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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Marzo, 2020
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I Beneath My Sins sono una band parigina, fondata a dicembre 2015 dal chitarrista Clément Botz e dalla cantante Emma Elvaston; hanno alle spalle un primo album uscito nel 2017 (a me sconosciuto), intitolato “Valkyries of modern times”. A novembre 2019, assieme a Fabio d’Amore (bassista dei Serenity), hanno registrato questo nuovo album, intitolato “I decide”, con in copertina una donna che sembra un incrocio tra la mitica Annie Lennox degli Eurythmics ed Elize Ryd degli Amaranthe. Nel disco figurano anche numerosi ospiti, come Matteo Sisti (Eluveitie), Melissa Bonny e Niklas Müller (Ad Infinitum), Michele Guaitoli (Temperance, Visions Of Atlantis) e Fabio Lethien Polo (Elvenking). Ma cosa suona questa band? I parigini sono dediti ad un canonico female fronted symphonic metal, sulla scia di gente come Within Temptation, Epica, Delain ecc.; nulla di nuovo sotto questo cielo quindi ed assolutamente niente di originale, anche se non credo sia questo l’obiettivo dei Beneath My Sins. Se musicalmente la band francese non dispiace assolutamente, la chitarra è protagonista, mentre basso e batteria lavorano in secondo piano; il vero problema è nella voce. Emma Elvaston semplicemente farebbe meglio ad evitare gorgheggi e liricismi vari nei quali risulta spesso stucchevole e fredda, mentre è evidentemente più a suo agio su note più basse e passaggi più espressivi e caldi. Quando poi si trova a confronto di una certa Melissa Bonny sul pezzo “Try” (scelto anche per un video), sfigura decisamente sotto tutti i punti di vista. Un suggerimento poi mi sento di darlo alla cantante francese: avendo visto entrambi i video realizzati (oltre a “Try”, è stato scelto anche “Your muse”), eviterei quei vestitini da sera in cui pare in fuga da un educandato di suore e cercherei di ricordarmi di essere una cantante di una metal band! Tirando le somme, quindi, “I decide” dei Beneath My Sins è un disco discreto, non adatto a chi cerca l’originalità, ma solo e soltanto destinato ai fans più sfegatati del female fronted symphonic metal. Per quanto mi riguarda, concedo una sufficienza di stima, solo e soltanto per merito delle musiche; alla prossima occasione, mi aspetto molto, ma molto di meglio, sia a livello di personalità, che di prestazione canora.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Marzo, 2020
Top 10 opinionisti  -  

I Landmine arivano dalla Corea del Sud e tagliano il traguardo a gennaio 2020 del debut album, autoproducendosi questo “Pioneer’s destiny”, giunto a noi da poco e ben oltre la propria release date. Già prima di sapere cosa suonasse la band, ho guardato l’artwork con un paesaggio innevato, un dragone che combatte contro un guerriero con spadone, mi sono detto: visti i cliché stra-abusati della copertina, faranno sicuramente power metal. E così è stato! Dopo l’inutilissima intro, parte “Kingdom destroyed”, power song bella ritmata e gradevole da ascoltare, se non fosse per la prestazione del cantante. La sua voce nasale e gracchiante disturba per tutto il disco, rovinando canzoni che invece sarebbero state sicuramente piacevoli. Il peggio di sé viene fuori quando cerca di raggiungere le note più alte del pentagramma, risultando stridulo; mentre quando sporca la voce e si tiene più basso con le note, pur rimanendo alquanto limitato, almeno non disturba eccessivamente. Fortunatamente Hyunho Byun, dopo la registrazione dell’album, è uscito dal gruppo, sostituito da tale Jinhan Song, a me sconosciuto. Mi dispiace che sia andata a questa maniera, perchè musicalmente i Landmine, pur non avendo assolutamente niente di originale (non mi pare, però, che sia questo il loro obiettivo), non dispiacciono. Forse sarebbe stato utile far sentire molto di più le tastiere (che ho faticato parecchio a cercare nell’amalgama sonoro) e dare un po’ di spazio in più al basso, ma tutto sommato la prestazione degli strumentisti non è poi così male. La registrazione, trattandosi di un’autoproduzione, è quella che è, ma non si può pretendere più di tanto e bisogna accontentarsi di quello che le finanze riescono a permettere. Aspetto i Landmine con un nuovo lavoro, certo che sapranno far meglio e soprattutto per ascoltare se il nuovo cantante sarà in grado di dare qualcosa in più del suo predecessore (non che sia così difficile....); per il momento questo “Pioneer’s destiny” si avvicina soltanto alla sufficienza, senza raggiungerla.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Marzo, 2020
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Finalmente un album che si può ascoltare nella sua interezza , senza skippare il pezzo successivo.

Piaciutissima “WINGS OF STEEL” (4’ traccia delll’album), che presentarono come singolo nel 2019.

LE BURNING , confermano di meritarsi un posto di rilievo nella scena metal, successo che non è certamente dovuto all solo fatto di essere donne , ma anche e soprattutto all’arroganza scenica, alla voce della nuova cantante Laura Guldemond, che riporta in voga uno stile eighties, quasi del tutto scomparso, per fare spazio a suoni più’ gutturali.

Io l’ho fatto ascoltare anche a mio figlio (che compie 7 anni ad Aprile, ndr) e mi ha chiesto di farglielo ascoltare, ancora e ancora, considerando che la sua (ma anche la mia) band preferita sono i MAIDEN , credo che si può’ giudicare questo terzo lavoro delle svizzere BURNING WITCHES, come eccellente.

Per tutti i nostalgici delle sonorità anni 80, questo disco sarà un balsamo suo cuore, ogni traccia infatti, è accuratamente in tema e ci fa a affezionare con una velocità supersonica.


Attendendo tempi migliori, mi auguro di poterle presto vedere su qualche palco con la grinta che le contraddistingue.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Marzo, 2020
Top 10 opinionisti  -  

A distanza di 3 anni dall’ottimo debut album “Better beware!”, tornano i lombardi Black Phantom con un nuovo disco, intitolato “Zero hour is now”, una sorta di oscuro presagio, visto il delicato momento che sta attraversando il nostro paese.... si potrebbe, infatti, dire che effettivamente è arrivata l’ora zero, da cui ricominciare e risorgere. Ma veniamo alla musica. I Black Phantom si sono da sempre ispirati all’heavy classico degli Iron Maiden; lo stile del basso di Andrea Tito è molto simile a quello del maestro Steve Harris e contraddistingue l’intero sound della band. Il suo pulsare, spesso da splendido protagonista (sentitelo nell’attacco di “Begone!”), ripercorre la lezione che il grande Steve ha impartito a tutti dagli anni ’80 fino ai giorni nostri. Anche il cantante Manuel Malini è evidente che ha come fonte d’ispirazione sua maestà Bruce Dickinson; direi che è una sorta di via di mezzo tra il nostro Folco Orlandini (singer dei Mesmerize, dalle cui file arrivano il predetto Andrea Tito e il chitarrista Luca Belbruno) ed il mitico Bruce. Sono finiti qua i complimenti? Assolutamente no! Ivan Carsenzuola alla batteria non fa rimpiangere il suo predecessore Andrea Garavaglia; l’altro chitarrista Roberto Manfrinato si scambia ottimamente con Belbruno le parti soliste, anche se avrei goduto come un riccio con qualche momento di twin guitars in più! Il disco si apre alla grande con la tellurica “Redemption” che ricorda all’inizio per un attimo i grandi Spellblast, per poi esplodere in una heavy song di livello eccezionale. Seguono poi una manciata di brani azzeccati, fino alla lunga “The road”, forse quella meno ispirata del disco, ma comunque un pezzo valido. Il songwriting, infatti, è sempre efficace e conciso, segno che il gruppo ha esperienza da vendere (del resto, non stiamo parlando di ragazzini imberbi) e sa come si deve scrivere una canzone ben fatta. Il brano migliore? Ammetto di essere in grossa difficoltà, ma punterei il dito su “Hands of time”, ritmatissima e semplicemente Heavy Metal con le lettere maiuscole. Si potrà accusare i Black Phantom di ispirarsi apertamente agli Iron Maiden ma, da fan sfegatato di Harris & soci, credo che questo sia un pregio e non certo un difetto! Oserei anzi dire che spero vivamente che gli Irons riprendano a suonare musica come fanno oggi i Black Phantom! Del resto è dai tempi di “Brave new world” che non lo fanno più e 20 anni sono davvero tanti....

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    15 Marzo, 2020
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Dietro il nome dei DeadRisen si celano le menti del grande Mike Lepond (bassista dei Symphony X e di miriadi di altre bands) e del chitarrista Rod Rivera, i quali hanno poi reclutato attorno a loro musicisti di esperienza e spessore della scena statunitense, come il batterista Dan Prestup (ex-Midnight Eternal), il tastierista Tony Stahl (Livesay) ed il singer Will Shaw (ex-Heir Apparent). Il risultato di questa unione lo troviamo in questo debut album omonimo, composto da 8 pezzi, cui si aggiunge l’immancabile (quanto inutile) intro ed, in chiusura, la cover di “For whom the bell tolls” dei Metallica. Partirei proprio da qui, ascoltare le tastiere su un brano storico dei Metallica mi ha fatto un po’ accapponare la pelle, lo confesso, ma la versione resa dai DeadRisen non dispiace affatto e mantiene pressoché intatto l’impatto sonoro dell’originale. Gli altri pezzi sono oscuri (un po’ come l’artwork dell’artista Drake Mefestta) e ricchi di atmosfere; un power molto tecnico, ma anche elegante e teatrale, con qualche tocco più duro, quasi thrash, ogni tanto. La voce di Will Shaw si presenta spesso graffiante ma, quando serve, sa essere versatile e melodica (come nella splendida ballad “Reach for the sun”, quasi seventies nel suo flavour romantico). Rod Rivera e Mike Lepond si divertono a mettere in mostra le loro doti con i rispettivi strumenti nelle tante parti soliste, mentre le tastiere fanno da raccordo in sottofondo (ma ogni tanto si ritagliano brevi spazi da protagonista). Il batterista, infine, impone spesso ritmi frizzanti e si vede che sa il fatto suo. Non abbiamo davanti un power easy-listening, ma un sound che necessita di diversi ascolti per essere compreso ed apprezzato nella sua globalità; questo “DeadRisen” è dunque sicuramente interessante e potrà far breccia nei cuori di chi cerca maggiori tecnicismi e ricercatezza nel più classico power made in USA. Bisogna seguire con attenzione questi DeadRisen perchè hanno qualità da vendere; vista però la quantità immane di progetti messi in piedi da Mike Lepond, il dubbio se ci sarà un seguito a questo album può sorgere spontaneo. Noi lo speriamo....

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    14 Marzo, 2020
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Uscito a metà dicembre 2019, ma arrivatoci solo da pochi giorni, “Madness and heroes” è il debut album degli spagnoli Norwald, band dedita ad un canonico, ma piacevole female fronted symphonic power metal. La singer Ann Meseguer (da gennaio 2020 sostituita dalla californiana Caroline “Phoenix”) non è però la solita voce lirica ma, pur avendo un’ugola acuta, non si lascia mai andare a liricismi e teatralità varie, tipiche di questo genere di metal. Seppur quindi le influenze dei grandi nomi della scena internazionale si facciano sentire (primi Nightwish ed Epica soprattutto), il cantato marca la differenza (e non certo in negativo!). C’è poi la chitarra solista dell’ottima ed affascinante Patri Grief che regala assoli di gusto in quantità (palesemente ispirata dalla scuola neoclassica dei grandi nomi del nord-Europa), ben supportata in questo anche dalle tastiere di Frehul Martinez e dalla chitarra ritmica di Alejandro Leonidas. Jeffrey “the Destroyer” al basso sa anche ritagliarsi qualche breve spazio da protagonista, mentre la batteria di David “the Breaker” tiene ritmi sempre sostenuti e frizzanti. I vari ascolti dati a questo disco sono stati dunque sempre piacevoli, complice anche un songwriting efficace, che evita di allungare inutilmente i dieci pezzi (cui si aggiunge l’immancabile ed inutilissima intro). Si potrà tacciare i Norwald di non essere originali e di non fare nulla per esserlo (obiettivamente nell’ultimo quarto di secolo sono in tanti ad aver suonato a questa maniera), si potrà parlare della banalità dell’artwork e dei titoli dei brani, ma di certo non si potrà accusarli di comporre musica noiosa o non piacevole. Ottima infine la produzione, cosa non scontata per un’autoproduzione. La passione e perizia che ci mettono va dunque premiata, dato che questo “Madness and heroes” è ben fatto ed in grado di farci ascoltare ¾ d’ora di buona musica symphonic power. Spero che qualche label si accorda dei Norwald e consenta loro di farsi conoscere maggiormente in giro!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    11 Marzo, 2020
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Dietro al nome Bells And Ravens si cela il chitarrista e polistrumentista tedesco Matt Carviero; originariamente sarebbe dovuto essere un progetto estemporaneo, ma poi è diventato la sua attività principale. Per realizzare gli 8 pezzi che compongono questo debut album, intitolato “In our blood”, ha reclutato il semi-sconosciuto singer (almeno fuori dalla Germania) Selin Schönbeck, il quale fa parte di bands come We Are Legend e Then Comes The Night (non proprio le più famose del mondo...). Ma cosa suonano i Bells And Ravens? Il loro è un power metal dai forti influssi sinfonici, soprattutto nella seconda metà del disco, quando Matt Carviero si mette in proprio e tutto da solo suona parti della quinta sinfonia di Beethoven, del lago dei cigni di Tchaikovsky e di alcune sinfonie di Anton Bruckner. Già solo per questi ultimi tre pezzi il voto sarebbe tendente al massimo e varrebbe la pena di investire i propri soldi per l’acquisto di questo disco, ma il full-lenght non è composto solo da tre tracce e ce ne sono altre cinque con cui bisogna fare i conti. Se l’opener “Rise” paga il proprio tributo al power di scuola scandinava (chi ha detto Stratovarius?) e si lascia ascoltare davvero gradevolmente, con la seguente “Bridges ablaze” viene fuori una forte impronta degli Edguy, fatte le dovute proporzioni tra la voce del grande Tobias Sammet e quella del pur bravo (ma non eccezionale) Selin Schönbeck. Mentre “Now” è la classica power-song con ritmo bello sostenuto che infonde energia ed allegria, “Until I leave” è quasi avulsa dal contesto, acustica nella prima metà e poi trasformata nella classica ballad romantica e zuccherosa. L’ultimo brano cantato è “The fire inside”, una sorta di tributo al power made in Germany di gente come Rage e Primal Fear; certo se avessimo un Ralph Scheepers a cantarlo (anche se Schönbeck non se la cava male), questo pezzo sarebbe una bomba! Le ultime tre tracce dell’album, come detto, sono musica classica in chiave metal, da ascoltare in religioso silenzio e con il massimo rispetto, fosse solo per la grande tecnica strumentale che viene richiesta. “In our blood” è un esordio eccellente per Matt Carviero ed i suoi Bells And Ravens; ci auguriamo presto di avere un degno successore, magari con qualche brano classico in più.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    10 Marzo, 2020
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Originariamente non sarei dovuto essere io ad occuparmi di questa recensione, dato che nello staff di allaroundmetal.com c’è sicuramente chi avrebbe potuto farla meglio di me, conoscendo più profondamente la musica degli Spidkilz. Alcune volte succede però che c’è chi è sovraccarico di materiale da recensire, tanto da non riuscire a fare una recensione in tempi accettabili ed ecco che c’è chi deve sopperire. Così è toccato a me occuparmi di questo “Threads are breaking”, secondo full-lenght della band piemontese capitanata dalla grande Elisa “Over” De Palma, che apprezzo sin dai tempi in cui cantava per i White Skull. Non conoscendo bene la precedente produzione targata Spidkilz, eviterò di cacciarmi in inutili paragoni e vi parlerò solamente di quanto ho potuto ascoltare in questi 8 pezzi, della durata totale di poco inferiore ai 50 minuti. Partiamo da una considerazione: per un genere come il thrash proposto dal gruppo, il minutaggio elevato delle composizioni può inficiare sull’efficacia e sull’impatto del singolo brano. Ed è quello che succede in questo disco, con tracce fin troppo lunghe e che avrebbero avuto migliore riuscita se fossero durate qualche minuto in meno; si sarebbero potuti evitare inutili orpelli, magari accorciare qualche parte solista delle due chitarre, come ad esempio nella parte finale di “Arachne”, “Ares” e “Kronos”. A livello di testi, si parla di divinità o miti greci, applicati alla società odierna, con un messaggio di fondo: l'umanità non impara mai troppo dal passato e continua a sbagliare. Le tematiche sono anche richiamate nell’artwork dell’album (che, per essere sincero, non mi ha fatto impazzire), in cui sono raffigurate le tre moire che, tessendo i fili del destino umano, sono adirate e vorrebbero tagliarli definitivamente. Ma torniamo alla musica. Lo speed/thrash degli Spidkilz è ben fatto ed i vari pezzi hanno il giusto impatto; chi ha un po’ di anni sulle spalle, come il sottoscritto, non potrà evitare di sbattere il capoccione in headbanging trita-cervicali, grazie anche ai ritmi sostenuti imposti dall’ottimo Riccardo Bazzinelli alla batteria. Chitarre e basso fanno un lavoro egregio (ma eviterei di strafare, come detto in precedenza), mentre la mitica vocalist ha ancora un piglio ed un’energia invidiabili e canta ancora in maniera eccezionale. La produzione mi sembra migliorabile (spero sia un difetto dei files avuti a disposizione per la recensione!), risultando forse un po’ troppo old-style, anche se per questo specifico genere musicale si può anche non essere così pignoli. Tirando le somme, “Threads are breaking” degli Spidkilz si ascolta piacevolmente ed ha la giusta energia; sicuramente non passerà alla storia del metal, ma è un disco che mette in mostra tutto l’amore e la passione per certe sonorità e, come tale, merita sicuramente approvazione.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    10 Marzo, 2020
Ultimo aggiornamento: 10 Marzo, 2020
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Tornano gli italo/tedeschi The Unity con un nuovo album, il terzo della loro carriera, intitolato semplicemente “Pride” e dotato di una copertina alquanto minimale. Se in precedenza il progetto parallelo di Henjo Richter e Michael Ehre molto doveva alla loro band principale, i Gamma Ray, questa volta è stata aumentata la componente più tipicamente melodica ed hard-rockeggiante, tanto che gli 11 brani (+ solita intro) dell’album non possono evitare di richiamare alla mente le più recenti uscite degli Edguy, fatti i dovuti paragoni tra la voce dell’ottimo Giambattista Manenti e quella inimitabile di Tobias Sammet. Il sound si è quindi ammorbidito parecchio (direi anche troppo!) e sono poche le tracce più robuste e tipicamente power; fra queste citerei sicuramente l’ottima “Damn nation” (la migliore in assoluto!), come anche “Hands of time”, “Scenery of hate” e “We don´t need them here” (primo singolo estratto dal disco). Per il resto, il disco si ascolta sempre piacevolmente, anche se alcune canzoni mancano un po’ di tiro e rischiano alla lunga di annoiare (“Wave of fear” su tutte! Fin troppo blanda e ripetitiva per essere onesti). Parecchio avulsa dal contesto inoltre la rockeggiante “Rusty cadillac”, traccia che forse era meglio evitare o relegare al ruolo di bonus track di qualche edizione speciale. Abbiamo davanti professionisti esperti e di ottimo livello, quindi la prestazione di ognuno dei componenti del gruppo è sicuramente di qualità, così come pressoché perfetta è la produzione. Purtroppo, rispetto al passato, un passo indietro è stato fatto, a mio parere il sound è stato troppo ammorbidito ed un po’ più di energia non avrebbe guastato. Ciò non toglie che questo “Pride” è comunque un buon disco che si ascolta gradevolmente e conferma questi The Unity tra le migliori bands in circolazione nel nord-Europa per lo specifico genere musicale. In conclusione, da segnalare che l’album è in commercio come doppio-cd o doppio-vinile, oltre ad un boxset per collezionisti (limitato a sole 250 copie); purtroppo per la recensione abbiamo avuto a disposizione solamente il primo dei due dischi, mentre il secondo presenta alcuni pezzi live ed il brano “Nowhereland”, b-side del singolo “Never forget”, risalente al 2017.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    10 Marzo, 2020
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A distanza di due anni dallo splendido “Rituals of black magic”, tornano i toscani Deathless Legacy, questa volta con un singolo, un solo brano di oltre 24 minuti, dal titolo “Saturnalia”. Le atmosfere orrorifiche sono protagoniste da sempre nel sound della band di Steva e Frater Orion ed anche questa volta non si discostano dalla tradizione. Il grande Alex Van Eden (al secolo: Alessio Lucatti) con le sue tastiere imbastisce sonorità che ricordano molto da vicino il maestro Claudio Simonetti; oserei dire che se i Goblin facessero musica metal, sarebbero gemelli dei Deathless Legacy. Bisogna mettersi comodi ed essere della giusta predisposizione mentale per affrontare la musica di questa band ed un pezzo di simile durata. Cambi di tempo, atmosfere differenti, sonorità finanche alienanti, c’è di tutto in questi 24 minuti di musica, una sorta di opera teatrale in chiave metal. Trovare difetti mi è davvero complicato, direi anzi che non ne vedo alcuna possibilità; qui tutto funziona alla perfezione, dalla produzione eccelsa, alla prestazione canora di Steva (sempre grandissima, espressiva, sofferta e grintosa a seconda delle necessità del componimento), passando per tutti i musicisti, su cui naturalmente spicca il tastierista proprio per le solenni atmosfere che, di volta in volta, tesse con il suo strumento. Nello specifico settore dell’horror metal, sono pochissime le bands al mondo in grado di reggere il confronto con i Deathless Legacy, è bene tenerlo a mente! E questo “Saturnalia” ne è la lampante conferma.

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