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Opinione scritta da Roberto Orano

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Opinione inserita da Roberto Orano    13 Ottobre, 2015
Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre, 2015
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E' tempo di full lenght per gli One Year Delay, stampato da Pavement Music. La band si presenta con un crossover nu-metal che pianta le sue radici in tantissimi stili diversi e per questo ci ricorda molte bands che negli anni novanta e primi duemila hanno avuto grandi riscontri e molto spesso un buon successo (più o meno meritato), tra queste ci vengono in mente Sevendust, Adema, Glassjaw, American Head Charge, 36 Crazyfists e Stone Sour. Un mix su cui la band riesce sempre a mantenere un controllo impeccabile, in un sound decisamente energico che vede il suo culmine negli stacchi con tanto di screaming violentissimo, mentre nelle parti più riflessive i nostri, alle volte, tendono la mano a del rock un po' più scolastico, e nelle parti pulite ripescano ancora dai già citati Adema del frattellastro di Jonathan Davs dei Korn.
Il problema è che, quanto descritto poco fa, cambia vertiginosamente senso con "Water Under The Bridge", una sorta di song post-grunge che ricorda i Soundgarden, e "Miss You" tra punk-rock e Kid Rock. Fortunatamente la band riesce a rimettersi in sesto e a riprendere il proprio sensato discorso con le ultime due conclusive songs.
Un peccato, perchè l'album in sè è davvero molto interessante e piacevole nell'ascolto, certo due tracks (su sette) che c'entrano ben poco nel contesto non sono mai perdonabili, ma vogliamo premiare la band con un mezzo punto in più per la grandiosa attitudine!

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Opinione inserita da Roberto Orano    13 Ottobre, 2015
Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre, 2015
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A seguito di due EP autoprodotti poi ristampati come unico full-lenght dalla canadese PRC Music, gli ASS si presentano nel bel mezzo di questo 2015 con un album inedito di dieci canzoni intitolato "Shitty Wizard VS Super Satan".
E se già dal titolo si può facilmente immaginare la pazzia compositiva della band, che già in passato ci aveva deliziati con songs dai titoli strampalati e simpatici, quel che stupisce è la violenza thrash / hardcore che il quintetto texano riesce a mettere in piedi, in un riffing devastante ed in your face che pesca soprattutto nei frangenti più veloci dal thrash anni ottanta, con solos di pregevole fattura, mentre negli stacchi cadenzosi i Nostri pescano qua e là nell'hardcore americano con soluzioni che potrebbero ricordare bands come Agnostic Front ed Hatebreed, il tutto accompagnato da un cantato semi-parlato/gridato decisamente slabbrato che puzza dannatamente da strada.
Un connubio tra due storici generi nettamente riuscito per gli ASS (okay, mi fa strano ogni volta che pronuncio il nome di questa clamorosa band), in un disco divertente costituito tra songs della durata media di due minuti e mezzo, con una sessione ritmica tritatossa ed un'attitudine con pochi eguali, un sound da birra e pogo assassino!

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Opinione inserita da Roberto Orano    09 Ottobre, 2015
Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre, 2015
Top 10 opinionisti  -  

Avevo proprio voglia di ascoltare qualcosa di nuovo in questi giorni nel bel mezzo del cambio di stagione. Ebbene, ecco i connazionali Blind Marmots con questo omonimo full-lenght che sin dalle prime note mette in luce un sound capace di pescare dal vecchio (Blues, Stoner, influenze rock d'oltreoceano), ma con una ventata di modernità, il tutto suonato con un'energia travolgente e, chiariamoci, lo dice uno che non mastica quotidianamente questo genere.
La band, a partire dall'opener "Lethal Cycle Of The Marmot", infatti, ci spiazza con uno stile particolare che mischia un potente stoner a riff di puro stampo progressive che vengono esaltati poi nel bridge che precede l'ultima parte di canzone. Ma è un susseguirsi di influenze diverse quel che stupisce maggiormente ascoltando il disco, basti pensare a tracce come l'energica "Eat The Maggots" che sfocia in un assolo spaziale, ma ancor più a "Kaleidosoup" che inizia sull'heavy e poi si ferma in una strofa cadenzosa quasi "doomeggiante" ed in meno di due minuti ci travolge con degli ottimi passaggi che introducono "Madchildren" dall'incipit thrash.
Ecco perchè, prima ancora di poter parlare della validità di queste canzoni, ciò che salta all'occhio fin da subito è la grandiosa capacità del gruppo di mettere insieme mille generi diversi tra cui stoner, prog, alternative, heavy-thrash, crossover (ascoltare "Te Saco La Mierda" per credere)... il tutto con una facilità ed una freschezza di idee che conquista l'ascoltatore dai primissimi riff. Bene così!

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Opinione inserita da Roberto Orano    09 Ottobre, 2015
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Sono trascorsi alcuni anni dall'uscita dell'ultimo inedito disco in studio dei piemontesi Disarmonia Mundi; la one-man band capitanata dal pluristrumentista Ettore Rigotti torna oggi alle stampe con questo nuovissimo "Cold Inferno" ancora una volta sotto l'ala della nostrana Coroner Records.
La band, supportata dai due vocalist Cravinale e "Speed" Strid (Soilwork) ormai si è ritagliata un posticino d'onore nella scena melodic death metal internazionale con bellissime uscite come "Fragments Of D-Generation" e "Mind Tricks", seppur per molti non sia mai riuscita a discostarsi da quanto già fatto dai ben più conosciuti Soilwork, band a cui i Disarmonia hanno sempre fatto riferimento (musicalmente parlando).
Ettore & company tornano oggi con un disco, come sempre, ben suonato e registrato come dio comanda, come era lecito aspettarsi, con songs che mettono assieme aggressività death e melodie esaltanti, tra sfuriate al fulmicotone e molti riusciti cambi d'umore che arrivano a sfociare in piacevoli refrains e clamorosi solos di chitarra, figli degli insegnamenti impartiti dai grandi maestri svedesi.
Purtroppo, e lo dico da fan, in sei anni di attesa era lecito aspettarsi una svolta nel sound dei Nostri, che alla lunga suona un tantino ripetitivo e privo di quella scintilla che fa ribaltare dalla sedia, come la solita ricetta che nel 2015 non ha più lo stesso impatto. Ovviamente ciò che salva da ogni possibilità di disfatta, come già detto, è il saper suonare e il saper scrivere, con un songwriting riuscito e capace di rendere ogni traccia molto scorrevole. Un disco da inserire nella propria collezione!
L'unico rammarico è che per chi segue i DM dagli esordi, sicuramente ci si aspettava un capolavoro, ma per questa volta dobbiamo accontentarci di un buon disco, il che comunque non è male!

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Opinione inserita da Roberto Orano    28 Settembre, 2015
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Li pensavamo morti e sepolti i Lamb Of God; si perchè se già c'erano dei lievi dubbi concernenti l'originalità sulla lunga distanza del sound della band, con l'ultimo "Resolution" si era arrivati a convincersi che il gruppo americano avesse subito un nettissimo calo in termini di songwriting da cui fosse impossible rialzarsi degnamente.
E invece, i thrash-corer statunitensi se ne tornano alle stampe con questo nuovo "Sturm Und Drang" lasciandosi totalmente alle spalle ogni genere di pressione e tornando a martellare i propri fans di vecchia data a suon di riff groovy, sfuriate modern thrash metal e grancassa tritaossa.
Il disco parte in quarta con una manciata di songs dal tiro eccezionale, ciò che manca a tantissime bands oggi, con stacchi massicci e ripartenze violentissime su cui si stampa alla perfezione lo screaming slabbrato Blythe. E se dalle canzoni di apertura non ne caviamo fuori nemmeno un attimo di pausa, con "512" traspare moltissima melodia in refrains un pò catchy che ci portano alla brutale "Embers" dal bellissimo lavoro alle pelli.
Si arriva dunque a "Footprints", una traccia chiaramente in your face e di facile ascolto che introduce una sorta di alternative metal sotto il nome di "Overlord". E' proprio da qui che i Nostri sembrano calare piuttosto evidentemente il proprio lavoro compositivo, con delle canzoni non proprio ispiratissime che ci portano fino alla fine del disco; e forse c'era da aspettarselo vista la non moltissima varietà del sound della band.
Un disco ben fatto da parte dei Lamb Of God, che farà felici i fans di vecchia data e chiunque si voglia affacciare al metal estremo moderno.

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Opinione inserita da Roberto Orano    10 Settembre, 2015
Ultimo aggiornamento: 10 Settembre, 2015
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Si presenta con una copertina non certo indimenticabile e decisamente minimalista nei più minimi termini possibili questo "Hide" dei Burweed. Ma se l'artwork non attirerebbe nessuno all'acquisto di questo EP, ciò che invece convince e che conferma il detto "l'apparenza inganna" è la musica in esso contenuta, una manciata di mazzate dalle atmosfere sludge e l'attitudine core-ggiante con un riffing che talvolta prende spunto dal death scandinavo, il tutto a comporre un sound lento ma ben studiato, oscuro e slabbrato, ma al contempo fiero di una produzione degna di nota che esalta i refrains melodici in cui la band è bravissima sulle sei corde puntando alla semplicità, ma con grande sapienza.
Le parti strumentali poi, davvero introspettive e dannatamente piacevoli, con un tocco di malinconia ad arricchire un sound molto aggressivo, ma sempre compatto in cui i cambi d'umore non sono proprio all'ordine del giorno. A farla da padrona è la sessione ritmica, che spicca letteralmente dall'ensemble con un lavoro pregevole sia sul basso che tra le pelli, potente, compatta, quadrata e protagonista di passaggi tecnicamente semplici, ma mai scontati.
Una bella prova per questi Burweed, rabbiosi e malinconici allo stesso tempo, con un bel groove che fa menare la testa, e tanta attitudine, in un disco, "Hide", che sa sorprendere pur stando sempre su ritmi controllati ma esplosivi.

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Opinione inserita da Roberto Orano    07 Settembre, 2015
Ultimo aggiornamento: 07 Settembre, 2015
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Tornano alle stampe i melodic death/thrashers di Goteborg, Soilwork, una delle bands preferite di chi scrive, ancora oggi supportati dalla major teutonica Nuclear Blast con "The Ride Majestic", un disco che sicuramente si porta dietro moltissime aspettative dai fans visto il successo riscontrato con il precedente full-lenght.
La band capitanata da Bjorn "Speed" Strid, non so bene per quale motivo, è ormai assalita ad ogni uscita da critiche assurde, forse perchè fin troppo melodici per i death metallers e per i fans degli esordi; ma sta di fatto che oggettivamente faticano davvero a sbagliare qualcosa e ormai sono dei veri e propri portabandiera del metallo swedish. Si, perchè anche se dischi come "Stabbing The Drama" e "A Predator's Portrait" sono forse impossibili da ripetere, i Nostri comunque continuano imperterriti verso la meta variando leggermente il proprio sound, un po' piattino ma già in virata con "Sworn To A Great Divide", e decisamente più maturo e con le idee più chiare nel doppio disco chiamato "The Living Infinite", nonchè con l'EP che ha preceduto quest'uscita.
Con "The Ride Majestic" troviamo sin dalle prime note il solito connubio di melodic death/thrash moderno costituito da strofe aggressive e ritornelli più melodici, talvolta catchy. La band, come peraltro accaduto in "The Living Infinite", punta spesso a strizzare l'occhio verso frangenti quasi progressive che possono ricordare i connazionali Scar Symmetry, mentre un Bjorn in pienissima forma spara screamings di pregevole fattura ed un cantato pulito magnifico proprio come ci ha abituati in tutte le precedenti uscite (anche se forse su qualche armonizzazione si poteva lavorare meglio). La sessione ritmica, ora più che mai, risulta essere devastante e capace di spazzare via ogni cosa (“Enemies In Fidelity” e “The Phantom" ne sono l'esempio!), in un sound che sa aprirsi su bellissime melodie dai superbi arrangiamenti, ma che non sono più capaci di regalarci le emozioni di un tempo.
Purtroppo per i Soilwork, non si può essere così positivi in termini di longevità nell'ascolto, infatti, questo nuovo lavoro sembra fin troppo simile nel riffing ed in ogni singola soluzione sonora alle ultime due uscite discografiche, pertanto si crea una specie di alone di ripetitività di fondo, con refrains certamente catchy, ma spesso fin troppo scontati e a cui sembra mancare quell'energia emotiva che farebbe cantare a squarciagola.
Detto questo, la band comunque sopperisce a tutto con una ricetta che in ogni caso si rivela sempre vincente, anche per quanto concerne la assoluta capacità in termini di songwriting in un genere ormai saturo in cui ancora pochissime bands riescono a dire la loro, e tra queste ci sono proprio i Soilwork!

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Opinione inserita da Roberto Orano    07 Settembre, 2015
Ultimo aggiornamento: 07 Settembre, 2015
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Primo demo per i veneti Indikon. La band, nata nel 2012, arriva sulle nostre pagine con un symphonic metal guidato dalla voce femminile della cantante Asja per nulla conforme ai soliti e abusati clichè odierni, infatti, il gruppo mette in piedi un sound molto più vario che trae ispirazione dal death metal, ma con nette impronte gothic ed appunto sinfoniche. Pertanto, ad accompagnare la voce femminile, a tratti lirica, troviamo un growl gutturale e alle volte un po' di screaming di tendenza black metal. Il riffing è quasi sempre leggero ed arriva raramente a toccare vette di aggressività rimarchevoli, ma ciò che sorprende sono le buone melodie in primis delle sei corde che riescono oltretutto a stilare dei solos di buonissima fattura, mentre le tastiere tessono dei buoni arrangiamenti che ci accompagnano per tutto il disco, a volte in ottimi bridges.
Ciò che purtroppo lascia un attimino d'amaro in bocca è forse la troppa semplicità della sessione ritmica, oltre che le parti in voce lirica che poco hanno a che fare con questo sound, mentre magari qualche riff graffiante in più avrebbe sicuramente giovato in un sound, si suonato bene e comunque scritto con intelligenza, ma che alle volte non riesce a coinvolgere a pieno l'ascoltatore. Molto interessante, invece, una certa venatura folk ed epica che si percepisce in alcuni refrains.
Una band che al primo EP si dimostra capace, ma che sicuramente deve smussare il proprio stile, comunque molto rispettabile e lontano da certe mode inutili del momento.

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Opinione inserita da Roberto Orano    07 Settembre, 2015
Ultimo aggiornamento: 07 Settembre, 2015
Top 10 opinionisti  -  

Tornano alle stampe ancora una volta per Nuclear Blast, dopo le brutte sensazioni lasciatisi alle spalle con il precedente "Hate" i deathcorers australiani Thy Art Is Murder.
La band, con questo nuovo "Holy War", ripercorre quanto già fatto in passato senza cambiare di una virgola il proprio stile che, per certi versi, fa davvero fatica a stare nei paletti del genere deathcore, in quanto, come ci hanno abituato anche con le precedenti uscite, la band cerca sempre di portare la propria furia estrema al limite, valicando territori brutal death e di death metal d'oltreoceano.
Ancora una volta il combo del Pacifico ci spara addosso una valanga di riff imperterriti su cui si stampa il growling un tantino monocorde del frontman, il tutto accompagnato da una sessione ritmica tiratissima e sparata a mille che non lascia alcun spazio a melodie catchy, né il tempo per prendere una boccata di ossigeno. Tutto questo, che a parole può apparire come un punto di forza che differenzia il sound dai clichè odierni del genere in questione, in realtà è anche il tallone d'Achille del gruppo, spesso troppo occupato a tartassare l'ascoltatore, quando invece qualche frangente riflessivo, non solo arricchirebbe il disco, ma gli donerebbe un tocco di varietà che attualmente non esiste nello stile dei nostri. E così purtroppo la band finisce per sfornare brani incazzatissimi e sparati come mine vaganti l'uno dopo l'altro, ma in cui i breakdowns e le ripartenze arrivano a toccare livelli di prevedibilità difficilmente sorvolabili per chi scrive. Chiaro, le doti tecniche di questi musicisti sono pressochè infinite, ma purtroppo l'ispirazione nel songwriting non la vendono in farmacia, pertanto, non possiamo aspettarci grandi cose da questa band nel prossimo futuro.
Consigliamo ai Thy Art di provare a rimettersi in gioco, di rimescolare le carte e vedere cosa ne vien fuori, perchè così non si va oltre la sufficienza risicata!

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Opinione inserita da Roberto Orano    04 Settembre, 2015
Ultimo aggiornamento: 04 Settembre, 2015
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Primo, omonimo, EP per i deathsters valdostani Watch Them Burn. La band si presenta sin dalle prime note con l'opener "The Day After" con un death metal melodico che ha netti sentori metalcore. In linea di massima, i cambi di tempo all'interno della song non sono affatto male, ciò che non convince è la voce (specialmente nei refrains) e soprattutto l'arrangiamento della voce stessa, che fatica a coinvolgere e ad amalgamarsi con gli strumenti. Buono il finale con il susseguirsi di breakdowns.
Nelle canzoni successive si ha un po' la stessa sensazione: i brani denotano buona tecnica da parte dei singoli componenti, capacità di mettere assieme melodia e aggressività in maniera intelligente e un sound che trasuda passione, il problema è ancora una volta l'arrangiamento vocale, dispiace dirlo, ma la voce fatica davvero ad esaltare i brani che compongono questo "Watch Them Burn" (tranne che sulle soluzioni più veloci, che sono anche quelle più riuscite), a questo si aggiunge una mancanza di "riff graffianti" (non bastano pochissimi frangenti davvero esaltanti), infatti, seppur le chitarre facciano il loro onesto lavoro, manca proprio quell'impatto intransigente che ti fa menare la testa ad oltranza. Visto anche il fatto che questo sound spesso sa di sentito e risentito e non può godere (per ovvie ragioni) di quell'originalità necessaria al giorno d'oggi, un po' più di energia e carica emotiva avrebbero giovato sicuramente.
Resta il fatto che la band con questo demo si è presentata al pubblico dimostrando buone capacità, a partire dagli ottimi spunti della conclusiva "Soul-R"; ci sono delle cose da migliorare, ma è più che normale, quindi ci aspettiamo a breve un full-lenght per poterli valutare come si deve!

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