01. Downfall
02. Distant Peaks
03. Firstborn Son
04. Matriarch’s Lament
05. The Sight
06. Tears Of Remembrance
01. Downfall
02. Distant Peaks
03. Firstborn Son
04. Matriarch’s Lament
05. The Sight
06. Tears Of Remembrance
Norvegesi fino alle ossa, i Mistur sono stati messi su dal chitarrista Stian Bakketeig, che militò nei conterranei Windir del compianto Terje Bakken, in arte Valfar.
Dopo quel tragico e gelido inverno del 2004, quando Bakken venne trovato morto per ipotermia, Stian Bakketeig decise di formare i Mistur, il loro primo album venne pubblicato nel 2009, ed abbiamo dovuto aspettare ben 7 anni per arrivare a rivedere il marchio Mistur su un nuovo disco.
Se il pur ottimo debutto presentava un sound forse ancora troppo dipendente dal modus operandi dei Windir, “In Memoriam” lo potremmo considerare come l’album della definitiva maturazione, nel quale emerge tutta la personalità di una band di musicisti preparati ed ispirati.
Ovviamente il sound rimane fortemente ancorato alla più classica componente pagan black nordica, dove i blast beat dell’ottimo Myklebust e lo screaming di Ojen, si stemperanno soventi in passaggi solenni, folkloristici e classici, dominati da pianoforte, tastiere ed un sapiente uso delle clean vocals da parte del tastierista Espen, che si ritagliano un loro spazio ben preciso, quando non vanno a sorreggere sapientemente la componente più estrema del sound.
Tutti i brani (questa volta cantati completamente in inglese) hanno un minutaggio importante, contate che il platter dura quasi un’ora, è ovvio quindi che, affinché lo si goda appieno, e si riescano a carpire fino in fondo le diverse sfaccettature del sound di “In Memoriam”, ci vogliono diversi ascolti, ma ne vale la pena.
Tolta infatti l’insipida e ripetitiva “Firstborn Son”, il disco si presenta come un ottimo lavoro, dove la piacevole epicità gelida della martellante “Distant Peaks”, che segna il momento più black oriented del lotto, saprà subito ammaliarvi come un oscuro gioiello, ma è la triade finale a presentarsi come quella più interessante da tutti i punti di vista.
Gli archi e le note a cascata dei fraseggi pianistici dai toni malinconici si fanno più massicci, e fanno da contrappeso a riff che prendono ispirazione, non solo dal metal più estremo, ma anche dal thrash più tecnico e l’heavy più tagliente.
“Matriarch’s Lament” è l'esempio lampante di questo riuscito connubio, antitesi della più classica “Distant Peaks”, insieme anche a “Tears…”, è il brano più melodico ed accessibile del disco, ma allo stesso tempo presenta le soluzioni più riuscite e variegate del sound dei Mistur, e le sue azzeccate linee del canto in clean, assumono i toni di suadente e decadente poesia.