata per metà in inglese e per l'altra in campidanese, risulta una delle migliori tracce dell'intero disco e una summa del lavoro di composizione, con la perfetta fusione di tutti gli elementi sopracitati. Anche la successiva Me, the Wolf, è una canzone di tutto rilievo, con una bellissima intro semiacustica con tanto della collaborazione di un violinista, sotto alla quale si inserisce successivamente la parte metallica. Altra traccia di tutto rispetto non può che essere la finale Sa sedda ‘e su diaulu, che racconta una leggenda sarda secondo cui il promontorio affacciato al Golfo di Cagliari (detto infatti Golfo degli Angeli) sia la prigione di Lucifero, imprigionato dall'Arcangelo Gabriele quando le sue armate cercarono di conquistare quel luogo. Nove minuti dove epicità, cavalcate viking, urli battaglieri di Tolu e un drumming eccelso suonato da Matteo Sulis farebbero impallidire anche signori anzianotti del mestiere.
Come avrete capito questo disco mi è piaciuto parecchio e cercherò il prima possibile di procurarmene una copia. L'unica nota che mi sento di scrivere è riguardante la produzione: so che per una band quasi emergente non è facile avere un bel sound, però per puro gusto personale preferivo le composizioni secche alla Holy Martyr o alla Martiria.
Ma, al di là di queste sbavature prettamente tecniche, No Cadena, No Presoni, No Spada, No Lei è un disco che consiglio a tutti gli appassionati di epic e viking metal, anche internazionale. Potremmo essere di fronte al primo fortunato caso, dopo quel Mare Nostrum degli Stormlord, di un vero disco che racconti i popoli barbari mediterranei al contrario di moltissimi coleghi che invece si rivolgono alle tradizioni e alle leggende del nord.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    28 Febbraio, 2015
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Che il folk metal sia un genere che ha spopolato in qualunque parte del globo lo sappiamo tutti, così come sappiamo che a distanza di anni (ormai 6) vanta ancora una vastissima schiera di pubblico. Sappiamo anche che nella penisola iberica fanno da padroni i Mägo de Oz, la band guidata dal batterista Txus di Fellatio che fonde power e folk metal ai ritmi mediterranei spagnoli.
Molti di voi si aspettano che dalla Spagna possano arrivare solo band folk metal di questo tipo, vero? Invece oggi recensisco Downfall and Rebirth dei Northland, band al secondo album pubblicato distribuito da Metalmessage, ispirato dalle correnti nordiche più che mediterranee.
Non conoscevo questi ragazzotti che sono in giro ormai dalla bellezza di 8 anni, ma sono contento di essermi imbattuto in un album che, sebbene inizialmente possa suonare banale, in realtà rivela un feeling e una freschezza compositiva che molti gruppi hanno perso in tanti anni di folk metal. Giusto per darvi delle indicazioni: tra violino, flauto, fisarmonica e tastiera, Downfall and Rebirth è un lavoro ricco di spunti interessanti che combinano nel modo più classico death metal e ritmi folkeggianti. Le influenze che mi vengono da citare sono innumerevoli: Eluveitie, Cruachan, Waylander, Arkona, Månegarm e tanti altri. Infatti, in questo disco, molti spunti che sentirete sono perfettamente riconducibili ai gruppi citati prima: basti sentire l'opener When nature Awakes, che in cinque minuti di giri di flauto e violino ci dà esattamente l'idea di dove andremo a parare. Un altro elemento che mi è molto piaciuto in questo album sono i cori sui ritornelli, che ricordano molto i Månegarm ma anche i nostrani Furor Gallico, ai quali questi Northland stanno veramente vicini come indirizzo e sonorità.
Passiamo così tra le ritmiche cadenzate "a marcia" di Together we Die a vere e proprie killer-tracks come Fury's Unleashed, senza dimenticarci bellissimi stacchi acustici di rara finezza. Non mancano neanche momenti epici "a la Falkenbach" tipo Spirit in Darkness, che secondo me fa palesemente l'occhiolino a As long the wind blows del noto compositore teutonico. La summa di tutto quello che vi sto raccontando la troverete nella title-track, che mischia sapientemente l'abilità e la bravura dei Northland, facendo emergere a mio parere l'elemento fondamentale della loro musica: la batteria. Se presterete l'orecchio, infatti, sentirete che Jose Rosendo è un vero mostro di tecnica, un musicista che non si limita a fare la sua particina ma che colora il drumming con delle sfumature quasi etniche, dalle quali le composizioni degli iberici traggono moltissimo valore aggiunto. Sinceramente io avrei chiuso il disco con la bellissima ballad Moonlight Spell, mentre invece la band ha voluto metterci dentro anche l'ultima Newborn star, che però ho faticato ad apprezzare per via delle ripetizioni stilistiche.
Se da una parte, infatti, Downfall & Rebirth si dimostra un album eccezionalmente maturo dal punto di vista del sound, dall'altro soffre ovviamente della sindrome di tutti i gruppi folk metal di oggi: la mancanza di buone idee dal punto di vista compositivo. Vi ho elencato sopra qualche band a cui fare riferimento, quindi sapete a cosa state andando incontro, però il platter non ha pezzi che svettano, ad eccezione forse di Spirit in Darkness. Per cui valutate voi se dare una chance o no ai Northland: io, sinceramente, se avessi la possibilità di vederli dal vivo sicuramente sarei sotto al palco a scapocciare.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    30 Gennaio, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Immaginate di essere una sciura (signora anziana, nel dialetto delle mie zone) che va tutte le mattine a prendere il pane dallo stesso, vecchio fornaio di fiducia. Nel tempo il fornaio diventa sempre più bravo, tanto che inizia a fare panini con le uvette, con l'uva schiacciata e altre varianti appetitose. Un bel giorno la signora, però, si accorge che il fornaio fa pochissimo pane fatto liscio e che la maggior parte è composto da spezie e condimenti.
Mi sembra l'esempio calzante per descrivere l'ultima fatica dei bardi di Krefeld: Beyond the Red Mirror. Chi sta battendo le dita sulla tastiera è, come alcuni ricorderanno, l'uomo fortunato che incontrò Hansi e Andrè a Milano per l'uscita di At the Edge of Time e recensì proprio quella pietra miliare di power metal. Chi sta scrivendo questa recensione è una persona talmente attaccata ai Blind Guardian che li difenderebbe fino a farsi menare quando qualcuno dice che A twist in the Myth fa schifo. È proprio per questo che non ho voluto leggere nessuno studio report e tantomeno ascoltare il singolo Twilight of the Gods: quello che volevo ottenere con questa recensione è un puro vortice di emozioni, come i Blind Guardian mi hanno abituato fin dal lontano 2006.
Ecco perché, purtroppo, mi ritrovo a conti fatti con l'acqua alla gola: fate conto che un cd così difficile l'ho dovuto recensire in tre giorni dall'uscita. Ma basta con questa introduzione e passiamo alla domanda principale: come suona Beyond the Red Mirror?
Se proprio dovessi fare dei paragoni vi direi, molto semplicemente, che questo album sta un gradino sotto At the Edge of Time e uno sopra a A twist in the Myth. Chiariamoci: non è un brutto disco, perché i Blind Guardian NON FANNO dischi brutti.
È un album ostico. Difficile, davvero. Come scrive la Nuclear Blast negli mp3 forniti parliamo di "Symphonic progressive metal". Già, perché se questo disco dovrebbe essere a livello di lyrics il successore di Imaginations from the Other Side (il mio album MUSICALE preferito in assoluto), dalla parte delle sonorità è il degno fratellino di A night at the Opera.
Queen a manetta, insomma.
Faccio un ultimo chiarimento (ultimo, promesso): secondo me non vedremo mai quel maledetto album orchestrale che i Bardi continuano a rimandare da ormai 7/8 anni, ma ne vedremo gli influssi sui prossimi dischi. Ora possiamo partire.
Dietro lo specchio rosso... C'è un mondo intero: un'onda sonora tridimensionale pronta a travolgerci se non siamo adeguatamente preparati. Potremmo naufragare già su The Ninth Wave, dalle ritmiche cadenzate e scandita da un chorus acchiappafan, ma io vi consiglio di affrontare la tempesta e continuare nell'ascolto. Da fan ero preparato a qualcosa di simile, ma non mi aspettavo tutte le idee che ci sono qua dentro. Produzione mastodontica, megaeffettoni, chorus quasi esasperati (come scrivono alcuni colleghi su altre webzine)? Si, perché no? Chi sono io per dire che i Bardi sbagliano a intraprendere questa strada? I tempi di Somewhere far Beyond sono lontanissimi: è giusto così.
A riportarci un attimo nella realtà arriva il tanto criticato singolo Twilight of the Gods. A mio parere criticato ingiustamente, visto che è uno dei pezzi più riusciti del disco. Ci siamo ragazzi, se tirate i remi in barca potete farvi guidare dalla voce di Hansi e dalla chitarra di Andrè fino alla fine del disco. E se siete arrivati fino a qui senza arrendervi scommetto apprezzerete Prophecies e At the Edge of Time (come mai una canzone col titolo del disco precedente?), delle quali la seconda è a mio parere uno dei punti più alti dell'intero platter.
La ricetta della band si arricchisce degli effettoni sopracitati anche in un pezzo come Ashes of Eternity, che suona veramente Queen in più e più punti. I riff, ve lo assicuro, sono quelli di A night at the Opera: non nel senso che sono copiati, ma che la sonorità data in studio è quella.
Ma i Blind Guardian non sono i Tarantino di Bastardi senza Gloria, e ce lo ricordano con una tirata come The Holy Grail, considerata da molti l'apice del disco. Per quanto riguarda il mio gusto personale non mi dispiace questo tentativo di ritirare fuori le composizioni di Tales from the Twilight World, con un intro che cita palesemente Ride into Obsession (dal disco precedente), ma, come recita un famoso testo più volte raccontato dai Bardi: il mondo è andato avanti. Forse ho apprezzato un pochino di più The Throne, che ho percepito come più ispirata rispetto alla composizione precedente.
Ancora meglio la successiva Sacred Mind, con la quale ci ritroviamo a navigare di nuovo sulle chitarre di André messe bene in evidenza. Ma se siete frastornati cercate di riprendervi sulla ballad Miracle Machine, perché The Grand Parade è l'ultima corsa, dai toni circensi, verso la fine del disco. Tra cambi di tempo, suoni che si inseguono e una batteria spedita a mille, i Blind Guardian chiudono così la loro ultima fatica in studio.
Cosa resta dentro allo specchio rosso? Vi riassumo la mia idea: qui dentro si alternano tracce che esaltano le orchestrazioni e la sperimentazione a tracce più "canoniche", che ci riportano sulle note metalliche degli ultimi due lavori. Annullata totalmente la parte medievale.
Quello che mi viene da domandare è: non è che si sono fatti prendere troppo la mano dagli effettoni, esasperando il discorso di A night at the Opera e At the Edge of Time? E ciò è un male? Affettivamente sono sicuro che amerò questo disco, così come ho amato ogni singola prova in studio dei Blind Guardian. Chiariamoci: non me lo farò piacere, perché sono sicuro che mi piacerà.
Per cui vi dico: dategli tante chanches. Abbiate pazienza e ascoltate Beyond the red Mirror più volte: fatevi trasportare dalla magnificenza delle orchestrazioni, dai cambi di tempo e anche da quei pezzi dove le chitarre si sentono meno. Per me non è un passo falso: è semplicemente un collegamento con qualcosa di nuovo che arriverà, più spoglio dalle onde sonore che abbiamo trovato viaggiando attraverso lo specchio. Non è un lavoro fatto a caso: è un gettarsi volontariamente in un vortice di caos sicuri di uscirne.
Se invece siete degli appassionati duri e puri dei Blind Guardian di prima mano allora tenetevi lontani da Beyond the Red Mirror e andate semplicemente a vederli perché volete sentire i pezzi vecchi. Io sono un fan dei Bardi e ripeto che non mi farò mai piacere un disco apposta perché sono loro. Io sono sicuro che le loro canzoni mi stregheranno col tempo (così come è stato per A twist in the Myth) perché ogni volta, anche quando resto più perplesso, nella loro musica trovo un pezzettino della mia anima, qualcosa di bello, misterioso e familiare a cui attaccarmi.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    27 Gennaio, 2015
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Puntuale come un orologio svizzero, a due anni da Steelhammer, torna a farsi sentire il buon Udo Dirkscheider con questo nuovo Decadent. La line-up della band si arricchisce, a questo giro di boa (quindicesimo album solista!) del chitarrista finnico Kasperi Heikkinen, che dona un tocco più metallico e virtuoso alle composizioni, ricordando i tempi di altri album dove il cantante teutonico aveva già utilizzato questo tipo di formazione.
Ebbene, cosa troviamo in questo disco? Al di là della copertina bruttissima (che in realtà ha un significato molto profondo) Udo ci propone il suo solito heavy con ritmiche, canzoni e struttura già sperimentate. Eppure alcune delle canzoni che troviamo in questo album non sono affatto da buttare via, anzi! Sia la title-track (classico pezzo di denuncia perfettamente nello stile del singer) che pezzi come la tripletta Pain-Secrets in paradise e Meaning of Life fanno il loro sporco lavoro tra riff indiavolati, cavalcate heavy e la voce al vetriolo di Udo che domina su tutto. Per il resto le altre canzoni non sono né da buttare via ma nemmeno da esaltare: la opener Speeder, le ritmiche cadenzate di Mistery e tutto il resto sono sufficenti quantomeno a farci alzare la testa ma nulla di più. Persino la finale Words in Flames che dovrebbe chiudere tutto con delle roboanti tastiere non riesce nel suo intento. Comunque c'è da dire, come nota di merito, che Udo non si è ancora stufato di introdurre anche distorsioni alla voce e elementi elettronici nei suoi dischi e che i cori di acceptiana memoria funzionano ancora alla grande. Basti prendere la title-track: Decadent è un signor pezzo metal, costruito su un riff efficace, con degli ottimi chorus e un incedere metallico ultra accattivante: insomma ciò che ci aspetteremmo da un artista del calibro di Udo.
Archiviamo dunque Decadent come l'ennesimo disco nel pieno stile del singer teutonico, un album il cui acquisto consiglierei solo a pochi amatori e collezionisti. Ciònonostante mi godrò volentieri il suo show a Wacken!

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Opinione inserita da Dario Onofrio    27 Gennaio, 2015
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Una realtà nostranissima quella dei Lucky Bastardz, che con questo Alwayz on the Run tagliano il traguardo del secondo album. Nati nel 2008 ad Alessandria, il quartetto si ritrova così alla seconda prova in studio a distanza di cinque anni da quel Bite Me, Dude che gli ha permesso di partecipare ai più svariati concerti di spalla a grossisime band del calibro di Hardcore Superstar, Crucified Barbara, Strana Officina e tanti altri ancora.
Probabilmente l'aria e la polvere respirate dalla band nei lunghi tour gli ha fatto un effetto da invecchiamento da whiskey: quello che troviamo andando a stappare la botte è un puro concentrato di scanzonato e lanciatissimo hard rock, con qualche influenza stoner e country.
Alwayz on the Run ha iniziato a piacermi davvero dopo alcuni ascolti: nonostante lo stile sia ricalcato da molte band prima di loro, i nostri riescono a dare un tocco personale a pezzi come l'opener Fuckinsnow o le ballad come The sign on the wall. Le influenze dei Black Label Society si avvertono in pezzi come Back on my Feet, i Motorhead fanno da padroni in Tiger Hostel, mentre l'hair metal si ritaglia uno spazio fondamentale in Liar.
Non c'è che dire: da qualunque parte prendano spunto, Titian e soci riescono a imprimere alla loro musica un'originalità e una freschezza perfettamente udibili, come nella bellissima eDrugs, dedicata all'effetto (negativo) che internet ha sulle nostre vite. L'unico pezzo dell'album che non mi ha convinto fino in fondo è stato Wolf's Lair, ma è un unicum in mezzo a un disco che ho ascoltato più e più volte senza annoiarmi.
In chiusura una Circles on the shore (Lamia) con special guest Michele Luppi, che si è occupato anche di aiutare i nostri a registrare le voci.
Se siete fan delle band sopracitate (alle quali aggiungerei anche i Gotthard e i Nickelback) non potete lasciarvi sfuggire Alwayz on the Run, anche per sostenere una band italiana che merita di essere supportata!

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Opinione inserita da Dario Onofrio    23 Gennaio, 2015
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Conobbi i Finsterforst ormai sei anni fa, quando qualcuno mi fece ascoltare l'intramontabile Lauf der Welt, un pezzo che praticamente richiamava gli Svartsot di Ravenens Saga con la fisarmonica al posto del flauto. Nonostante questo i nostri sin dall'inizio si sono dedicati a composizioni lunghe e complesse, nonostante l'estrema becerità della musica proposta.
Dopodiché li ho persi di vista, complice la svalangata di gruppi portata dalla new wave of folk metal e forse anche perché li avevo trovati carini e nulla più.
Il risultato? I sette di Friburgo in questi anni sono cresciuti parecchio, non solo anagraficamente ma anche musicalmente parlando. Dimenticatevi le sparate indiavolate di fisarmonica e il folk estremamente bevaiolo dei primi album: Mach Dich Frei (un modo alla tedesca per dire "liberati", come fa intendere anche la copertina) è un disco estremamente maturo e complesso, sia sotto al punto di vista del songwriting che delle sonorità utilizzate. Un disco un po' furbetto, che ricama le trame tessute da mostri sacri del viking atmosferico come i Moonsorrow e i Thyrfing, ma che nonostante questo riesce a stupire ed emozionare.
Alla band bastano otto pezzi per farci entrare nelle foreste nere tedesche, a partire dalla bombastica Schicksals End': quattordici minuti di pezzo dove la tastiera fa da padrona e le ritmiche lente servono a creare una atmosfera epica e "gelata". L'utilizzo massiccio di effettoni potrebbe essere preso da molti come un "tutto fumo, niente arrosto"; al contrario i pezzi lenti dei Finsterforst acquisiscono un valore pazzesco, con un Sebastian "AlleyJazz" Scherrer che non esita neppure a buttare qualche piccolo spunto di elettronica mentre i suoi colleghi picchiano sugli strumenti con ferocia. Bellissima anche la valorizzazione che viene fatta del growl del nuovo acquisto Oliver Berlin, che prosegue la sua carriera dopo Rastlos del 2012. Il tema del primo pezzo tra l'altro lo sentirete, in un modo o nell'altro, per tutto il disco, sia nella seconda traccia Zeit für Hass che nell'ultima, lunghissima suite Finsterforst, che rende onore al nome della band. Sicuramente una parola la spenderei anche per le intro: atmosfere pure, sulle quali spicca la bellissima Reise Zum..., un piccolo gioiellino di ambient folk. L'unico pezzo che non mi ha convinto del tutto è Mann gegen Mensch, che dopo un inizio infuriato si riprende il suo spazio folkeggiante all'ingresso di un flauto suonato magistralmente. La fisarmonica comunque non manca, sia nell'ultimo pezzo che nell'intro che ho appena citato.
Per chiudere la recensione vorrei parlarvi solo un attimo della bellissima Finsterforst: 24 minuti di magia pura, atmosfere, chitarre acustiche che sfidano potentissime tastiere e strumenti lanciati a mille contro le nostre orecchie. Raramente mi è capitato di sentire una traccia così lunga senza annoiarmi, ma la svolta atmosferica dei Finsterforst è riuscita a farmi apprezzare anche questo.
Se come me siete amanti del folk/viking atmosferico non potete assolutamente farvi sfuggire Mach Dich Frei: un album che figurerà degnamente sul mio scaffale entro la fine dell'anno!

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Opinione inserita da Dario Onofrio    18 Gennaio, 2015
Ultimo aggiornamento: 18 Gennaio, 2015
Top 50 Opinionisti  -  

Nati ad Amburgo da membri di gruppi stoner come A Million Miles, Buffalo Hump e Psyogenesis, gli High Fighter esordiscono con questo lussuoso EP autoprodotto, ma acquistabile sullo shop della Napalm Records. E devo dire che se lo meritano appieno: al pari di bands come Blues Pills, Lonely Kamel e The Flight of Sleipnir gli HF si vanno ad inserire in quel prolifico filone di stoner/sludge che sta contagiando tutta l'Europa.
Ma andiamo con ordine: cosa troviamo in The Goat Ritual?
L'EP si sviluppa su 5 tracce che mettono subito in chiaro quello che sentiremo rimbombare nelle nostre orecchie per una buona mezz'oretta: riffoni pesantissimi, macigni di sonorità esplosivi e la voce graffiante di Mona Miluski, che passa senza problemi da un pulito a tratti epico a un violentissimo scream.
Breaking Goat Mountains, con il suo incedere iniziale e la rockeggiante finale In Veins vi terranno piacevolmente impegnati per tutto il tempo dell'ascolto, permettendovi di apprezzare il buonissimo lavoro di produzione e di songwriting, a mio parere su ottimi livelli per un gruppo neonato.
Quindi, se siete fans dei gruppi sopracitati, il mio consiglio è di comperare questo ottimo ep che sicuramente soddisferà i vostri palati. Aspettiamo il primo full-lenght!

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Opinione inserita da Dario Onofrio    18 Gennaio, 2015
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Vivere in una nazione come la Colombia non dev'essere molto semplice, figuriamoci suonare heavy metal. Eppure il quintetto degli Iron Command non guarda in faccia a nessuno: nati nel 2011 come cover band di Judas Priest, Deep Purple e tanti altri nomi dell'heavy classico, i nostri si sono ritagliati una consistente fetta di pubblico tra i colombiani.
Play it Loud è il primo album della band, autoprodotto e distribuito in una edizione limitatissima di 500 copie. La prima cosa che colpisce della musica degli Iron Command è la semplicità e la franchezza con cui propongono il loro speed/heavy old school, permeato tra l'altro di tematiche sociali. Il genere si può tranquillamente accostare a quello di maestri sacri come Riot o Exciter.
Ma sono, appunto, le tematiche di alcuni dei pezzi a sorprendere e a dare una sfaccettatura al metal che per troppo tempo è mancata: quella della denuncia sociale. Pezzi come Power Abuse, Rush Slaves, Into the Fire e Persecution raccontano di un paese oppresso dai fantasmi di vecchie dittature e imprigionato ancora in una situazione di profonda crisi. La voce graffiante di Pola Martinez racconta tutto questo con un cantato ruvido, sporco e poco tecnico, che però ben si conforma con la situazione raccontata.
Insomma, Play it Loud è un album per pochi, destinato principalmente ai cittadini colombiani. Aspettiamo però una svolta a livello di produzione per questa band, perché le premesse per scrivere qualcosa di nuovo ci sono!

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Mirrorshield, bisogna migliorare parecchio
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