Line Up:
Tuomas Saukkonen - vocals, guitars
Mika Lammassaari - guitars
Lauri Silvonen - bass
Joonas Kauppinen - drums
Tracklist:
1. Shores of the Lake Simpele [03:17]
2. Boneyard [07:36]
3. World on Fire [06:29]
4. The Flood [06:06]
5. The Rift [05:24]
6. Call of the Winter [05:52]
7. Dead White [04:13]
8. Tyhjyys [04:55]
Running time: 43:52
Terzo magnifico lavoro per i Wolfheart Hot
recensioni
opinioni autore
Ultimo aggiornamento: 01 Giugno, 2017
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Tornano con il loro terzo studio album i finlandesi Wolfheart, Melodic Death Metal band nata come solo project di Tuomas Saukkonen, poliedrico artista che decise di punto in bianco di chiudere ogni altro progetto in cui fosse coinvolto per dedicarsi esclusivamente alla sua nuova creatura. E a distanza di qualche anno, possiamo dire che è valso bene il rischio. Dopo l'ottimo esordio con "Winterborn", Tuomas si è poi confermato con il grandioso "Shadow World", album dove è presente "Zero Gravity", canzone che ha uno dei riff più belli nella storia del Melodic Death. "Shadow World" è stato anche l'ultimo album in cui Tuomas si è occupato di tutti gli strumenti: i musicisti che in questi anni hanno accompagnato l'enorme chitarrista/cantante live in tutto il mondo (il chitarrista Mika Lammassaari, il bassista Lauri Silvonen ed il batterista Joonas Kauppinen) sono infatti diventati membri fissi, portando quindi i Wolfheart ad essere una vera e propria band e non più un solo project.
Una caratteristica fondamentale dei Wolfheart è sempre stato il sound: l'act finlandese non ha mai "indebolito" la componente Death Metal andando a ricercare facili soluzioni più melodiche. La loro musica è sempre stata dura, compatta e, per certi versi, fredda come gli inverni di cui fanno perno delle loro tematiche. A tutto questo, presente anche in "Tyhjyys", si va ad aggiungere ora una produzione magnifica, enormemente migliore rispetto ai due album passati. Entrano quasi in punta di piedi, i Wolfheart, con "Shores of the Lake Simpele" ed il suo arpeggio di chitarra, prima che l'opening track esploda, nella parte centrale, in quel sound divenuto ormai marchio di fabbrica della band finnica. Ma è il tono, con quest'ultimo album, a cambiare. Importante novità che possiamo ascoltare in "Tyhjyys" è la massiccia presenza di cori maestosi a dare un tocco di epicità che nell'insieme non stona per nulla, anzi si rivela essere un perfetto valore aggiunto; ne abbiamo un esempio lampante con "Boneyard", con cui i Wolfheart decidono di dimostrare le cose come stanno: sono, ad oggi, tra i migliori se non proprio i migliori a saper far convivere melodie catchy a riff violenti, brutali, in cui non mancano momenti dove fanno capolino influenze Folk/Black. Ascoltando brani come "World on Fire", "The Flood", "Call of the Winter", non si può non dare merito al tatuato frontman di esser riuscito a trovare i perfetti compagni di viaggio per la band cui ha dedicato in esclusiva il resto della sua carriera. In particolar modo ad impressionare è il batterista Joonas Kauppinen, un martello pneumatico sempre pronto a pestare senza sosta, con una precisione a dir poco chirurgica.
"Tyhjyys". Parola finlandese che sta a significare "vuoto", che è poi il tema portante di quest'ultima opera del quartetto finlandese, inteso in senso filosofico: il vuoto provocato da calamità naturali che lascia l'uomo sgomento, il vuoto creato da un infinito inverno col suo perenne manto bianco (e quello dell'inverno, come sappiamo, è un tema estremamente caro ai Wolfheart). Ognuno dei pezzi presenti in questo disco rappresenta un vuoto, come quello che i popoli vichinghi tentavano di colmare depredando terre lontane, mettendo il mondo a ferro e fuoco ("World on Fire", per l'appunto).
Credo sia quasi del tutto inutile dire che quello che fanno i Wolfheart non è nulla di innovativo e nulla che non sia possibile sentire da altre tantissime bands. Quello che li differenzia da tutti è l'impatto che danno alla loro musica, più duro, più dirompente, senza esularsi però dal Melodic Death di fondo. Con "Tyhjyys" i Wolfheart hanno messo a segno un centro pieno. Il disco è pressoché perfetto sotto ogni punto di vista e va ad attestarsi di diritto tra le migliori produzioni Melodic Death in assoluto.