01. The Wolves Die Young
02. Running Lights
03. Take One Breath
04. Cloud Factory
05.Blood
06. What Did You Do In The War, Dad?
07. Half A Marathon Man
08. X Marks The Spot
09. Love
10. Larger Than Life
01. The Wolves Die Young
02. Running Lights
03. Take One Breath
04. Cloud Factory
05.Blood
06. What Did You Do In The War, Dad?
07. Half A Marathon Man
08. X Marks The Spot
09. Love
10. Larger Than Life
Forse a seguito di un esame di coscienza o più semplicemente per un amichevole diktat della loro label, Tony Kakko ed i suoi, fanno un passo indietro rispetto al precedente “Stones Grow Her Name”, ritornano a prendersi il proprio logo storico, sbattono un lupo in copertina e ne tengono da parte qualcun altro per usarlo come protagonista delle tematiche delle canzoni, giurano anche che con quest’album torneranno in auge le vecchie sonorità dei Sonata Arctica.
Ora, a dirla tutta, a sentire il disco e poi pensare ad una canzone come “Wolf & Raven”, sembra che quest’ultima sia stata scritta da un’altra band omonima. Le vecchie sonorità dei Sonata Arctica si fermano a “The Days Of Grays”, da cui il nuovo album sembra attingere molto nelle atmosfere riproposte, fatta eccezione per le opulente orchestrazioni che caratterizzavano diversi momenti di quel disco.
Tre sono i brani più immediati del nuovo lavoro della band finlandese: la veloce “Running Lights”, che doveva essere una bonus track, salvo poi essere promossa dai Sonata tra le canzoni titolari dell’album. Senza girarci intorno, la qualità è effettivamente quella di una piacevole bonus track, senza infamia, senza lode.
Il primo singolo, nonché opener dell’album, nonché primo orrendo video girato per il nuovo album, si può invece descrivere come una sorta di sorella minore della title-track di “The Days Of Grays”, malinconica e immediata nelle linee vocali, più semplice nell’arrangiamento, con qualche tocco di classe a opera del nuovo bassista Pasi Kauppinen, di quelli che danno quel minimo di profondità ad un pezzo travestito da metal, ma dall’animo pop. “Cloud Factory”, forse non è noiosa come lo stesso tastierista Kingenberg ammette, ma non è altro che una canzonetta allegra, semplice e orecchiabile, con un folkloristico refrain azzeccato.
Probabilmente i detrattori di album come “Unia” o lo stesso “The Days Of Grays” non saranno d’accordo con me, ma penso che ad alzare un po’ il tiro e a dare vera sostanza a “Pariah’s Child” ci pensino altri tre brani, rappresentanti del lato più progressive e sperimentale dei Sonata Arctica, da paragonare a tracce complesse come “The Dead Skin” o “Juliet”.
Parlo di “Take One Breath”, “What did you do…? e la dura “Blood”. In particolare quest’ultima è forse l’unica canzone dall’animo veramente metal dell’intero disco, e la bontà della sua accelerazione centrale fa capire che se a Tony interessasse ancora fare heavy metal, ci riuscirebbe alla grande, altro che contentini buttati a destra e a manca.
Purtroppo “Stones Grow Her Name” non poteva proprio essere cestinato del tutto, ed infatti i Sonata Arctica per rassicurarsi di non avere per niente nelle proprie corde musicali una qualsivoglia attitudine hard rock, dopo la pessima “Shitload o’Money” dell’album precedente, ci riprovano con la brutta “Half Marathon Man” che, in più della precedente, può vantare anche il fatto di avere tre minuti buoni divisi tra un intro ed un outro inutili e noiosi, tra i quali si snoda un brano banalotto, con tanto di hammond sprecato.
Altrettanto disastroso è l’altro singolo, la ballata “Love”, negazione stessa dell’ispirazione musicale. Un minuto in più di questa lagna avrebbe gravemente compromesso l’intera parte romantica della discografia dei Sonata, un gruppo che ha saputo regalarci momenti di “affettuosità” unici negli anni, e che ora sembra prendersi beffe di noi con un banale giro di piano, buono per qualche edizione riuscita particolarmente male del nostro festival di Sanremo.
“X Marks The Spot” rientra invece nell’insieme dei brani più goliardici e pazzi dei Sonata Arctica, come tale deve essere presa, come tale va goduta. Dopotutto l’interpretazione di questa sorta di “predicatore pazzo” da parte di Tony Kakko è divertente e ben fatta. Il pezzo devia dal percorso della canzone classica, per metà è parlata e urlata, musicalmente sembra scritta da un cocainomane strafatto, è proprio in questo consiste la sua forza. Naturalmente “X Marks…” è facilmente distruttibile dalla critica se viene presa seriamente, ma è ciò che non voglio fare, è giusto dire che anche la seconda metà dell’album custodisce qualcosa di buono da ascoltare.
E se parliamo di bontà, “Larger Than Life”, la lunghissima canzone finale, ne ha di momenti qualitativi, ed ancora una volta premierei le incursioni stile musical con cui Tony ha voluto arricchire la suite del disco. Ma il musicista ormai sembra non riuscire più a trovare il giusto mezzo, tende ad adagiarsi su allori dorati o, come in questo caso, a strafare. “Larger Than Life” poteva benissimo durare la metà dei suoi 10 minuti e sarebbe stato un ottimo arrivederci. Invece, alla pari di “Deathaura”, il pezzo è un alternarsi di passaggi ottimi ed altrettanti vuoti a perdere, dà l’impressione di opera incompiuta e troppo pasticciata.
Insomma "Pariah's Child" ha buoni episodi ma forse troppi mancamenti musicali, tuttavia i Sonata Arctica sembrano accontentarsi, dopotutto la critica può criticare quanto vuole, ma il disco sta vendendo bene un po’ dovunque e c’è da dire che ho visto anche molti voti ottimi dati al nuovo lavoro della band di Kemi, anche se non so esattamente secondo quali canoni siano stati dati certi voti.
Io dico che se ci si accontenta, possiamo ritenere il disco sufficiente o giù di li, sicuramente migliore del precedente, non che ci volesse certo un genio musicale per riuscirci. Poi però ci si deve davvero chiedere: “Ricordando pezzi come “The Cage” o “Fullmoon” etc…. ci si può accontentare davvero?”